L’arte di essere fragili

C’era un periodo in cui tra i compiti di italiano assegnati per le vacanze c’era anche la lettura di qualche libro, alcuni obbligatori, altri a scelta.
Nell’estate tra la quarta e la quinta ginnasio, in ansia per chissà cosa dovessi dimostrare e a chi, avevo preso in mano Madame Bovary.
Mi annoiava da morire e l’ho abbandonato a metà, sentendomi frustrata e anche un po’ scema.

Ecco, leggendo L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita, l’ultimo libro di Alessandro D’Avenia, ho pensato che se all’epoca avessi avuto lui come insegnante, non mi sarei mai sentita in colpa per non riuscire a leggere Madame Bovary a quattordici anni. Anzi, forse non lo avrei neanche scelto come libro per l’estate.

Mentre avevo in mano quel volume in cui ci spiega come Leopardi può salvarci la vita (sì, proprio quel Leopardi che a scuola hanno liquidato velocemente e con poco interesse come un gobbo triste che contagiava tutto l’universo con il suo pessimismo) mi sono sentita improvvisamente di nuovo una quindicenne.

Anzi, no, mi sono ricordata com’ero all’epoca, ho capito che la giovinezza è un lontano ricordo, il pensiero mi ha tutto sommato consolata, e mi sono chiesta se adesso sarei una persona diversa se avessi incontrato prima le parole di D’Avenia.
Il suo saggio, infatti, scoperto in età adulta, mi è piaciuto soprattutto per il suo rileggere Leopardi in un’ottica completamente nuova, quella di un poeta dell’energia, della lotta, della speranza, del rapimento, dell’amicizia, della bellezza e dell’ispirazione.
Ma credo che sulla me adolescente avrebbe fatto colpo in maniera ancora più profonda.

Il saggio di questo scrittore e insegnante quarantenne mi ha stupita parecchio proprio per come descrive il rapporto che ha con i suoi studenti e le reazioni che le sue parole suscitano in loro. Non solo perché li porta ad amare la letteratura, che sarebbe di per sé già un traguardo, ma anche perché riesce spesso a far sbocciare in loro delle vere e proprie gemme che fanno fiorire dei cambiamenti importanti nelle loro vite.

Ci racconta infatti che molti ragazzi gli scrivono anche solo dopo aver letto i suoi libri, anche in situazioni di profondo e, in alcuni casi, estremo dolore.
Nelle sue pagine troviamo, tra le altre, una lettera di una ragazza autolesionista, un’altra con una malattia congenita al cuore che non sa ancora per quanto sopravviverà, una ragazza ricoverata in ospedale per una grave forma di anoressia che gli scrive poco prima di morire.
Una delle storie più commoventi è quella di una ragazza che meditava il suicidio, e che gli racconta che fino a quel momento aveva trovato come unico conforto la lettura proprio di Leopardi.

Da tutte queste storie nasce spontanea una domanda.
La letteratura ha davvero (ancora) il potere di guarire un animo tormentato
come quello di un adolescente? Può davvero aprire una breccia dentro quella terra di mezzo che nessuno sembra capire e che oggi è anche (sì, lo dirò come una qualsiasi colonnina destra di Repubblica) complicata dall’accesso continuo e costante a internet?
Sembrerebbe di sì, o per lo meno, questo è quello che ci dice questo autore cresciuto con la spinta verso l’infinito.
Sono convinta che sui ragazzi abbia molta influenza lui stesso come persona e che molti studenti siano stati ispirati dall’averlo conosciuto dal vivo, ma lui ci parla appunto di ragazzi che gli scrivono per ringraziarlo perché ha realmente e concretamente cambiato loro la vita, soltanto attraverso i suoi libri.
Qualcuno riesce a parlare ai genitori dei suoi disagi profondi per la prima volta nella sua vita, una ragazza inizia a donare il sangue, qualcuno a dedicarsi agli altri attraverso il volontariato.
Insomma, non stiamo parlando di cose piccole, ma di grandi atti d’amore nei confronti di se stessi e del prossimo. E dici poco.

La gioventù raccontata da questo autore è, in fondo, non molto lontana da quella che si riflette negli occhi di Hannah Baker, solo che in questo fortunato caso ha un confronto con un insegnante, con un adulto, che non tratta gli adolescenti come una categoria fissa, immutabile e senza distinzioni. Non li vede come un esercito di automi attaccati al telefono, sempre in conflitto con gli adulti e incomprensibili. No, parla a loro, ed è questa la grande differenza, come delle persone, li comprende nel senso vero e più ampio del termine, e non li giudica mai.

