Humor nero su Netflix

Una serie di sfortunati eventi e Santa Clarita Diet

Tornano i recuperoni delle serie tv, un po’ in ritardo rispetto alla loro uscita, ma nel mio cuore spero che non siate tutti come me, e che qualche titoli ogni tanto vi sfugga.

Prima facciamo un riepilogo delle puntate precedenti:
– Le serie sull’amore: Love e Lovesick;
– Le serie coi titoli espliciti: I love Dick e Fleabag;
– Due serie non c’entrano nulla l’una con l’altra ma che mi sono piaciute: The Marvelous Mrs. Maisel ed Easy.

Oggi invece parliamo di humor nero, anzi, nerissimo, e di attori dalla portentosa mimica facciale.

Una serie di sfortunati eventi

Una serie di sfortunati eventi – due stagioni, su Netflix
Ho conosciuto il talento di Neil Patrick Harris (e i suoi meravigliosi travestimenti di famiglia per Halloween) colpevolmente tardi.
Per anni mi è stato detto quanto fosse inaccettabile per una che basa la sua vita sugli insegnamenti di F.R.I.E.N.D.S. non aver visto neanche una puntata di How I met your mother.
Sì, adesso l’ho iniziata, vostro onore, lo giuro.

Ma nel frattempo ho anche visto l’altra fatica di NPH, Una serie di sfortunati eventi, serie dark tratta dai libri di Lemony Snicket.

Qui è l’a dir poco perfido Conte Olaf, che cerca in tutti i modi (e nascondendosi dietro tutte le identità possibili) di uccidere i ricchi orfani Baudelaire per rubarne l’eredità.
Assicuratevi di vederla in lingua originale per sentire la sua capacità di modulare i diversi accenti e tic per caratterizzare i diversi personaggi.

Conte Olaf e Violet Baudelaire

Ogni due puntate viene raccontato uno dei libri di Snicket (finora sono andati in onda dall’Infausto Inizio al Carosello Carnivoro).
Le ambientazioni si fanno via via più macabre e spaventose, e sono popolate da personaggi di una cattiveria disumana nei confronti dei poveri orfani. I tre Baudelaire possono contare solo su loro stessi, il loro ingegno e la loro intelligenza, e su pochi protettori che però finiscono sempre piuttosto male.
Ah, e poi c’è Sunny Baudelaire, la piccola dei tre, che si esprime solo a mugugni, ma sottotitolati, ed è spassosissima.

Sunny Baudelaire

 

Santa Clarita Diet
Santa Clarita Diet – due stagioni su Netflix
Drew Barrymore è uno dei miei miti dell’infanzia, e rivederla in una serie tutta sua mi ha riempita di felicità.
Qui è un’agente immobiliare che lavora con il marito (il dinoccolato re delle faccette Timothy Olyphant) e ha una figlia adolescente. Capita che però, una mattina, lei si svegli morta, o meglio, morta vivente, e che quindi non riesca a mangiare più nulla se non carne umana.
Come immaginerete, la cosa manderà un po’ in crisi la famiglia, che cercherà di trovare una soluzione al problema, creando delle situazioni esilaranti.

Santa Clarita Diet

La seconda stagione stacca notevolmente la prima (era da tanto che non sghignazzavo così), con i due protagonisti in stato di grazia, sempre più macchiette e impegnati in discussioni sempre più nonsense. E anche i personaggi secondari sono perfetti.

Santa Clarita Diet

Ah, vi avviso: è splatter, ma splatter-splatter, quindi non iniziatela nemmeno se siete sensibili al sangue e schifezze varie. Io, per dire, ho rischiato di fermarmi alla prima puntata: al solo ricordo mi viene ancora il voltastomaco… ma fidatevi! Giuro che è divertente!

 

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Paul Bettany in Manhunt: Unabomber

True crime appassionanti: la storia di Unabomber

Manuhunt: Unabomber è una serie in otto puntate di Discovery Channel disponibile su Netflix.
Non avrei mai pensato che questa serie mi sarebbe piaciuta, ma la storia di Unabomber mi ha appassionata, è stato quasi un caso di studio.

C’è dalla mia che amo le serie tv crime, anzi i true crime, quelli tratti da storie vere (vedi alla voce O.J. Simpson).
La cosa che mi diverte è confrontare quello che è raccontato dalla serie con le vicende reali, e il più delle volte mi stupisco di come la realtà abbia molta più fantasia della fantasia stessa (o dei nostri incubi).

E poi mi interessa l’aspetto pop di questi processi, il modo in cui sono entrati nelle case delle persone e come hanno influenzato la cultura di massa anche in zone che non ci aspetteremmo.
La storia di Unabomber, in questo senso, è emblematica.

Paul Bettany e

In molti definiscono Manhunt la sorella minore di Mindhunter, una delle migliori serie uscite lo scorso anno (e che comunque vi consiglio di vedere).
Non hanno solo due titoli che risuonano in maniera simile, hanno in comune anche la dinamica di indagine descritta: in entrambi i casi ci sono degli agenti dell’FBI che in corso d’opera si inventano da zero un nuovo metodo di profilazione dei criminali.

In Mindhunter, ambientata negli Anni Settanta, vediamo emergere dal tessuto sociale e delinearsi in maniera sempre più precisa una nuova categoria criminale, quella dei serial killer, che viene inventata proprio dal team protagonista della serie.
La narrazione è potentissima anche se non c’è un vero e proprio crimine da indagare, ma solo una procedura che viene raffinata puntata dopo puntata.
Se volete sapere qualcosa di più su questa serie, vi vengono in aiuto i soliti guru di Serialminds.

Manhunt: Unabomber racconta invece del percorso che ha portato l’FBI ad arrestare il bombarolo Theodore Kaczynski. Unabomber terrorizzò gli Stati Uniti tra il 1978 e il 1996, inviando per posta bombe rudimentali, soprattutto alle Università, che uccisero in totale tre persone e ne ferirono 23.

La prima fu recapitata alla Northwestern University nel ’78, la seconda fu trovata (non esplosa) nella stiva di un Boeing 727 che da Chicago era in partenza per Washington. Da lì il nome creato per il terrorista: UN- University e A- airport.

La storia è appassionante per almeno tre motivi.

Manhunt: Unabomber

1. Il gruppo di agenti che ha indagato per risolvere uno dei casi più costosi della storia degli Stati Uniti ha di fatto inventato la linguistica forense.
Leggendo le lettere (e il Manifesto, che vi spiego tra un po’) di Kaczynski, gli agenti coinvolti sono riusciti a identificare dei pattern, delle abitudini di scrittura, dei termini frequenti che hanno permesso ai Profiler di identificarne l’età, il quoziente intellettivo, persino l’Università in cui si era laureato. Figata, punto,

Manhunt: Unabomber
2. La storia personale di Kaczynski è un perfetto manuale di come nasce un terrorista.
Dal 1971 fino al suo arresto, ha vissuto in una capanna sperduta nei boschi del Montana, senza acqua corrente, elettricità o riscaldamento, per vivere esattamente nel suo ideale di società.

