Londra per sci-fi geek

Londra è bellissima, sempre, e ogni volta che ci torno è come se visitassi una città diversa.

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Di lei amo tante cose.
La metropolitana perché è semplice, pacata e familiare: scendi a una qualsiasi fermata e hai la città ai tuoi piedi.
I suoi mezzi di trasporto, perché non mi passerà mai la sorpresa di vedere gli autobus a due piani e le persone che guidano a destra.
Gli infiniti ristoranti di tutte le etnie, anche quelle cucine che nemmeno sapevo facessero una categoria di cucina a sé.
Lo spirito British delle sue casette di mattoni con i cancelletti di ferro e delle sue cabine telefoniche rosse che resistono stoicamente.

Questa volta è stata la Londra dei musei e delle gallerie a rapirmi il cuore.
In 48 ore ho visitato la Tate Modern, il Victoria and Albert Museum e, soprattutto, la mostra Into the Unknown, a Journey through Science Fiction, al Barbican Center.

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Di questa esposizione avevo letto qualcosa già da un po’ e mi aveva attratto il fatto che ci sarebbe stata un’installazione ispirata a una puntata di Black Mirror, anche se non una delle mie preferite (Fifteen Million Merits).

Into the Unknown è dedicata, appunto, alla fantascienza, e a come l’uomo l’ha interpretata nella letteratura, il design, il cinema e l’arte attraverso i secoli, in relazione alla sua conoscenza del mondo, dell’universo e dell’uomo stesso.

La prima tappa del percorso (Extraordinary Voyages) è rappresentata dalla fantascienza à la Jules Vernes e i viaggi di Gulliver: lo sconosciuto e il fantastico si annidano negli angoli ancora inesplorati della Terra, negli abissi marini, arriva dal passato, e prende la forma di un dinosauro o un gigantesco cetaceo.

Successivamente l’uomo inizia a guardare in su e la paura si trasferisce sulla luna e nello spazio (Space Odysseys), e a tutte le spaventose conseguenze di un viaggio fin lassù, presagendo attacchi di alieni spaventosi e creature siderali.

Infine, in conseguenza alle scoperte della tecnologia, della genetica e della medicina, l’umanità inizia ad avere paura di sé stessa e la fantascienza si trasferisce nella società (Brave New Worlds) e dentro all’uomo stesso (Final Frontiers), che costruisce robot antropomorfi o modifica geneticamente il suo stesso corpo e mente, diventando supereroe e mostro, Iron Man e Frankenstein.

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Il percorso della mostra si snoda tra stampe bellissime dell’Ottocento, libri e fumetti, spezzoni di film di ogni epoca proiettati su grandi monitor che intervallano teche piene oggetti di scena originali, installazioni e videogiochi interattivi.

Un viaggio molto interessante e adatto a veri nerd del cinema di genere: io, orgogliosa rappresentante della categoria, mi sono emozionata davanti a elmetti originali degli Anni Settanta di Darth Vader e degli Stormtrooper, maschere e tute da astronauta usati nel primo Alien, in Star Trek e Interstellar, oggetti di scena di Existenz, Inception, sceneggiature originali di Kubrick.

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C’è anche un’installazione interattiva dedicata a The Martian, in cui è possibile ricostruire una scena del film da un centro di controllo in miniatura.

E quindi, vi chiederete, che ne è stato di Black Mirror?
La parte che aspettavo con più curiosità è stata quella che più mi ha deluso (tant’è che inzialmente ci sono passata davanti all’ingresso pensando fosse solo un’anticipazione della mostra).
Lungo tutto il corridoio di accesso al Barbican sono stati montati degli schermi che riproducono, alternandoli e duplicandoli, alcuni frame della puntata montati da dei videomaker, senza aggiungere nulla a quello che avevo già visto.

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Probabilmente sarebbe stato più significativo, claustrofobico e adeguato allo spirito della serie, se avessero ricreato parte del set della puntata, una stanza con le biciclette, da poter provare in prima persona.

Poco male: mettendo da parte questa piccola delusione, la mostra mi ha comunque affascinata e impressionata, quindi, se anche voi siete amanti del genere e avete in programma un viaggio a Londra, ritagliatevi un paio d’ore per vederla.

Into the Unknown: a journey through science fiction
Fino al 1 settembre 2017
Barbican Center
Silk Street, London.
www.barbican.org.uk

 

Nota a margine.

Ero a Londra sabato scorso, la sera dell’ultimo attentato, e mi ricorderò di questo viaggio anche per questo motivo, anche se in un altro quartiere e l’ho vissuto quasi come se fosse successo in un’altra città. Non ho avuto paura perché fortunatamente non ero lì.

Ma dopo questo episodio continuerò comunque a viaggiare e spostarmi con ancora più voglia di imparare e conoscere, perché penso sia l’unica risposta adeguata da dare contro queste tragedie.

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L’arte di essere fragili

C’era un periodo in cui tra i compiti di italiano assegnati per le vacanze c’era anche la lettura di qualche libro, alcuni obbligatori, altri a scelta.
Nell’estate tra la quarta e la quinta ginnasio, in ansia per chissà cosa dovessi dimostrare e a chi, avevo preso in mano Madame Bovary.
Mi annoiava da morire e l’ho abbandonato a metà, sentendomi frustrata e anche un po’ scema.

Ecco, leggendo L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita, l’ultimo libro di Alessandro D’Avenia, ho pensato che se all’epoca avessi avuto lui come insegnante, non mi sarei mai sentita in colpa per non riuscire a leggere Madame Bovary a quattordici anni. Anzi, forse non lo avrei neanche scelto come libro per l’estate.