Ed è qui che allora, all’improvviso, intere classi di studenti iniziano a fidarsi, si appassionano, capiscono l’importanza di quello che viene chiesto loro e cosa possono dare in cambio. E anche che esiste una soluzione ai loro tormenti, non perché semplicemente “passerà”, ma perché c’è davvero un modo per cambiare la prospettiva sulle cose, lo sguardo sul mondo e su se stessi.

A un certo punto del libro l’autore dice:
Sogno una scuola, Giacomo, che si occupi della felicità degli individui; e non intendo un luogo di ricreazione e di complicità tra docenti e alunni, ma uno spazio in cui ognuno trovi dono che ha da fare al mondo e cominci a lottare per realizzarlo, in cui ciascuno trovi un’ispirazione che abbia la forza di una passione profonda, che gli dia energia per nutrirsi di ogni ostacolo. Sogno una scuola di rapimenti, una scuola come bottega di vocazioni da coltivare, mettere alla prova e riparare. (…)
Sono le cose inutili, come i sogni, come la letteratura, che dobbiamo salvare, soprattutto a scuola. (…)
Sogno una scuola in cui la letteratura valga più della storia della letteratura, leggere più di dover leggere, la parola più del programma.

Insomma, credo proprio che se avessi avuto lui come professore di italiano al liceo, o se, semplicemente, avesse pubblicato il suo primo libro qualche anno prima, tante cose vissute in quegli anni e anche in quelli successivi sarebbero decisamente state diverse.

*Alessandro D’Avenia, “L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita” Mondadori, 2016, pagine 187-188

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Deve migliorare.

Attenzione: c’è dello spoiler. Se avete Thirteen Reasons Why in lista tra le prossime cose da vedere, vi consiglio di tornare più tardi.

La mia adolescenza è stata, tutto sommato, tranquilla. Di certo non mi ha preparato alla vita reale, tant’è che quando sono uscita dal liceo non avevo gli strumenti per affrontare il dopo, e ne ho pagato le conseguenze, ma sempre nei limiti dell’accettabile.

Nelle ultime due settimane, del tutto casualmente, mi sono trovata di fronte al racconto di due adolescenze molto diverse tra loro, e che, pur partendo in un certo senso dalle stesse premesse (l’adolescenza è una premessa per antonomasia), arrivano a conseguenze opposte. 
La prima è quella descritta da Thirteen Reasons Why, serie di Netflix appena uscita e che ha da subito dato scandalo, e la seconda è quella del libro L’arte di essere fragili di Alessandro D’Avenia, che ho letto in parallelo alla visione della serie.

Update: pensavo di parlare delle due cose all’interno dello stesso ragionamento, ma, come spesso capita, mi sono fatta prendere dal racconto e rimando il libro di D’Avenia al post successivo.

La storia di Tredici dovreste ormai conoscerla: Hannah Baker è un’adolescente di un liceo americano che decide di togliersi la vita, ma prima di farlo registra sette cassette in cui ogni lato è dedicato a una persona che lei considera tra le tredici cause per cui si è tolta la vita.

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Tutte le persone coinvolte ascoltano le cassette per poi passarle al successivo nella lista. Noi vediamo tutto dal punto di vista di Clay, suo compagno perdutamente innamorato di lei e che, fino alla fine, non riesce a capire perché le cassette siano arrivate anche a lui.

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La serie racconta in un continuo crescendo di disperazione quello che Hannah ha subito nel corso di un paio di anni di scuola, veri e propri atti di bullismo dei suoi compagni. Dalle prime cose all’apparenza più innocue, fino ad arrivare alle terribili puntate finali (all’inizio delle quali, correttamente visto il target della serie, Netflix ha dovuto aggiungere una specie di Parental Advisory) in cui assistiamo allo stupro prima di una sua compagna, e poi di Hannah stessa, e poi al suo suicidio.

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Tredici è ufficialmente la serie più twittata di sempre. L’argomento è controverso e per questo troverete in rete opinioni di due schieramenti opposti: è pericoloso e sbagliato raccontare in questa maniera un problema così delicato, o, per contro, è giusto e necessario.
Alcuni articoli e tweet arrivano a dire che Tredici renderebbe “appetibile” un gesto così estremo come quello di togliersi la vita, se lasciato vedere a ragazzi particolarmente fragili.
Molti si scagliano contro il fatto che l’atto è raccontato come premeditato e pianificato nei minimi dettagli, mentre nella realtà si tratta di slanci improvvisi di persone disperate.