Ma il terrorista non è solo un pazzo che ha vissuto recluso e recuperava scarti dalla spazzatura per mettere insieme delle bombe, è anche un uomo con un’intelligenza molto superiore alla media: per dirne una, è stato immatricolato a Harvard a soli 16 anni.

Lì è stato sottoposto allo “studio” del professor Henry Murray, psicologo che faceva parte del progetto MKULTRA della CIA per il controllo della mente. Già.
Illegale e clandestino, in piena Guerra fredda l’MKULTRA coinvolse università, ospedali, prigioni, ricercatori privati.
Murray assodava i suoi studenti, che lo adoravano, come cavie umane sui cui sperimentava combinazioni di droghe e tecniche di tortura psicologica e fisica dette brainwashing.
Lo scopo degli psicologi era quello di portare le cavie a fare quello che volevano, e programmarle per portare a compimento un’unica missione (ad esempio un omicidio). Sembra fantascienza ma è tutto vero, il caso è anche arrivato negli Anni settanta al Senato.

Di sicuro queste sedute incrinarono la personalità già fragile di Ted: i flashback sulla sua infanzia ci raccontano come già da bambino avesse tendenze distruttive.

manifesto_unabomber

3. Il Manifesto di Unabomber: La Società Industriale e il suo futuro, detto anche La Pillola Rossa (vi dice niente? Sì, vi dice giusto, adesso vi spiego).
Nel 1995 Kaczynski invia delle lettere di richiesta a diversi quotidiani, tra cui The New York Times, The Washington Post e pure Penthouse: se pubblicheranno il suo Manifesto, in cambio smetterà di mandare bombe.
Il Manifesto verrà pubblicato e sarà la vera svolta delle indagini. Non vi dico come, ma è grazie a questo che Ted verrà riconosciuto.

Il complicatissimo documento è un’accorata critica a come le tecnologie abbiano ridotto l’umanità in schiavitù (e lì si parlava di automobili, gli iPhone sarebbero arrivati dieci anni dopo) e un’apologia luddista a favore di un ritorno a una civiltà pre industriale. Kaczynski sperava che, grazie alla pubblicazione del Manifesto, le masse si sarebbero sollevate e avrebbero dato inizio a una rivoluzione.
Se vi risuona qualcosa, è perché lo ritrovate paro paro nelle parole di Tyler Durden in Fight Club e dentro tutta la mitologia di Matrix. Esatto, i vostri film preferiti dell’adolescenza non sarebbero mai esistiti senza Unabomber.
Volete approfondire? Leggete qua: Unabomber: che cosa resta oggi di Ted Kaczynski.

Extra: Paul Bettany è il volto scarno e convincente di Ted Kaczynski ed ed è l’unico che brilla davvero in questa serie tv. La sua controparte buona è l’agente Fitz, il talentoso Profiler che, mettendosi contro tutti, arriverà a delineare il profilo del criminale, a costo di perdere lui stesso la sanità mentale. È interpretato da Sam Worthington, che per me è un po’ fiappo e monocorde.

Ma, per contrasto, la caduta di Fitz riesce quasi a instillarci il dubbio che, nell’insensatezza dello strumento che Kaczynski usa per comunicare il suo messaggio, è forse l’unico che ha un vero progetto e un ideale, mentre tutti gli altri intorno a lui si affannano per trovare un senso alle loro vite.

Insomma, se anche voi siete fissati con i tratto da una storia (criminale) vera, che vi mandino anche un po’ in crisi, non vi potete proprio perdere Manhunt: Unabomber.

Call me by your name

Le stagioni dell’amore

Ieri Al contrario ha compiuto un anno (signora mia, come crescono in fretta!).
Questo blog è stato prima un esperimento, poi un impegno, adesso è una palestra in cui mi alleno a scrivere e un luogo di chiacchiere con chi ha voglia di leggermi.

L’ho inaugurato con un post su uno dei film che mi erano piaciuti di più lo scorso anno, Logan, e anche oggi voglio parlare di cinema.

Questo è uno di quei periodi in cui nelle sale italiane esce di tutto a ritmi serratissimi, e se non ti imponi un calendario rigido rischi di perderne molti.

Questa volta mi sono impuntata, e ho visto quasi tutti i candidati agli Oscar. Dopo Scappa – Get Out, che aveva fatto parte del mio weekend horror, ne ho macinati uno alla settimana e sono riuscita a lasciarmene indietro solo un paio.

Ho una classifica personale dei miei tre preferiti, che sono, nell’ordine, Call me by your name (Chiamami con il tuo nome) di Luca Guadagnino, Phantom thread (Il filo nascosto) di Paul Thomas Anderson e The Shape of water (La forma dell’acqua), di Guillermo del Toro, vincitore dell’Oscar come miglior film.

Oltre a scenografie, musiche, costumi, immaginari e atmosfere, che mi hanno rapita in tutti e tre i film, li ho trovati una somma perfetta di tre momenti dell’amore che, chi più chi meno, abbiamo vissuto un po’ tutti almeno una volta nella vita.

Chiamami col tuo nome
C’è l’esplosione dell’amore adolescenziale che invade tutto, ti dilania e ti lascia perennemente assetato. È quel desiderio di fondersi fisicamente e spiritualmente con l’altro, che puoi vivere in quel modo solo a diciassette anni (Call me by your name).

la_forma_dellacqua
C’è poi l’amore contrastato, non compreso, diffidente all’inizio, che si dischiude giorno dopo giorno. Quello verso una persona così diversa da te che non ti aspetteresti mai di amare. Ma è anche l’amore eroico, che passa sopra qualsiasi cosa, che fa di tutto per salvarsi (The Shape of water).


Il filo nascosto
E, infine, c’è l’amore malato, la dipendenza, la sottomissione, quello tra una vittima e un carnefice che all’improvviso si scoprono intercambiabili. Quel rapporto che, se lo vedi dall’esterno, ci vuole un secondo per smascherarlo, ma all’interno, che tu capisca o meno quello che ti sta succedendo, credi sia la cosa migliore che ti possa capitare. È violento, tagliente, psicologicamente sottile. No so nemmeno se definirlo amore o solo autodistruzione (Phantom thread).

Nonostante siano tutte e tre delle storie fantastiche, ci si può facilmente immedesimare in quei sentimenti, in quelle ossessioni, in quei turbamenti.

