Nessuno ci ridarà Don Draper

Le ragazze di Good Girls Revolt, un’altra serie tv che trovate su Prime Video, starebbero bene tra le pagine di Storie della buonanotte per bambine ribelli.

La piattaforma di Amazon, che mi sta dando parecchie soddisfazioni, come dicevo qui, mi ha stupita con un’altra serie scritta bene (anche se, purtroppo, non è stata rinnovata per una seconda stagione) che racconta le vicende della redazione del fittizio giornale News of the Week tra la fine del 1969 e l’inizio del 1970, momento di grande fermento e lotte per i diritti civili.

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Il titolo fa riferimento proprio alla parte femminile della redazione, che decide di fare causa alla testata, in quanto profondamente discriminata sul lavoro: le donne, infatti, non possono ambire al ruolo di reporter ma solo a quello di ricercatrici, che affiancano i giornalisti (e che, nella maggior parte dei casi, si limitano a mettere la firma su un pezzo praticamente già scritto) e hanno degli stipendi che sono meno di un terzo di quelli dei loro colleghi maschi.

La serie è piacevole, ma è sopratutto apprezzabile se, come me, siete dei nostalgici di Mad Men.
Good Girls Revolt, infatti, vi ricorderà sicuramente le dinamiche che avete amato della serie di AMC. Se, invece, Mad Men non l’avete mai visto, shame on you: vi impongo di recuperarlo.

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GGR deve moltissimo a Mad Men: il periodo storico è lo stesso (o, almeno, una parte di quello raccontato in MM) e alcuni personaggi della redazione raccolgono abbondantemente l’eredità delle loro controparti di Madison Avenue.
Qualcosa c’è anche di un’altra serie che omaggia i Seventies da un altro punto di vista: la (purtroppo) poco riuscita Vinyl di Martin Scorsese e Mick Jagger.

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Tutte e tre raccontano in maniera molto accurata lo stile un’epoca e i suoi avvenimenti (e sono un ottimo riassunto storico, se aveste bisogno di un ripasso prima di un esame), ma mentre GGR lo fa dal punto di vista giornalistico, e quindi l’attualità è il cuore di tutto il racconto (a un certo punto si cita anche la bomba in Piazza Fontana), per Mad Men gli avvenimenti della Storia sono un contorno e una scusa per raccontarci l’evoluzione del mondo della pubblicità. Vinyl, naturalmente, è talmente dettagliata nel raccontare la storia della musica degli Anni Settanta, che il resto viene lasciato per forza di cose in secondo piano.

Una caratteristica in comune tra tutte e tre le serie è indubbiamente la tendenza dei personaggi a bere superalcolici a qualsiasi ora del giorno.

Mad Men vive di atmosfere elegantissime: c’è una cura nei set e nell’abbigliamento dei personaggi quasi maniacale (per non parlare degli oggetti di scena, vere chicche per collezionisti) e a far diventare la stessa costumista Janie Bryant un’icona.
La scrittura è molto raffinata ma a volte un po’ complessa da seguire, e sicuramente soffre di una maggiore lentezza nel racconto.

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Good Girls Revolt è meno curata nei dettagli e negli ambienti, ma ha dei dialoghi, se vogliamo, più semplici e ritmati, e quello che qui succede in una stagione, Mad Men lo allunga in almeno il doppio del tempo.

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Ma passiamo ai personaggi principali, l’aspetto più divertente su cui improvvisare delle comparazioni.

La protagonista di Good Girls Revolt, Patti, ha da una parte l’aspetto, la leggerezza e la tenacia della Jamie di Vinyl.

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Ma è di fatto il corrispettivo di Peggy di Med Man, anche se lei qui riesce a raggiungere i suoi obiettivi in una stagione, mentre Peggy ce ne mette almeno tre per fare il salto da segretaria a copy e diventare una creativa veramente rispettata dai colleghi.

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Anna Camp, che interpreta la bionda Jane in GGR, talmente fonata da sembrare l’automa della Kidman ne La donna perfetta, è una vecchia conoscenza (ha infatti recitato in qualche puntata di MM).

