Lost+Found

Casa dei Tre Oci è uno dei miei posti del cuore a Venezia. Non solo perché è un palazzo bellissimo in un luogo suggestivo (in Giudecca, praticamente di fronte a San Marco), ma anche perché è uno spazio espositivo che ospita mostre fotografiche molto particolari.

Lì lo scorso anno ho visto Helmut Newton e l’anno prima “Sguardo di donna, da Diane Arbus a Letizia Battaglia – La passione e il coraggio”, una rassegna di fotografe donne con gli allestimenti di Antonio Marras.

L’ultima è stata Lost + Found, dedicata a David LaChapelle.

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Rebirth of Venus, 2009, ©David LaChapelle


LaChapelle è un artista che mi porto dietro da diverso tempo, non mi ricordo nemmeno come l’ho conosciuto ma mi ha colpito da subito il suo modo di ritrarre i divi di Hollywood in uno stile assolutamente personale e riconoscibile, dai colori saturi, eccessivi e stravaganti, un fotografo surreale e dissacrante come non ne avevo mai visti.

È un regista e fotografo statunitense che ha lavorato molto nella moda e nella pubblicità, e il cui primo lavoro, negli Anni Ottanta, gli fu commissionato da Andy Warhol per la rivista Interview.

Negli anni ha fotografato tantissime superstar (tutti volevano essere ritratti da lui), come Michael Jackson (che con The Beatification è esposto alla mostra), Lady Gaga, Naomi Campbell, la famiglia Kardashian (di cui ha realizzato una foto delirante per il biglietto di auguri di Natale di qualche anno fa, anche questa esposta ai Tre Oci), Drew Barrymore, Madonna, Tupac… ma potrei andare avanti all’infinito.

È anche regista di diversi video musicali, tra cui alcuni di Amy Winehouse, Jennifer Lopez, Elton John, Christina Auguilera.

Questa meraviglia ve la ricordate? È sua.

Grazie a un potente mix di sacro e profano racconta, con il suo stile eccessivo e pop, la società dei consumi, la mercificazione del corpo, l’ansia di apparire, l’esposizione mediatica senza tregua dei divi, ma anche la sessualità, la religione, la fede, le cadute e le rinascite.

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The Beatification, 2009, ©David LaChapelle


Ai Tre Oci sono esposte diverse serie fotografiche, opere oniriche e ricchissime di dettagli (a volte davvero gigantesche), tra cui Paradise Lost, The Deluge e After the Deluge (il progetto nato dopo aver visto la Cappella Sistina e i dipinti di Michelangelo) e New World, l’ultimo lavoro dell’artista qui presentato in anteprima mondiale.
Queste ultime fotografie sono state scattate nella foresta pluviale delle Hawaii che descrivono un Paradiso abitato da personaggi colorati, in pace tra loro e in perfetta armonia con la natura.

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News of Joy, 2017 ©David LaChapelle


Una delle mie fotografie preferite è sempre stata questa, Pietà with Courtney Love, che ho avuto la sorpresa di ritrovare ai Tre Oci e che ritrae la cantante in una rivisitazione della morte di  Kurt Cobain, con il corpo del marito tra le braccia come un moderno Gesù morto per overdose.

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Pietà with Courtney Love, 2006 ©David LaChapelle


 

Se vi piace il fucsia, non siete timidi o facilmente impressionabili, avete tempo fino al dieci settembre per visitare la mostra.

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Il mio rapporto con l’arte contemporanea

Il mio amore per Venezia è nato relativamente tardi, e fino a pochi anni la snobbavo anche un po’.
Poi, come spesso mi accade, è scattato qualcosa ed ho iniziato a fare entrare piano piano Venezia nelle mie abitudini, a sentirne la mancanza, a organizzarmi per cercare di tornarci almeno un paio di volte l’anno.

A Venezia ci sono due delle mie cose preferite, la Biennale arte e il Festival del Cinema.

Dal Festival torno sempre con gli occhi a cuore, pensando a quando qualcuno si deciderà a farmi fare un film e finalmente sarò io quella che scende dalla barca per fare la passerella lungo il molo (ancora mi chiedo perché James Franco l’anno scorso non mi abbia portata via con lui).

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Con l’arte contemporanea, invece, ho un rapporto un po’ meno immediato: ci conosciamo, ormai ci frequentiamo da tanti anni, non parliamo esattamente la stessa lingua ma ci capiamo abbastanza bene. Per questo vado alla Biennale con entusiasmo, ma sempre con i piedi di piombo.

Quest’anno, mentre giravamo per i Padiglioni, è sorto l’eterno dilemma che affligge gli appassionati: “l’arte va spiegata o l’arte va solo vissuta?”.

A me di solito succede così: se un’opera mi piace al primo impatto e mi emoziona, non ho la necessità di leggere cosa significhi per l’artista perché  mi è sufficiente così.

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Se, invece, un’opera mi fa schifo, anche se mi spiegate che ha un altissimo significato sociopolitico, di protesta, di ribellione o che so io, continuerà facilmente a farmi schifo.

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Poi c’è una terza via, quella in cui l’opera che non mi colpisce il cuore ma la testa, perché è proprio il suo significato è immediatamente visibile e potente.

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Vi faccio qualche esempio preso proprio dall’ultima Biennale.

1. L’opera mi emoziona e non mi serve che me la spieghi.

– Il padiglione della Russia
(opere di Grisha Bruskin, Sasha Pirogova e il duo Recycle Group)
Il tema non è nuovo e la rappresentazione non è neanche troppo originale (qui si parla di lotta contro i regimi, dittatura e corruzione, e a un certo punto usano la metafora dei gironi danteschi).
Però, una volta entrati nella sala centrale, semibuia, ci si ritrova circondati da proiezioni inquietanti che illuminano delle sculture altrettanto spaventose, e una voce profonda parla in russo in maniera piuttosto angosciante (e che per la mia conoscenza della lingua può aver anche elencato gli ingredienti per la torta di mele).