Dall’adolescenza, purtroppo e per fortuna, se ne esce quasi tutti praticamente indenni.
Il film di Guadagnino è sospeso in una bolla irreale, in cui nessuno si pone domande o si fa problemi, ma ci ha ricordato una cosa fondamentale: siamo stati tutti Elio.

L’amore di The Shape of water è un prezioso miracolo, se arriva a illuminare una vita, in quello di Phantom thread, invece, preghi solo di non cascarci mai dentro. O di uscirne vivo.

 

 

 

 

 

Shameless e Arrested Development

Le mie famiglie preferite delle serie tv

Spoiler alert: in questa rassegna non c’è This is Us, la serie familiare per antonomasia degli ultimi tempi che ha conquistato chiunque tranne me.
Ho visto un paio di puntate e mi stavano tutti troppo antipatici per continuare: la mia politica è ormai di non perdere tempo se una serie tv non mi convince già dalle prime puntate.

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Alcune famiglie non proprio giuste di cui ho già parlato sono quelle di The Marvelous Mrs Maisel, The Affair, e naturalmente quelle di Game of Thrones, dove sono particolarmente problematiche e colorite (soprattutto perché vengono volentieri decimate).

Valar Morghulis
Queste sono altre quattro famiglie televisive a cui mi sono affezionata negli anni.

Shameless

Shameless
Arrivata all’ottava stagione, Shameless ci racconta le vicende dei Gallagher, famiglia del South Side di Chicago, zona di povertà, criminalità, spaccio e problemi vari di ordine pubblico.
I sei fratelli sono stati abbandonati dalla madre tossicodipendente e costretti ad arrangiarsi da soli, con la maggiore, Fiona, a fare a madre ai più piccoli, e a fare i conti con Frank, padre alcolizzato e uno dei peggiori personaggi visti in tv.
A ogni stagione ti auguri che scompaia per sempre, e invece ritorna come un Lazzaro strafatto di metanfetamine. Chapeau al suo interprete, William H. Macy, per essersi fatto odiare così profondamente.

Frank Gallagher

I Gallagher cercano perlopiù di sopravvivere, tra soldi che non ci sono mai, violenza psicologica e fisica, relazioni incasinate, disturbi della personalità, lavori al limite del criminale e un sacco di sesso.
Sono circondati da un corollario di personaggi tremendi che contribuiscono solo a farti perdere la fiducia nell’umanità (magistrale Joan Cusack, che per un paio di stagioni è la vicina ossessivo-compulsiva che si innamora di Frank). Ma poi ci sono i migliori amici, Vic e Kev, che, anche se parecchio incasinati pure loro, sono gli unici su cui i Gallagher possono contare nei momenti di difficoltà.

Decisamente dissacrante, non è adatta ai deboli di stomaco o a chi si scandalizza facilmente.

 

Arrested Development

Arrested Development
Ecco a voi la storia di una facoltosa famiglia che perse tutto, e dell’unico figlio che aveva la possibilità di tenerla ancora unita.

Iniziata nel 2003, interrotta dopo la terza stagione ma ritornata a grande richiesta nel 2013, Arrested Development ci presenta un’altra famiglia in cui vorresti strozzare metà dei componenti: i Bluth.
Il padre (Jeffrey Tambor) viene arrestato per frode fiscale, e l’unico figlio con la testa sulle spalle (Michael, interpretato da Jason Bateman) dovrà tentare di salvare la famiglia e l’azienda. Gli altri sono incapaci, inaffidabili, pigri, inconsapevoli del mondo reale al di fuori della loro vita da ricconi.

Arrested Development

Arrested Development ha un cast pazzesco: oltre a Bateman e Tambor, tra gli altri ci sono Portia de Rossi, che interpreta la sorella gemella di Michael, Will Arnett, un altro fratello, e Michael Cera, che interpreta il timido figlio di Michael. E, tra i personaggi frequenti ci sono pure Liza Minnelli e Harry Winkler (sì, Fonzie di Happy Days).

Altre cose da sapere: è girata come un finto reality show, e il montaggio segue connessioni assurde tra i pensieri dei protagonisti, con esiti esilaranti e gag ricorrenti: uno stile di regia che l’ha resa un’apripista per tutte le serie comedy successive. Ah, è nata da un’idea di Ron Howard (che l’ha pure prodotta).

 

Modern Family cast


Modern Family

Questa serie è un mockumentary, un falso documentario, in cui tre famiglie di Los Angeles imparentate tra loro (i Pritchett) accettano di raccontarsi. Da qui nascono i numerosi momenti in cui i personaggi raccontano le vicende dal loro punto di vista, seduti sul divano di casa, come se stessero rispondendo a un’intervista.

I Pritchett sono rappresentati dal patriarca Jay sposato con Gloria, colombiana, molto più giovane di lui (una stupenda Sofia Vergara) e con un figlio dal precedente matrimonio; la figlia di lui Claire, sposata con lo strambo e tenero Phil, e i loro tre figli (il piccolo, strambo come il padre, la figlia di mezzo super secchiona, e la grande, la classica bella e popolare); Mitchell, l’altro figlio di Jay, omosessuale, con il compagno Tucker e Lily, la loro bambina adottata di origine vietnamita.

Sofia Vergara as Gloria Pritchett

Il titolo ci dice già tutto. Le tre famiglie affrontano temi tipici dei nostri giorni, il rapporto e le crisi di coppia, i diritti delle famiglie omogenitoriali e le diverse generazioni a confronto con l’omosessualità, la crescita dei figli, le coppie miste per cultura e per età.

Il tutto raccontato con un sarcasmo pungente che fa parecchio ridere e anche un po’ digrignare i denti, perché in fondo i Pritchett siamo noi, e soprattutto sono chi non vorremmo essere.

 

Transparent

Transparent
Jeffrey Tambor torna a fare il padre di un’altra famiglia di Los Angeles allo sbando, gli Pfefferman.

Anche questa volta è lui, Mort, che crea scompiglio nei suoi tre figli, già di per loro non molto inquadrati, e forse simili ai Bluth nel loro essere ricchi, incapaci di crescere, egoisti e confusi.
Questa volta, però, non è una truffa economica la bomba che esplode in famiglia, ma il suo coming out sulla volontà di vivere la vita che ha sempre voluto, quella di una donna transgender, e di diventare Maura.

Transparent è stata travolta lo scorso anno da uno dei numerosi scandali che hanno scosso Hollywood. Tambor è infatti stato accusato di molestie da due donne trans che hanno lavorato in Trasparent, e ha deciso di allontanarsene. Così, la serie proseguirà per una quinta stagione senza il suo protagonista.

Nonostante questo, lo show ha avuto un’importanza molto positiva per il movimento transgender, poiché racconta con estrema delicatezza e normalità l’accettazione dell’altro e l’amore in tutte le sue forme (il rapporto tra Maura e l’ex moglie è una delle cose più poetiche e vere viste ultimamente in tv).