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Qui sarebbe il corrispettivo un po’ fiappo del mio personaggio preferito di sempre in Mad Men, Joan, con la quale condivide l’essere una well-educated girl dall’intelligenza raffinata e la capacità di tenere tutto sotto controllo da una posizione solo all’apparenza non di potere.

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Ma la complessità e la bellezza del personaggio di Christina Hendricks in MM sono inarrivabili, e per la bionditudine e il servilismo (almeno fino a un certo punto) della sua Jane, la Camp mi ha piuttosto ricordato January Jones e la sua insopportabile Betty Draper.

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C’è poi la parte maschile della redazione di News of the Week, che però è l’anello debole della storia. Sono quasi tutti piuttosto sottotono (a parte il buon Jim Belushi), e, diciamoci la verità, non potranno mai sostituire questi qui.

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Insomma, gente, non è umanamente possibile replicare un Don Draper.

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Un altro aspetto che accomuna le tre serie sono le bellissime ed esotiche mogli-trofeo dei capi, meticolosamente tradite e piuttosto disperate, dalla Megan di Don Draper (Jessica Paré in Mad Men) alla Talia di Finn (Odelya Halevi in GGR), alla Devon di Richie Finestra (Olivia Wilde in Vinyl).

Pick your favorite.

Per Good Girls Revolt mi sento di fare una menzione speciale a Grace Gummer, che (solo) in un paio di puntate è una Nora Ephron agli inizi della carriera, ma già chiaramente un passo avanti alle altre, non solamente come giornalista ma anche e soprattutto come piglio, intelligenza e schiettezza.

Dalla mamma Meryl Streep la Gummer ha ereditato un talento talmente naturale per la recitazione da farti dimenticare per un attimo che non è la vera Ephron, ed è un piacere guardarla.

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E per concludere, che ve lo dico a fare, di tutte e tre le serie non perdetevi le colonne sonore.

 

 


Update: da non vedere

Questo post nei miei progetti doveva diventare un paragone tra questa e un’altra serie dedicata alle donne ribelli, perché nel frattempo avevo dato una possibilità anche a Las Chicas Del Cable, prima serie spagnola prodotta da Netflix.
La tematica mi incuriosiva: anche qui ci sono delle donne che si ribellano contro l’ordine costituito, ma questa volta siamo a Madrid alla fine degli Anni Venti, in una compagnia telefonica.
Lo ammetto, ho mollato dopo due puntate.
È banale nella scrittura e nella costruzione dei personaggi, ed ha una protagonista che fa il pippone filosofico all’inizio e alla fine di ogni puntata come la peggiore delle Meredith Grey (e con la stessa espressività).
Mi ha infastidita poi per le scelte musicali a dir poco discutibili: gli attori fingono di muoversi a ritmo di charleston sulla base di un pop scarsissimo dei giorni nostri. Inaffrontabile.

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Welcome to The Get Down

La scorsa estate ho avuto due grandi amori seriali:
Dustin di Stranger Things

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ed Ezekiel di The Get Down.

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Mi sono letteralmente bevuta entrambe le serie tv e sono andata in giro per mesi con gli occhi a cuore, dicendo a chiunque che per me erano i due capolavori del 2016.

Le seconde parti mi spaventano sempre un po’, quando si tratta di serie tv, soprattutto quanto le prime sono state così dirompenti, perché non è sempre detto che il livello rimanga tale. Di solito noto un calo, per poi vedere la ripresa nella terza.

In attesa che arrivi ottobre per vedere che ne sarà dei ragazzi di Stranger Things, la scorsa settimana Neflix ha fatto uscire sei nuove puntate di The Get Down (la seconda parte della prima stagione), che naturalmente ho già finito.

La serie è stata fortemente voluta dal regista Baz Luhrman, che, dopo dieci anni di studio per preparare questo progetto, è andato personalmente da Grandmaster Flash, uno dei fondatori dell’hip hop nonché la vera mente dietro alla serie (perché, di fatto, la storia è la sua), per parlargli della sua idea di dare finalmente valore al momento storico in cui è nato questo genere musicale.
Grandmaster Flash non è né simpatico né accomodante, e vi consiglio di leggere questa intervista per capire che tipo è e che cosa significa per lui The Get Down.