Non sono d’accordo in particolare con quest’ultima polemica, in quanto la struttura delle serie è solo un pretesto per entrare nella mente di una ragazza di 17 anni che decide di togliersi la vita, e di fronte alla quale nessuno riesce a capirne davvero il motivo.
L’escamotage di farcelo raccontare direttamente da lei in maniera così dettagliata rende il racconto più forte e più vero.

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Io penso che andrebbe vista, ma soprattutto dagli adulti, perché è una storia che ti fa aprire gli occhi su come spesso, anche senza volerlo, anche con una sola parola o un gesto piccolo, arriviamo a ferire gli altri, e di come bisognerebbe insegnare l’empatia anche ai più giovani, non solo a parole, ma soprattutto a fatti, prima di tutto con l’esempio.

La cosa che mi ha colpito di più mentre la guardavo è stato proprio il modo in cui sono state costruite le figure degli adulti (i genitori di lei, gli insegnanti, i genitori dei compagni, il counselor scolastico), che a diversi livelli non si accorgono di nulla.

I genitori di lei, per quanto affettuosi, sono troppo concentrati sulla crisi del loro negozio.

I genitori della sua compagna omosessuale, nonostante siano loro stessi una coppia di padri gay, non hanno la minima idea del conflitto che sta vivendo la figlia.
L’insegnante di comunicazione, che a un certo punto legge in classe una poesia anonima (che noi sappiamo essere di Hannah) che è un vero e proprio grido d’aiuto, non si fa alcuna domanda su chi l’abbia scritta e perché.

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E poi, una delle scene più angoscianti è quella in cui la protagonista, in un ultimo atto disperato prima di togliersi la vita, si rivolge proprio al counselor scolastico. 
Dopo avergli raccontato la sofferenza e la solitudine che ha vissuto in quegli anni (Amici? Quali amici?) riesce a dirgli tra le lacrime di essere stata stuprata. Lui non si scompone e le suggerisce di andare avanti con la sua vita, perché prima o poi dimenticherà.

La sensibilità di tutta la storia è lasciata in mano solamente a Clay, che sembra l’unico a rendersi conto della gravità di quello che è successo e che tenta in tutti i modi di sbloccare il meccanismo in cui sembra siano intrappolati tutti. Ed è anche l’unico che, alla fine, fa concretamente qualcosa perché i colpevoli vengano puniti e le vittime vengano protette.

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Mentre gli altri, fino all’ultimo, insistono sulla piccolezza dei loro gesti, sul fatto che Hannah si è uccisa perché lo ha deciso lei, e non per causa loro, insinuando spesso il dubbio che tutto quello che ha raccontato se lo sia inventato.
E c’è un momento, brevissimo, a metà stagione, in cui anche noi spettatori siamo portati a credere che lei si sia davvero inventata tutto, come a farci capire ancora di più quanto questo problema sia controverso e non possa avere un’unica risposta, o un’unica motivazione, o possa essere visto da una sola prospettiva. E anche come dei dettagli che per noi sono insignificanti o fraintesi possono invece avere delle conseguenze enormi per gli altri.

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Vediamo sì alcuni sprazzi di umanità da parte di altri ragazzi, ma perlopiù ricacciati indietro e non hanno mai una conseguenza reale.
Lo stesso Tony, il “buono” della situazione, che non è compreso nelle cassette di Hannah ma al quale lei le lascerà per primo, come testimone e garante che le cose vadano esattamente come lei vuole, è talmente fedele al dovere di eseguire gli ordini che non sarà quasi di nessun aiuto, e alla fine, quando decide di consegnare le cassette ai genitori di lei, lo fa sapendo di aver fallito.

È ancora Clay che alla fine esprime il pensiero che il cuore e il senso ultimo di tutta la serie:

Deve migliorare. Il modo in cui ci comportiamo con gli altri e ci prendiamo cura degli altri. In qualche modo, deve migliorare.

Come finisce? Con una piccola luce di speranza che occhieggia nel buio. Ma è come se gli autori ci lasciassero con tante questioni aperte, sulle quali forse ognuno di noi dovrebbe riflettere.