 

 

 

Orsone, il ristorante di Joe Bastianich

Da Orsone, il ristorante dei Bastianich

Non sono una fan di Masterchef né dei programmi di cucina in generale, ma devo ammettere che Joe Bastianich mi è sempre stato simpatico, nel suo essere guascone e senza peli sulla lingua, e soprattutto la sua personalità (e cucina) friulano-newyorkese.

Ho scoperto tempo fa Orsone, il ristorante che ha aperto con la madre Lidia a Cividale del Friuli, in provincia di Udine, e quest’anno ho deciso di togliermi lo sfizio e festeggiare lì il mio compleanno.

Ingresso Orsone
L’ingresso del ristorante e bed&breakfast Orsone

 

Orsone è un ristorante/taverna con bed&breakfast immerso nei vigneti, anche questi di proprietà Bastianich. Il vino servito in tavola è infatti della loro cantina.

Le caratteristiche principali nelle gestione di questo posto sono la piacevole e accogliente informalità nel servizio, e il fatto che non è decisamente un posto per vegetariani.
I Bastianich amano la carne, e si vede.

Partiamo dall’informalità: nel ristorante lavorano ragazzi giovani che, insieme ai prezzi molto accessibili, rendono il locale un punto di riferimento non solo per pranzi impegnativi, ma anche per un hamburger veloce e una birra gustati direttamente al bancone, tra una chiacchiera e l’altra con il personale.

La sensazione è quella di essere a casa propria: per il camino che scalda subito l’ambiente, per la simpatia dei dipendenti, per la struttura che è effettivamente una casa di campagna. Ma anche per l’orto di Lidia che ti accoglie all’ingresso con gli odori che poi ritrovi nei centrotavola. E la musica di sottofondo, che testimonia la passione di Joe per il rock classico.

L'orto di Lidia Bastianich
L’orto di Lidia Bastianich

Il menu

Un vero mix tra tradizione friulana e newyorkese, è, come dicevo prima, quasi tutto a base di carne: gli spaghetti con le meatballs, le veil chops con la salsa barbecue per la parte newyorker, o il cervo per la parte friulana.
Ma c’è anche qualche piatto di pesce, come i Maryland crab cakes alla newyorkese (preparati con il locale granciporro), i tagliolini all’astice, la ricciola panata con una salsa al cream cheese.

I Maryland crab cakes
I Maryland crab cakes

 

La ricciola panata con salsa al cream cheese
La ricciola panata con salsa al cream cheese

Una menzione speciale va a uno degli antipasti, che, lo dico mano sul cuore, è uno dei piatti più buoni che abbia mangiato recentemente: l’uovo toc’ in braide, un uovo poché con polentina morbida, fonduta di formaggio e tartufo nero.
Posso gridare al capolavoro?

L'uovo toc' in braide
Capolavoro.

Con il vino cascavo in piedi. Sono una grande appassionata di vini friulani e da Orsone non sono stata delusa né dai bianchi né dai rossi, anche per i prezzi (al calice vanno dai tre ai sette euro, mentre le bottiglie restano quasi tutte sui cinquanta euro).

I vini di Bastianich

Le uniche note dolenti sono state le porzioni un po’ misere dei secondi, sproporzionate rispetto al prezzo, e i dolci.
Pregustavo una fetta di New York cheesecake (che per me è il dolce della vita), e invece abbiamo dovuto optare per un tiramisù “alla loro maniera” che era una tortina al cioccolato, e l’invitante, all’apparenza, “Pane, latte e cioccolato”: un budino di pane e latte un po’ insapore abbinato a un gelato spolverizzato al cioccolato: molto bello, ma non eccelso.

Il "Pane, latte e cioccolato" di Bastianich
il “Pane, latte e cioccolato”

 

Il tiramisù di Bastianich
Il tiramisù.

Però, a parte questo, Dio benedica i Bastianich per la capacità di aver creato un ambiente accogliente ma curato in ogni dettaglio, e una cucina raffinata senza essere spocchiosa.

Joe Bastianich organizza nel locale anche degli eventi musicali.
Se vi interessa, tenete d’occhio la pagina Facebook di Orsone.

 

La foto di copertina è tratta dal blog Storie Buone.
Le foto all’interno dell’articolo sono mie.

Orsetto mannaro

Weekend horror

Nella mia vita c’è stato un momento di cesura fondamentale per la mia passione per il cinema. È stato andare a vedere una domenica pomeriggio “L’Esorcista”, quando, negli anni Duemila, hanno avuto la malaugurata idea di riproiettarlo, restaurato e senza censure.

Ricordo perfettamente quel pomeriggio: metà della compagnia di amici era andata, saggiamente, a vedere il reboot di Charlie’s Angels (quello con Cameron Diaz, Lucy Liu e Drew Barrymore). Io, stolta, e guidata dall’insistenza degli amici e dalla mia passione per gli horror, ho fatto una delle scelte più sbagliate della mia adolescenza.

Fear scream

Non riesco a descrivervi il terrore con cui ho convissuto per molto tempo dopo averlo visto.
 Mi aveva talmente scosso che per anni non ho più guardato un film che avesse una trama minimamente spaventosa, un gradino scricchiolante o una presenza di qualche genere nascosta nel buio. Ancora oggi mi vengono i brividi a ripensarci, dopo almeno quindici anni da quell’infausta domenica pomeriggio.

Scared Kermit

La vita, però, sa sempre come metterti sempre alla prova, e ha voluto che a un certo punto incontrassi F., che di film horror è fanatico. Così, dopo anni (anni) di insistenza, è riuscito a farmi ricominciare a frequentare un genere che, nel profondo del cuore, ho sempre amato.

Qualche weekend fa abbiamo recuperato ben tre film usciti lo scorso anno che possono rientrare nella categoria. Tre storie sovrannaturali abbastanza spaventose, con qualche colpo splatter ben assestato. Eccoli.

Daniel Kaluuya in Get Out

Get Out – Jordan Peele

Questo film, girato da un esordiente a bassissimo budget, ha fatto parecchio parlare di sé fin dalla sua uscita, e io lo seguivo da lontano, in attesa di capire se davvero sarebbe arrivato alla candidatura agli Oscar, come molti avevano pronosticato.
Così è stato, e si è portato a casa ben tre nomination accanto a nomi molto più altisonanti.

La storia è quella di una coppia, lei bianca, lui di colore, che va a trovare per la prima volta la famiglia di lei nella loro tenuta in campagna, isolata da tutto. Come hanno detto tanti prima di me, è un Indovina chi viene a cena con deriva horror. Un film che in maniera molto intelligente e non scontata racconta come ancora il problema del razzismo sia radicato nella cultura americana.