Mentre avevo in mano quel volume in cui ci spiega come Leopardi può salvarci la vita (sì, proprio quel Leopardi che a scuola hanno liquidato velocemente e con poco interesse come un gobbo triste che contagiava tutto l’universo con il suo pessimismo) mi sono sentita improvvisamente di nuovo una quindicenne.

Anzi, no, mi sono ricordata com’ero all’epoca, ho capito che la giovinezza è un lontano ricordo, il pensiero mi ha tutto sommato consolata, e mi sono chiesta se adesso sarei una persona diversa se avessi incontrato prima le parole di D’Avenia.
Il suo saggio, infatti, scoperto in età adulta, mi è piaciuto soprattutto per il suo rileggere Leopardi in un’ottica completamente nuova, quella di un poeta dell’energia, della lotta, della speranza, del rapimento, dell’amicizia, della bellezza e dell’ispirazione.
Ma credo che sulla me adolescente avrebbe fatto colpo in maniera ancora più profonda.

Il saggio di questo scrittore e insegnante quarantenne mi ha stupita parecchio proprio per come descrive il rapporto che ha con i suoi studenti e le reazioni che le sue parole suscitano in loro. Non solo perché li porta ad amare la letteratura, che sarebbe di per sé già un traguardo, ma anche perché riesce spesso a far sbocciare in loro delle vere e proprie gemme che fanno fiorire dei cambiamenti importanti nelle loro vite.

Ci racconta infatti che molti ragazzi gli scrivono anche solo dopo aver letto i suoi libri, anche in situazioni di profondo e, in alcuni casi, estremo dolore.
Nelle sue pagine troviamo, tra le altre, una lettera di una ragazza autolesionista, un’altra con una malattia congenita al cuore che non sa ancora per quanto sopravviverà, una ragazza ricoverata in ospedale per una grave forma di anoressia che gli scrive poco prima di morire.
Una delle storie più commoventi è quella di una ragazza che meditava il suicidio, e che gli racconta che fino a quel momento aveva trovato come unico conforto la lettura proprio di Leopardi.

Da tutte queste storie nasce spontanea una domanda.
La letteratura ha davvero (ancora) il potere di guarire un animo tormentato
come quello di un adolescente? Può davvero aprire una breccia dentro quella terra di mezzo che nessuno sembra capire e che oggi è anche (sì, lo dirò come una qualsiasi colonnina destra di Repubblica) complicata dall’accesso continuo e costante a internet?
Sembrerebbe di sì, o per lo meno, questo è quello che ci dice questo autore cresciuto con la spinta verso l’infinito.
Sono convinta che sui ragazzi abbia molta influenza lui stesso come persona e che molti studenti siano stati ispirati dall’averlo conosciuto dal vivo, ma lui ci parla appunto di ragazzi che gli scrivono per ringraziarlo perché ha realmente e concretamente cambiato loro la vita, soltanto attraverso i suoi libri.
Qualcuno riesce a parlare ai genitori dei suoi disagi profondi per la prima volta nella sua vita, una ragazza inizia a donare il sangue, qualcuno a dedicarsi agli altri attraverso il volontariato.
Insomma, non stiamo parlando di cose piccole, ma di grandi atti d’amore nei confronti di se stessi e del prossimo. E dici poco.

La gioventù raccontata da questo autore è, in fondo, non molto lontana da quella che si riflette negli occhi di Hannah Baker, solo che in questo fortunato caso ha un confronto con un insegnante, con un adulto, che non tratta gli adolescenti come una categoria fissa, immutabile e senza distinzioni. Non li vede come un esercito di automi attaccati al telefono, sempre in conflitto con gli adulti e incomprensibili. No, parla a loro, ed è questa la grande differenza, come delle persone, li comprende nel senso vero e più ampio del termine, e non li giudica mai.

Ed è qui che allora, all’improvviso, intere classi di studenti iniziano a fidarsi, si appassionano, capiscono l’importanza di quello che viene chiesto loro e cosa possono dare in cambio. E anche che esiste una soluzione ai loro tormenti, non perché semplicemente “passerà”, ma perché c’è davvero un modo per cambiare la prospettiva sulle cose, lo sguardo sul mondo e su se stessi.

A un certo punto del libro l’autore dice:
Sogno una scuola, Giacomo, che si occupi della felicità degli individui; e non intendo un luogo di ricreazione e di complicità tra docenti e alunni, ma uno spazio in cui ognuno trovi dono che ha da fare al mondo e cominci a lottare per realizzarlo, in cui ciascuno trovi un’ispirazione che abbia la forza di una passione profonda, che gli dia energia per nutrirsi di ogni ostacolo. Sogno una scuola di rapimenti, una scuola come bottega di vocazioni da coltivare, mettere alla prova e riparare. (…)
Sono le cose inutili, come i sogni, come la letteratura, che dobbiamo salvare, soprattutto a scuola. (…)
Sogno una scuola in cui la letteratura valga più della storia della letteratura, leggere più di dover leggere, la parola più del programma.

Insomma, credo proprio che se avessi avuto lui come professore di italiano al liceo, o se, semplicemente, avesse pubblicato il suo primo libro qualche anno prima, tante cose vissute in quegli anni e anche in quelli successivi sarebbero decisamente state diverse.

*Alessandro D’Avenia, “L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita” Mondadori, 2016, pagine 187-188