Siamo nel South Bronx alla fine degli Anni Settanta, e un gruppo di ragazzi, proclamatisi i The Get Down Brothers e capeggiati da Dj Shaolin Fantastic, stanno contribuendo alla nascita dell’hip hop.

The Get Down è incredibilmente interessante per un motivo fondamentale: la musica, che in quel periodo era in grande fermento creativo e stava passando dal monopolio della disco music alla nascita, appunto, dell’hip hop.
La colonna sonora è uno splendido mix tra la sfavillante disco, i beat dell’hip hop, accenni di latino americana, pop religioso, ballate romantiche e tutta la potenza del funk.

Online, oltre alla colonna sonora originale uscita la scorsa estate, trovate diverse playlist, in cui si alternano le cover realizzate appositamente per la serie (con l’inconfondibile voce di Nas, che ne è anche produttore esecutivo) agli originali degli Anni Settanta. Per immergervi appieno nelle atmosfere di The Get Down vi consiglio di ascoltarvi in particolare questa.

Per quanto riguarda la serie in sé, la prima parte scorre liscia come l’olio (nonostante una prima puntata un po’ confusionaria), in un crescendo di emozioni che culminano nella puntata finale con il primo entusiasmante concerto del gruppo.

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La seconda, invece, purtroppo ha confermato (in parte) la mia paura.
È passato un anno e ormai il gruppo si è consolidato, ma i singoli componenti devono affrontare nuove sfide personali e conflitti che li stanno trascinando verso la vita adulta.
Le puntate procedono un po’ a singhiozzi, soprattutto verso la fine, in cui sembra che si vogliano chiudere in fretta e furia tutte le questioni aperte nel giro di un paio di puntate.

Per fare la solita polemichina riguardo una serie che comunque resta una delle mie preferite, queste sono le cose che non mi hanno convinta delle ultime puntate:

  • l’aggiunta di alcune parti di storia disegnate a mo’ di fumetto, che rendono i protagonisti dei supereroi ma che più che altro distraggono, non aggiungono nulla e, sostituendo in alcune parti clou gli attori in carne e ossa, fanno perdere forza alla storia. Per una serie costata 120 milioni di dollari (la maggior parte in diritti musicali), sarà forse stato un espediente per contenere altri costi?;
  • Jaden Smith, il figlio di Will, che recita (poco, soprattutto in queste ultime puntate) nella parte di Dizzee, uno dei The Get Down Brothers e graffittaro psichedelico dalla sessualità fluida, che è sempre un po’ in disparte rispetto al resto del gruppo. Il personaggio sarebbe interessante ma l’attore ha solo due caratteristiche degne di nota: un discreto flow ereditato dal papà, e una bella faccia con broncetto in dotazione. Per il resto, meh;giphy3
  • Il personaggio di Shaolin Fantastic, ufficialmente il più insopportabile di tutti, contro il quale mi sono trovata più di una volta a gridare contro lo schermo neanche fossi l’ospite impazzita di un talk show;giphy4
  • il tramonto di una serie di personaggi che, molto interessanti nella prima parte, rimangono eccessivamente marginali nella confusione della seconda, primo su tutti Jackie, produttore discografico con problemi di dipendenza, ma con un talento ineguagliabile nella creazione di musica, che diventa all’improvviso un signor nessuno con un pianoforte e alcune drag queen a fargli da sfondo.

Una menzione speciale va invece al sempre-sopra-una-spanna-agli-altri Giancarlo Esposito, che ci regala la parte angosciosa del pastore di quartiere, padre di Mylene (la protagonista femminile), la cui spaventosa parabola ha il suo apice nella penultima puntata, decisamente una delle migliori, anche e soprattutto grazie a lui.

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 Anche se a noi piace sempre ricordarlo così.

Per concludere, se The Get Down ha un indiscusso valore per la storia della musica, andrebbe vista anche solo per ballare, ballare, e ancora ballare.

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