Sul finale diventa quasi Black Mirror. Anzi, le somiglianze con una puntata in particolare dell’ultima stagione sono (causalmente) incredibili. Ah, il protagonista Daniel Kaluuya è anche comparso in una puntata della serie, Fifteen Million Merits.

James McAvoy in Split


Split – M. Night Shyamalan

James McAvoy, il protagonista, lo ricorderete come il giovane Professor X nella saga degli X Men. Il regista, invece, è quello di Il Sesto senso e Unbreakable.

Il film si basa sulla storia vera di un criminale, Billy Milligan, il cui caso è stato importante anche per la psichiatria moderna, perché dentro di lui albergavano ben 24 personalità diverse. La storia di Milligan è incredibile: date anche solo un occhio alla sua pagina su Wikipedia.

Split prende spunto in particolare dal rapimento di tre studentesse da parte di Milligan, romanzando abbondantemente la vicenda, soprattutto nel finale, che vira in maniera brutale nell’horror.
Il film in sé non è un capolavoro, ma si regge tutto sulle spalle di un incredibile McAvoy, che cambia da una personalità all’altra solo alzando un sopracciglio, e ti tiene aggrappato alla sedia in costante apprensione per quello che succederà il minuto dopo.
Guardatelo in lingua originale, perché l’attore scozzese passa dal British allo Yankee senza fare una piega.

Ah, e c’è uno spiazzante cameo nel finale che non c’entra assolutamente nulla. Anche se si dice che potrebbe c’entrare parecchio (leggete cosa ne ha detto l’Atlantic solo dopo aver visto il film).

Jennifer Lawrence in Mother!
Mother! – Darren Aronofksky
Ce l’ho fatta: sono riuscita a recuperare uno dei tanti film che avrei voluto vedere al Festival del Cinema di Venezia.
Prima di tutto, non avevo capito nulla della trama. Jennifer Lawrence e Javier Bardem sono una coppia innamorata che vive in una casa in mezzo al nulla. Lei ha impegnato anima e corpo a ristrutturarla per lui, che l’aveva quasi persa in un incendio. A un certo punto iniziano ad arrivare ospiti inattesi che si piazzeranno in casa, distruggendo del tutto l’armonia familiare. Lui è magnanimo, lei sempre più esasperata e incredula.

Non sono una fan di Aronofsky: Black Swan non mi era piaciuto e mi innervosiscono parecchio i film in cui non trovo subito una logica nella trama.

Però.

Dopo aver passato la prima metà del film a sbuffare per la lentezza della storia e a insultare la povera Lawrence per il suo aplomb insensato di fronte a lampadine che esplodono sangue e cuori che scappano nello scarico del water, ho finalmente capito di cosa si stava parlando e mi sono detta: wow, interessante.

Non voglio svelare nulla, sappiate solo che è un film allegorico e potente, incomprensibile fino a un certo punto ma assolutamente chiaro e devastante nel momento in cui raggiunge il climax. Certo, è una storia tutt’altro che immediata, di quelle che ti si chiariscono solo alla fine, e ti costringe a ripercorrere quello che hai visto con occhi diversi.

Io ho poi letto qualche approfondimento per completare il quadro e vi lascio un paio di articoli per quando l’avrete finito (o prima, se non ve ne frega nulla della sorpresa). Mi raccomando, poi tornate qui e raccontatemi cosa ne pensate.

Spieghiamo Madre! e il suo finale (con l’approvazione di Darren Aronofsky)
Aronofsky spiega il significato di “Mother!”

 

Nina Simone negli anni cinquanta. - Tom Copi, Michael Ochs

Cinque documentari da vedere su Netflix

Non mi soffermo quasi mai sulla categoria “documentari” di Netflix, ma è forse una di quelle più complete e varie: si trovano biografie di cantanti, scrittori, sportivi, comici, inchieste giornalistiche, storie di grandi chef, di vite eticamente corrette e attivismo, di design, musica, personalità storiche e politiche.
Ecco alcuni dei miei preferiti.

What happened, Miss Simone?
What happened, Miss Simone?
Nina Simone non è stata solo una delle cantanti e pianiste soul più straordinarie della Storia, ma anche un’attivista per i diritti civili che ha marciato con Martin Luther King e Malcolm X, una donna dalla vita privata molto complicata a causa del disturbo bipolare di cui soffriva, sfruttata e picchiata dal suo compagno e manager.

Il documentario racconta con onestà la vita di una musicista gigantesca e fragile attraverso interviste, concerti e filmati di repertorio, e il contributo della figlia Lisa Simone Kelly, di amici e collaboratori della cantante.

Hot girls wanted: turned on

Hot girls wanted: turned on
Questa serie-documentario racconta il rapporto tra sesso e tecnologia da un punto di vista femminile, e di come l’uso di internet e dei social network abbia cambiato le relazioni tra le persone in maniera profonda.

Si parla di pornografia attraverso le storie di fotografe, registe, attrici e “reclutatrici” nel settore del porno, e delle difficoltà (e pericoli) di un’industria dominata dal punto di vista maschile.
O di come strumenti come Tinder permettano di incontrare persone nuove, che da un giorno all’altro si possono cambiare e sostituire come un vestito.

Dovresti venire in privato” racconta l’amicizia tra una cam-girl e uno dei suoi fan più fedeli, un ragazzo che non ha mai avuto una vera relazione e che confonde il loro rapporto con qualcosa di più romantico.

L’ultima puntata, “Continua a riprendere”, parla di adolescenti e dell’utilizzo morboso e incontrollato di Periscope, un’app per la condivisione di video, ed è un vero pugno nello stomaco.

Life, Animated

Life, Animated
Siamo negli Anni Novanta: Owen è un bambino che, dopo i primi tranquilli tre anni di vita, all’improvviso smette di parlare, e regredisce nelle capacità fisiche e motorie. La diagnosi di autismo colpisce la famiglia che si trova completamente spiazzata e inerme per anni, senza sapere cosa fare.

È il padre che un giorno trova la chiave per comunicare con lui tramite i film della Disney, che il bambino guarda in continuazione e conosce a memoria.
Owen ricomincia a parlare attraverso le frasi dei suoi personaggi preferiti, che non sono i protagonisti, ma quelli da lui definiti gli “ausiliari” (il primo è stato Jago, il pappagallo di Aladdin). Questi diventeranno la sua rete di protezione, e da loro imparerà piano piano un linguaggio per esprimere le sue emozioni.
Anni dopo, Owen è riuscito a prendere il diploma e ad andare a vivere da solo, a trovarsi un lavoro e a vivere una vita normale.

