The Handmaid’s Tale e l’importanza delle parole

Ho finalmente preso coraggio: ho visto The Handmaid’s Tale. E a dirla tutta l’ho anche finito in meno di una settimana.
Sono stata bloccata per mesi perché il tema mi sembrava talmente forte che credevo di non essere in grado di affrontarlo. Non ho problemi con i drammi o i film violenti (amo Tarantino, fate voi) ma qui la faccenda è più complicata.

Poi ci sono stati gli otto Emmy e la consacrazione definitiva a una delle serie migliori degli ultimi tempi e la curiosità ha superato la paura.

Arrivata alla fine, confermo entrambe le cose: è una serie molto dura, anzi, durissima, e allo stesso tempo molto bella.
Penso che la vicenda della serie tratta dal libro di Margaret Atwood sia nota a tutti, per il riassunto eccellente come al solito mi affido a Serial Minds.

(…) il contesto è quello di un presente distopico, in cui inquinamento e radiazioni hanno reso sterili gran parte delle donne. Uno sconvolgimento radicale, che rischia di portare all’estinzione della razza umana (…) il governo degli Stati Uniti è stato rovesciato dagli appartenenti a un culto che rivendica una lettura letterale dell’antico testamento e che si prefigge un ritorno alle origini per salvare l’umanità. Questo ritorno alle origini comporta una totale sottomissione delle donne fertili, che vengono rese schiave dei maschi alfa della popolazione e costrette ad avere con loro rapporti sessuali per rimanere incinte. Sono le handmaids del titolo, tradotte in italiano come ancelle(…)
Vederla da donna è come beccarsi un pugno nello stomaco (e non immagino da madre), ed Elizabeth Moss (la Peggy Olson di Mad Men) è talmente brava che arrivi a sentirti dentro di lei.

Aiutano molto la voce fuori campo che ci fa entrare nei suoi pensieri, i primissimi piani sul viso stravolto dal dolore e dal terrore, per non parlare della fotografia, la regia, le performance di tutti gli altri attori, tranne Joseph Fiennes che fa schifo sempre (bravissime Samira Wiley, ex Poussey di Orange is the new Black e Alexis Bledel, Rory di Una mamma per amica), che ti sbattono dentro la storia senza nessun filtro.

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La degenerazione autoritaria inventata dall’autrice è così spaventosa perché il germe di quello che è descritto lì è già insito nella nostra cultura.

Non parlo dell’America di Trump né dei regimi islamici a cui è stata paragonata, anche qui tante altre penne più autorevoli di me hanno già discusso delle somiglianze.

Sto parlando di qualcosa di meno evidente ma che serpeggia nel nostro quotidiano.

Facendo le debite proporzioni, non è che The Handmaid’s Tale ci spaventa così tanto, come, per altre cose, spaventa Black Mirror, perché ci sembra qualcosa che dall’oggi al domani potrebbe capitare anche a noi (ed è già la vita quotidiana delle donne in molti Paesi del mondo)?

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Per me parte sempre tutto dalle piccole cose. I piccoli gesti, le virgole, il tono di voce: sono loro che fanno la differenza. Sono il punto di partenza da cui poi potrebbe partire la degenerazione.

Per il lavoro che faccio so quanto un testo ben scritto sia il risultato di un fine lavoro artigianale, e non è mai la prima cosa che ti viene in mente. Perché un testo va lasciato risposare un po’ e ripreso in mano più volte, per vederlo con occhi diversi, snidare le magagne e renderlo scorrevole, chiaro.

Se una cosa piccola come una virgola può cambiare il significato intero di una frase, che forza incredibile può avere una frase intera?

Purtroppo mi sembra che in molti se lo stiano dimenticando, sia quando scrivono che, soprattutto, quando parlano.

Vi faccio qualche esempio.

Un po’ di tempo fa è uscito questo video sulla forza e l’importanza delle parole, nel senso proprio dei termini scelti per descrivere le donne.

 

E poi. Qualche giorno fa mi è stato detto: “femmine, tu provi a spiegarglielo dove sta la destra ma non lo riescono proprio a capire”. Era una frase completamente fuori contesto, che in un soffio aveva fatto due delle cose che detesto di più: generalizzare e categorizzare.

O ancora. Magari vi è capitato sul lavoro (o in qualsiasi altro posto, tipo il carrozziere) di avere a che fare con qualcuno che vi trattava con sufficienza e che ha cambiato completamente atteggiamento quando si è rivolto a un uomo.

Oppure di provare a parlare tranquillamente di sesso e sessualità ma venir bollata per sempre come la fissata, la pervertita, una di cui ridere, ma a te proprio non veniva da ridere e la volta successiva hai preferito startene zitta.

