Welcome to The Get Down

La scorsa estate ho avuto due grandi amori seriali:
Dustin di Stranger Things

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ed Ezekiel di The Get Down.

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Mi sono letteralmente bevuta entrambe le serie tv e sono andata in giro per mesi con gli occhi a cuore, dicendo a chiunque che per me erano i due capolavori del 2016.

Le seconde parti mi spaventano sempre un po’, quando si tratta di serie tv, soprattutto quanto le prime sono state così dirompenti, perché non è sempre detto che il livello rimanga tale. Di solito noto un calo, per poi vedere la ripresa nella terza.

In attesa che arrivi ottobre per vedere che ne sarà dei ragazzi di Stranger Things, la scorsa settimana Neflix ha fatto uscire sei nuove puntate di The Get Down (la seconda parte della prima stagione), che naturalmente ho già finito.

La serie è stata fortemente voluta dal regista Baz Luhrman, che, dopo dieci anni di studio per preparare questo progetto, è andato personalmente da Grandmaster Flash, uno dei fondatori dell’hip hop nonché la vera mente dietro alla serie (perché, di fatto, la storia è la sua), per parlargli della sua idea di dare finalmente valore al momento storico in cui è nato questo genere musicale.
Grandmaster Flash non è né simpatico né accomodante, e vi consiglio di leggere questa intervista per capire che tipo è e che cosa significa per lui The Get Down.

Siamo nel South Bronx alla fine degli Anni Settanta, e un gruppo di ragazzi, proclamatisi i The Get Down Brothers e capeggiati da Dj Shaolin Fantastic, stanno contribuendo alla nascita dell’hip hop.

The Get Down è incredibilmente interessante per un motivo fondamentale: la musica, che in quel periodo era in grande fermento creativo e stava passando dal monopolio della disco music alla nascita, appunto, dell’hip hop.
La colonna sonora è uno splendido mix tra la sfavillante disco, i beat dell’hip hop, accenni di latino americana, pop religioso, ballate romantiche e tutta la potenza del funk.

Online, oltre alla colonna sonora originale uscita la scorsa estate, trovate diverse playlist, in cui si alternano le cover realizzate appositamente per la serie (con l’inconfondibile voce di Nas, che ne è anche produttore esecutivo) agli originali degli Anni Settanta. Per immergervi appieno nelle atmosfere di The Get Down vi consiglio di ascoltarvi in particolare questa.

Per quanto riguarda la serie in sé, la prima parte scorre liscia come l’olio (nonostante una prima puntata un po’ confusionaria), in un crescendo di emozioni che culminano nella puntata finale con il primo entusiasmante concerto del gruppo.

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La seconda, invece, purtroppo ha confermato (in parte) la mia paura.
È passato un anno e ormai il gruppo si è consolidato, ma i singoli componenti devono affrontare nuove sfide personali e conflitti che li stanno trascinando verso la vita adulta.
Le puntate procedono un po’ a singhiozzi, soprattutto verso la fine, in cui sembra che si vogliano chiudere in fretta e furia tutte le questioni aperte nel giro di un paio di puntate.

Per fare la solita polemichina riguardo una serie che comunque resta una delle mie preferite, queste sono le cose che non mi hanno convinta delle ultime puntate:

  • l’aggiunta di alcune parti di storia disegnate a mo’ di fumetto, che rendono i protagonisti dei supereroi ma che più che altro distraggono, non aggiungono nulla e, sostituendo in alcune parti clou gli attori in carne e ossa, fanno perdere forza alla storia. Per una serie costata 120 milioni di dollari (la maggior parte in diritti musicali), sarà forse stato un espediente per contenere altri costi?;
  • Jaden Smith, il figlio di Will, che recita (poco, soprattutto in queste ultime puntate) nella parte di Dizzee, uno dei The Get Down Brothers e graffittaro psichedelico dalla sessualità fluida, che è sempre un po’ in disparte rispetto al resto del gruppo. Il personaggio sarebbe interessante ma l’attore ha solo due caratteristiche degne di nota: un discreto flow ereditato dal papà, e una bella faccia con broncetto in dotazione. Per il resto, meh;giphy3
  • Il personaggio di Shaolin Fantastic, ufficialmente il più insopportabile di tutti, contro il quale mi sono trovata più di una volta a gridare contro lo schermo neanche fossi l’ospite impazzita di un talk show;giphy4
  • il tramonto di una serie di personaggi che, molto interessanti nella prima parte, rimangono eccessivamente marginali nella confusione della seconda, primo su tutti Jackie, produttore discografico con problemi di dipendenza, ma con un talento ineguagliabile nella creazione di musica, che diventa all’improvviso un signor nessuno con un pianoforte e alcune drag queen a fargli da sfondo.

Una menzione speciale va invece al sempre-sopra-una-spanna-agli-altri Giancarlo Esposito, che ci regala la parte angosciosa del pastore di quartiere, padre di Mylene (la protagonista femminile), la cui spaventosa parabola ha il suo apice nella penultima puntata, decisamente una delle migliori, anche e soprattutto grazie a lui.

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 Anche se a noi piace sempre ricordarlo così.

Per concludere, se The Get Down ha un indiscusso valore per la storia della musica, andrebbe vista anche solo per ballare, ballare, e ancora ballare.

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