Life, animated, candidato agli Oscar del 2017, è un racconto delicato ed emozionante, che non scade mai nella ricerca della lacrima facile.

i-am-your-father

I am your father

Agli occhi del pubblico, le star della Saga di Star Wars sono tre: Harrison Ford, Carrie Fisher e Mark Hamill. Ma il primo personaggio che viene in mente pensando ai film di George Lucas è sempre Dart Vader.

Eppure, se vi chiedessi chi è l’attore che lo ha interpretato, quanti di voi saprebbero la risposta?

I am your father racconta la storia dello sfortunato David Prowse, l’attore che ha dato il corpo (ma non la voce, né il volto) al cattivo per antonomasia. Scelto per la sua fisicità imponente (è alto quasi due metri e, da giovane, era un appassionato di culturismo), al cinema aveva già interpretato Frankenstein.

Fu su di lui che venne modellato Dart Vader, ma sempre ridoppiato, mai coinvolto negli sviluppi della storia del suo personaggio, spesso sostituito dai suoi stunt-man e, soprattutto, non era sua la faccia nella famosa scena della morte.
E, probabilmente per un gigantesco equivoco, fu anche bannato dalla Lucasfilm e da tutti gli eventi ufficiali, .

Due registi spagnoli hanno cercato di ridare all’attore, ormai anziano, la gloria che merita.

Casting JonBenet

Casting JonBenet
I casi irrisolti di cronaca nera sono il mio guilty pleasure. Quando ho visto il documentario Amanda Knox, sempre su Netflix, ne ho discusso per giorni.

Conoscevo da tempo il caso della piccola JonBenet Ramsey, una reginetta di bellezza americana morta quando aveva solo sei anni.
Fu trovata strangolata nella cantina della casa dei genitori in Colorado, il giorno di Santo Stefano del 1996, e non si è mai scoperto chi fosse l’assassino.

Il caso, all’epoca, è stato oggetto di un grande scalpore mediatico e ha dato luogo alle teorie più variegate, dalla madre che avrebbe falsificato la lettera di riscatto trovata in casa, al sospetto ricaduto sul fratellino maggiore (che all’epoca aveva solo dieci anni), all’incarcerazione di un pedofilo che avrebbe confessato l’omicidio, ma forse solo per mitomania.

Tutti questi aspetti emergono nel documentario girato durante un immaginario casting per un film sul caso di JonBenet. La storia si compone in maniera originale attraverso le interviste alle persone del luogo che si presentano alle audizioni. Ognuno dà la sua opinione sull’omicidio, filtrata dalle esperienze personali, dalla conoscenza della famiglia, ma anche da traumi vissuti in prima persona.

In copertina: Nina Simone negli anni cinquanta. – Tom Copi, Michael Ochs Archives/Getty Images

The Marvelous Mrs Maisel e Easy

The Marvelous Mrs. Maisel ed Easy

Passati i Golden Globe, mi dedico all’attività più importante dopo ogni evento stellare: controllare i look del red carpet, che in questo caso sono stati incidentalmente più chic del solito perché le star hanno sfilato in total black a sostegno della campagna Time’s Up contro gli abusi sessuali.

Controllando la lista dei vincitori, ho scoperto che ha avuto un discreto successo una serie tv che per molto non mi ero filata di striscio, ma che ho appena finito con un certo gusto, e va la infilo nel mio terzo post del recuperone del weekend.

Binge watching

Il mio recuperone del weekend è fatto di serie brevi, al massimo un paio di stagioni, che in due giornate potete finire senza problemi. Di solito non sono tra quelle osannate dalla critica e sono rimaste in disparte rispetto ad altre ben più famose.

Per il primo weekend vi avevo proposto Love e Lovesick. Per il secondo mi sono buttata sul politicamente scorretto con I love Dick e Fleabag.

Per il terzo weekend di binge watching vi propongo come prima serie una coccola, qualche ora di puro divertimento senza troppo sbattimento. E come seconda, una serie antologica leggera ma che apre a qualche inaspettata riflessione.

Rachel Brosnahan as Midge Maisel

The Marvelous Mrs Maisel (su Prime Video)
I primi minuti del pilot di questa serie tv mi avevano ingannata: la protagonista Midge Maisel mi ha fatto subito pensare a una Kimmy Schmidt degli Anni cinquanta, ma molto più antipatica. Poi ho capito che avrebbe preso tutt’altra direzione.

Midge è una giovane casalinga ebrea di New York che viene mollata dal marito Joel, un aspirante comico che non ha molto successo. La sera dell’abbandono Midge si ubriaca, torna nel locale dove si esibiva Joel e fa letteralmente a pezzi la platea, scoprendosi una stand-up comedian molto più talentuosa del marito.

La stand-up comedy americana è molto più dissacratoria di quella nostrana e non fa sconti a nessuna categoria politica o religiosa, è scorretta in temi di sesso, famiglia, questioni razziali.

Questa serie artificiosa, strutturata quasi come un musical (ma dove nessuno canta o balla), ci racconta una stand-up comedy che prende in giro lo splendore e il benessere economico di quegli anni, ma anche una disuguaglianza femminile che in qualche modo stava già iniziando a incrinarsi.

I dialoghi serratissimi ricordano lo stile di Gilmore Girls, mentre le atmosfere, impeccabili e patinate, quello di Mad Men.

Non aspettatevi però dei personaggi strutturati e profondi: Midge e Joel sono quelli più riusciti, mentre i secondari risultano farseschi e macchiettistici (perfettamente in linea con la messa in scena), in alcuni casi forse eccessivi, e fanno solo da divertente contorno alla storia dei protagonisti.

La brava (e bellissima) Rachel Broshanan ha appunto vinto il Golden Globe per la miglior attrice protagonista in una serie tv comedy e la serie stessa si è portata a casa il premio come miglior comedy.

Piccoli Passi Easy

Easy (su Netflix)
A un primo sguardo, Easy rispecchia il suo nome: semplice, e per questo la prima stagione non mi aveva particolarmente entusiasmata. 
Come in ogni serie antologica, i personaggi sono sempre diversi di puntata in puntata (anche se qui e là scopriamo delle connessioni tra loro) e il fulcro di tutte le storie raccontate è riflettere sui rapporti di coppia.

La seconda stagione mi ha stupito perché porta la riflessione a un livello più profondo e non scontato. I protagonisti sono quasi tutti gli stessi, presumibilmente qualche anno dopo rispetto a dove li avevamo lasciati, e si scoprono nuovi intrecci tra una storia e l’altra.
I temi sono vari: dal tentativo di salvare un matrimonio che si è voluto aprire ad altre persone (Matrimonio aperto), al lavoro di una escort e il suo rapporto con i clienti che travalica l’aspetto sessuale (Secondo lavoro).
Le puntate più interessanti sono quella che si interroga su come ci si può rapportare con gli ex partner senza combinare troppi casini (Ricorda il tuo Twitter!), quella sulla gelosia che compare inesorabile anche quando si fa della propria vita un baluardo contro gli stereotipi (Lady Cha Cha), e quella sulla forza e la dolcezza del desiderio di maternità (Piccoli passi).
C’è poi La figlia prodiga, un’altra puntata che mi ha colpito e che esce dai confini tracciati dalla serie, una riflessione su cosa sia la vera bontà cristiana vista attraverso lo sguardo tagliente di un’adolescente ribelle.