Beh, a me queste cose sono successe. Sono sciocchezze, direte, rispetto a violenze psicologiche e fisiche ben più gravi. Ma siamo sicuri che sia giusto ridere di questi atteggiamenti, invece di dar loro un peso diverso? Siamo sicuri che non sia da queste parole, da questi gesti che dovremmo ripartire per porre le basi di un vero rispetto?

Io vorrei sentirmi libera di esprimermi, nei limiti di quello che voglio condividere e con chi voglio condividerlo, senza che qualcuno mi dica che donna dovrei essere.

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Perché è partendo da un’affermazione innocente, come dire a una donna che è una pervertita, che poi si arriva a giustificare cose più gravi (era lei che non doveva mettersi la minigonna).

Ed è per questo che un universo degenerato come quello di The Handmaid’s Tale non è poi così impensabile.

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Il valore della poesia

Ho sempre fatto fatica ad apprezzare la poesia, soprattutto se ha troppi livelli di significato, se non mi dà risposte immediate e mi costringe a sforzarmi di capirla (sì, lo ammetto, con la poesia sono un po’ pigra).

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Per questo non ne leggo molta, e gli unici libri che ho, in mezzo a una marea di romanzi, sono quelli di Emily Dickinson, che amo proprio per la brevità, la limpidezza e perché racconta l’animo umano e i suoi struggimenti attraverso delle immagini molto semplici e comprensibili: un’ape, un uccellino, il mare, un’alba.

E forse proprio per la comprensibilità della sua scrittura poetica, Rupi Kaur mi è piaciuta subito. Le sue poesie, spesso molto simili a degli haiku, sono delle vere stilettate che vanno dritto al cuore, senza troppi giri di parole.

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Ho comprato d’istinto la sua prima raccolta, Milk and Honey, dopo aver letto la sua storia.

È nata nel Punjab, in India ed è cresciuta in Canada.
Ha 24 anni, è una vera millennial e non per niente la sua attività (e notorietà) passa attraverso Instagram, e lei stessa viene definita una “Instapoet”. Le sue poesie sono perfette per il formato del social network: pochissime parole, spesso accompagnate da suoi disegni, che sembrano quasi degli schizzi, qualcosa in procinto di sbocciare.

Ha iniziato a scrivere rivolgendosi solamente alle ragazze indiane della sua comunità, pensando che solamente loro potessero capirla, ma a un certo punto si è resa conto che il suo era un messaggio universale e comprensibile per tutte le donne, di qualsiasi etnia e a qualsiasi latitudine vivessero.

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La giovane poetessa era già diventata famosa suo malgrado un paio di anni fa, per aver visto rimuovere da Instagram una sua immagine inserita all’interno del progetto fotografico Period, in cui la si vedeva stesa a letto con i pantaloni macchiati di sangue mestruale. Il lavoro era un tentativo di estirpare quello che è ancora per molti un tabù e una cosa sporca.

The hurting, the loving, the breaking, the healing: queste le quattro sezioni della sua prima raccolta di poesie, quattro fasi, quattro momenti della vita ma anche quattro pezzi dell’animo umano.

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La relazione, con gli uomini, le altre donne, con il padre, la madre, è al centro di tutto, ed è fonte, in parti uguali, di gioia e dolore.
In tutti i rapporti il confine tra amore e attaccamento è spesso molto labile, come quello tra volontà e costrizione.
La Kaur racconta di relazioni che possono togliere tutto e lasciarti completamente indifeso, ma anche di altri che portano a una fusione di due anime è talmente perfetta da non aver bisogno di troppe parole o spiegazioni.

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La parte più importante del suo lavoro è quella in cui parla di vere e proprie violenze e abusi sul corpo delle donne (lei stessa ne ha subiti quand’era ancora bambina), grazie ai quali, racconta lei stessa, viene continuamente contattata da ragazze che hanno subito forme di violenza e riescono a trovare il coraggio di far sentire la propria voce e di trovare conforto e rassicurazione nelle sue parole.

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Per questo penso che valga la pena leggerla, perché le sue sono parole piene di speranza ma anche di forza, la poesia diventa potente come un’arma, e a prescindere dalla storia personale di ognuna, ci si riconoscere molto facilmente in quello che scrive.

Vi lascio con un’intervista fatta dal portale Freeda quando Rupi Kaur è venuta in Italia per il tour di presentazione del libro.

Potete acquistare Milk and honey di Rupi Kaur su Amazon.

Immagini tratte dal sito di Rupi Kaur.