E allora easy diventa solamente il tono con cui i personaggi si raccontano e lo stile di regia di queste brevi puntate, semplice ma non semplicistico.
Sfido chiunque a non sentirsi partecipe dei dubbi dei protagonisti. Ti intrufolano in mezzo a dialoghi che sembrano rubati da conversazioni di tutti i giorni, pieni di esitazioni, quasi recitati a braccio.
Ed è come guardare dal buco della serratura le nostre stesse debolezze.

 

 

 

 

L’ultimo post dell’anno

Con l’ultimo post del 2017 vorrei tirare le fila dell’anno appena passato. Quest’estate avevo già fatto un bilancio parziale, un bilancino, dopo pochi mesi dall’apertura del blog, ma ora è il momento di fare sul serio.

Snoop Dogg

Che sono diventata freelance ve l’ho già raccontato, ma nel frattempo ho pure cambiato taglio di capelli e per i primi mesi del 2018 è in programma anche un trasloco (ma non voglio dire dove fino a quando non sarà ufficiale, perché a essere scaramantici non si sbaglia mai).

Cosa mi lascio alle spalle di questo 2017? 


È stato un anno densissimo di eventi, di persone, di studio, di cadute e risalite. Ma è stato anche un anno di conferme e nuove certezze, e cose belle di cui ho voluto circondarmi il più possibile. Perché un anno fa presto a scappare via, ed è meglio cercare di non sprecarlo.

Quindi, ecco il mio bilancio dell’anno appena passato.

Mappa di viaggio

Ho fatto due viaggi importanti, uno che rimandavo da anni (tornare a Londra) e l’altro, in una città scelta un po’ a caso e di una bellezza sorprendente (Vilnius). È stato anche l’anno in cui sono tornata di più a Venezia, nonostante il rimpianto di un Festival del cinema mancato.

Libro e caffè
Finalmente ho ricominciato a leggere, soprattutto in questi ultimi mesi, ma anche durante una varicella che mi ha sorpresa in primavera e nella scorsa, torrida, estate.

Tanti, ancora, compongono la mia biblioteca dei libri non letti, altrettanti sono ancora in wishlist, ma quelli che sono riuscita a finire sono:

Televisione vintage

Sono state decine le serie tv che ho divorato e di cui ho spesso avuto qualcosa da dire. Ma me ne sono piaciute altrettante, anche se non ne ho (ancora) parlato: Mindhunter, Dark, Big little lies, She’s gotta have it, Master of None, Santa Clarita Diet, Suburra

Secondo l’app del mio telefono dove ne tango traccia, finora ho passato più di due mesi della mia vita guardando serie tv.

C3PO Star Wars
I film visti quest’anno forse sono stati troppo pochi.
Ce ne sono alcuni che ho voluto a tutti i costi vedere in sala e che mi resteranno nel cuore: Logan, La La Land, Baby Driver, Dunkirk e, naturalmente, Star Wars – Gli ultimi Jedi.
E poi ci sono stati Jackie, Okjia, Blade Runner 2049, Arrival e l’ultimo, Wonder Wheel, visto qualche giorno fa in un cinema semi vuoto in un pomeriggio di pioggia.

Cuffie e vinili

È stato anche un anno di musica. Mi ha accompagnata non solamente dal vivo (Mac DeMarco, Ennio Morricone, i Jamiroquai), ma anche attraverso le serie tv e i film con una colonna sonora perfetta: The Get Down, Big Little Lies, She’s Gotta Have it, American Gods, La La Land e Babydriver.

E, last but not least, sono stati tanti anche gli album usciti nel 2017 che hanno scandito il passare dei mesi. Ve li lascio qui come ultimo pensiero, se avete voglia di finire l’anno con qualcosa di bello.



Se l’anno che sta per finire è stato per me un momento di semina, in cui ho messo le fondamenta, il mio augurio per il 2018 è che diventi quello della crescita e della costruzione. Buon nuovo inizio a tutti.

Ciak cinema

Altri sei profili Instagram per amanti del cinema

Quest’estate, disperata come sempre per il solo fatto che fosse estate, ho scritto un post per tutti gli amanti del cinema che in quel periodo soffrivano con me per la mancanza di una programmazione decente in sala: Nove profili Instagram per amanti del cinema.

Nel frattempo la programmazione è ripartita, ho ricominciato a frequentare i cinema, ma soffro per il motivo complementare e opposto: i troppi film che escono in contemporanea.
Per non pensare allora al fatto che ne vedrò solo la metà di quelli che vorrei, ho preparato la seconda lista di profili Instagram per appassionati. Enjoy.

Accidentally Wes Anderson
Ecco, per caso, compare Wes Anderson, in un vagone di un treno, una villa antica, l’atrio di un hotel. Questo bellissimo account raccoglie tutti i luoghi del mondo (e le loro incredibili storie) che sembrano usciti da un film del regista e illuminati dalla sua fotografia dai colori pastello.

 

 

Mario Oscar Gabriele
Un piccolo account di un illustratore che ama parecchio i film Disney, e trasforma gli attori in personaggi che sembrano usciti da Mulan o dai fumetti di Paperino.

 

 

Shelf Heroes
Una fanzine indipendente (quella che si è inventata Ticket PLZ, profilo di cui avevo parlato nello scorso post) di illustrazione dedicata al cinema. Ogni artista coinvolto illustra un film che inizia con la lettera dell’alfabeto dell’edizione in corso del magazine.

 

 

The Smallest Boy
Questo artista realizza piccole miniature di carta tagliate al laser e poi montate a mano che ricreano i classici del cinema. Hitchcock e Kubrick sono i suoi i preferiti.

 

 

Script to screen
Questo è forse il mio account preferito del momento. Chi lo gestisce ha montato dei brevi video di numerose scene di film con la sceneggiatura corrispondente che scorre in basso.
Per aspiranti sceneggiatori o malati di mente come me.

 

 

Phil Grishayev
Phil, un produttore di Los Angeles, fa una cosa che tutti i fanatici di cinema prima o poi vorrebbero fare: ritorna sui luoghi dove sono state girate le scene dei suoi preferiti e si fa fotografare all’incirca come i protagonisti. La riuscita delle foto non è meravigliosa, ma il profilo è divertente ed è una buona mappa per organizzare tour a tema.

 

 

Nella prossima puntata, vi elencherò i miei account preferiti di attori e registi (qualcuno più gossipparo, qualche altro, invece, per il talento nel fare le foto).

Lista dei desideri parte 2: libri

Se avete già riempito il carrello con i regali più giusti per gli appassionati di serie tv, prima di fare l’ordine prendete carta e penna e aggiungete qualche libro.

Adoro i tomi fotografici e i fumetti, e per la mia lista ne ho scelti diversi. Ma c’è anche un romanzo, una riedizione illustrata di una saga che amo da più di un decennio, e un libro per tornare adolescenti incazzati.
Pronti?

Star Wars Costumes: The Original Trilogy – Brandon Alinger
Visto il periodo, non potevo non infilarci una cosa a tema Star Wars. In attesa di tornare in sala a fare la groupie di Kylo Ren, il primo desiderio in lista riguarda la mia parte preferita della saga: la trilogia originale e i suoi favolosi costumi.

Star Wars Costumes: the original trilogy.


Visualising the Beatles – John Pring, Rob Thomas

Da quanti punti di vista e in quanti modi si può raccontare la storia dei Beatles? Infiniti. Dopo aver visto il dimenticabilissimo documentario in cui la racconta la loro segretaria, mi manca solo questo: i Beatles raccontati in infografiche.

 

OMG Posters: A decade of Rock Art – Mitch Putnam
Ho la compulsione di comprare locandine degli eventi che vado a vedere, soprattutto le mostre, ma anche i concerti. Ecco, se qualcuno mi compra questo librone definitivo dei poster degli ultimi dieci anni di praticamente tutte le band rock esistenti, almeno posso lasciare libera qualche parete di casa.

 


The Wes Anderson Collection – Bad Dads: Art Inspired by the Films of Wes Anderson – Spoke Art Gallery
Come superare un rapporto familiare difficile? Immaginandovi in un film di Wes Anderson. Ho già parlato di questo oggetto del desiderio quando pensavo di riarredare casa come avrebbe fatto il regista.



 Heather, più di tutto. – Matthew Weiner

Questo non è illustrato né fotografico, è un romanzo, un noir che parla dell’incontro di due mondi totalmente all’opposto, uno scintillante e perfetto, l’altro basso e immerso nel degrado, attraverso la figura della bellissima Heather.
Vi svelo il segreto: è scritto da uno degli autori di Mad Men.

Heather, più di tutto - Matthew Weiner

Harry Potter illustrato da Jim Kay
Mi ero persa tutta la bellezza di questo progetto, e ho scoperto da pochissimo questo illustratore che ogni anno riprende in mano un volume di Harry Potter per illustrarlo in maniera incredibile. Quest’anno è arrivato al Prigioniero di Azkaban, che è anche il mio capitolo preferito. Fate voi.

 

Atlante dei luoghi insoliti e curiosi – Alan Horsfield, Travis Elborough
Penso che questo atlante sia il libro perfetto da leggere in queste sere d’inverno, per mettere le crocette su tutti i posti meravigliosi che sarebbe il caso di visitare almeno una volta nella vita. Qui ci sono i luoghi più assurdi, bizzarri, sperduti e dimenticati della Terra. Regioni remote, terre sommerse, labirinti sotterranei e città fantasma: dai, vi serve altro?

Atlante dei luoghi insoliti e curiosi

 

I diari bollenti di Mary Astor – Edward Sorel
Sono appassionata dei profili Instagram che parlano di libri, e questo fumetto è comparso moltissime volte nel mio feed. Racconta “il grande scandalo a luci rosse del 1936” che coinvolse l’attrice Mary Astor e all’epoca uscì su tutti i giornali. L’ex marito, nella causa per l’affidamento della figlia, minacciò di pubblicare i diari della moglie che aveva scovato quando erano ancora sposati, e in cui lei aveva documentato e classificato tutti gli affaire che aveva avuto (con relative misure e commenti sulle prestazioni). In questo romanzo Edward Sorel si finge un disegnatore di tribunale e racconta lo scandalo, ancora attualissimo.

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Colazione d’autore. #bookbreakfast di Petunia Ollister
A proposito di Instagramer che fotografano libri, Petunia Ollister è un’istituzione. Di solito non amo molto le tavole della colazione preparate appositamente per essere fotografate, ma le sue sono bellissime, eleganti e di ispirazione per i prossimi libri da leggere. Spesso ci si scovano anche consigli su oggetti di design o mostre da visitare.



Ti saluta stocazzoEnlarge your pencil – coloring book 


I coloring book hanno rotto le palle e per la maggior parte sono talmente brutti che non mi viene per nulla voglia di provare a rilassarmi in loro compagnia. Ma riuscite a immaginare la soddisfazione di colorare le peggio parolacce che vi vengono in mente, o tutte le categorie del porno? Geniale, a partire dai titoli.

 

P.S. Anche in questo caso, se acquistate dai link che ho inserito nell’articolo, il blog riceverà una piccola commissione.

 

 

 

Idee regali Natale

Idee per Natale: serie tv

In questo periodo dell’anno centinaia di siti pubblicano i loro consigli per i regali da fare agli “amanti di… (completa a piacere)” in cui spero sempre di trovare delle idee originali, ma il più delle volte ricevo in cambio solo una grande delusione.
Ecco, finalmente mi posso sfogare e vi faccio le mie, di liste regalo.
La prima, ovviamente, è quella sui gadget a tema serie tv.

Ah! Se acquistate su Amazon dai link che trovate in questo post darete un piccolo contributo alla causa di Al Contrario. E se i regali li comprate per me, sarete ancora più bravi. Cominciamo.

Stranger Things
Qui non sapevo dove sbattere la testa, vorrei all’incirca tutto quello che il marketing mi offre. Se devo proprio fare una scelta, non potrei vivere senza:

Sherlock
Di Sherlock vi avevo già raccontato l’acquisto più pazzo di sempre, una tripletta di mega poster dedicati alla seconda stagione, ma sapete come vanno queste cose, di Cumberbatch non se ne ha mai abbastanza. Quindi via con:

Game of Thrones
Altro argomento su cui c’è l’imbarazzo della scelta: c’è merchandising di tutti i tipi e so già che tra un po’ mi stuferò di vedere gadget finto-medievali o magliette con scritto “Mother of Dragons”. Ma c’è ancora spazio per essere originali. Per esempio con:

Orange is the new Black
Ho parlato della mia simpatia per le penitenziarie di Litchfield in un articolo su Sgaialand Magazine, e ho scoperto che anche questa serie ha generato una bella fandom e tanti bei gadget.


Mad Men
In Mad Men sono tutti fighi, quindi aspettatevi un merchandising di livello altissimo.