La casa in cui piove dentro
(Vajiko Chachkhiani – Living dog among dead lions)

Nel padiglione della Georgia e dell’Armenia c’è una capanna di legno abbandonata in cui puoi sbirciare dalle finestre e vedere al suo interno una stanza completamente arredata in cui piove in continuazione.
L’odore del legno bagnato, l’effetto straniante di vedere piovere solo all’interno e non fuori, il pensiero di cosa sarà dell’opera alla fine della Biennale dopo tutta quell’acqua: queste cose mi sono bastate per apprezzarla.

 

Il cavallo gigante dell’Argentina
(Claudia Fontes, The horse problem)
C’è un cavallo bianco imbizzarrito, gigantesco, che si sta per scagliare contro una ragazza che tenta di difendersi, mentre un altro ragazzo è accovacciato a terra. Il cavallo è di sicuro simbolo di qualcosa, i due ragazzi anche, ma la scultura è talmente maestosa e imponente che ti lascia a bocca aperta anche se non ne conosci il significato.

cavallo         Proprio come lei.


– L’omino che con un solo gesto fa un gran casino

(Liliana Porter, El hombre con el hacha y otras situaciones breves)
C’è un omino piccolissimo con in mano un’ascia, e da lì parte una lunghissima e dettagliata catena di distruzione (di una stanza sola o del mondo intero?).

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– Un muro di gomitoli colorati
(Sheila Hicks, Escalade Beyond Chromatic Lands)
Una parete ricoperta di giganteschi gomitoli di lana colorata. Che altro dirvi, se non che mi ci sarei buttata sopra?
E, poi, lei non è adorabile?

 

– Il delirio nel padiglione della Corea
Qui non ho nulla da aggiungere.



2. L’opera che mi fa schifo anche se me la spieghi

Il padiglione ammuffito di Israele
(Gal Weinsten, Sun stand still)
Muffa, dappertutto, e poi fondi di caffè e paglietta metallica. Di quest’opera mi rimarrà solo il suo odore insostenibile.

israeleDa: Art a part of culture

I Cristi ammuffiti nel padiglione italiano
(Roberto Cuoghi, Imitazione di Cristo)
Altra muffa, altra puzza, un corridoio di plastica gonfiabile che sembra quello dei film horror in cui è scoppiata un’epidemia di un virus sconosciuto e tutti vanno messi in quarantena.
Critici impazziti per quest’opera che a me non è arrivata. Tranne al naso.

italiaDa: Artribune

La grata coi sassi nel padiglione brasiliano
(Cinthia Marcelle, Chão de caça)
Una grata per terra con qualche sasso incastrato e oggetti sparsi nelle varie stanze, tra cui dei tubi e una televisione. Anche qui, critici impazziti e io boh.

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Da: Artforum


3. L’opera in cui è il significato che conta

– Il Padiglione della Francia
(Xavier Veilhan, Studio Venezia)
Sono entrata e ho detto: adesso mi fermo qui.
Il padiglione è stato concepito come uno studio di registrazione completamente fatto di legno chiaro, con strumenti in ogni angolo.
Qui dentro, musicisti di tutto il mondo e di generi diversi comporranno musica durante tutta la durata della Biennale.
Il profumo di legno e la luce morbida di questo Padiglione mi hanno fatto subito dimenticare la muffa di prima.

Il Padiglione della Tunisia
(The absence of paths)
Qui ci siamo messi in coda per fare il nostro Universal Travel Document dell’immaginaria Repubblica di Freesa. Quando l’abbiamo firmato, gli addetti ci ha chiesto di indicare come zona di provenienza un punto a nostra scelta in una cartina geografica in cui i continenti sono tutti uniti, senza confini.
L’opera è dedicata ai rifugiati, i migranti, ai richiedenti asilo, a chi si sposta nel mondo contro la sua volontà per cercare un futuro migliore.

passaporto 2.jpgIl mio nuovo passaporto.

 

Altri video o foto delle opere della Biennale le trovate nel mio profilo Instagram.
E se ci siete stati o ci andrete, sono curiosa di sentire anche le vostre opinioni.

 

Londra per sci-fi geek

Londra è bellissima, sempre, e ogni volta che ci torno è come se visitassi una città diversa.

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Di lei amo tante cose.
La metropolitana perché è semplice, pacata e familiare: scendi a una qualsiasi fermata e hai la città ai tuoi piedi.
I suoi mezzi di trasporto, perché non mi passerà mai la sorpresa di vedere gli autobus a due piani e le persone che guidano a destra.
Gli infiniti ristoranti di tutte le etnie, anche quelle cucine che nemmeno sapevo facessero una categoria di cucina a sé.
Lo spirito British delle sue casette di mattoni con i cancelletti di ferro e delle sue cabine telefoniche rosse che resistono stoicamente.

Questa volta è stata la Londra dei musei e delle gallerie a rapirmi il cuore.
In 48 ore ho visitato la Tate Modern, il Victoria and Albert Museum e, soprattutto, la mostra Into the Unknown, a Journey through Science Fiction, al Barbican Center.

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Di questa esposizione avevo letto qualcosa già da un po’ e mi aveva attratto il fatto che ci sarebbe stata un’installazione ispirata a una puntata di Black Mirror, anche se non una delle mie preferite (Fifteen Million Merits).

Into the Unknown è dedicata, appunto, alla fantascienza, e a come l’uomo l’ha interpretata nella letteratura, il design, il cinema e l’arte attraverso i secoli, in relazione alla sua conoscenza del mondo, dell’universo e dell’uomo stesso.

La prima tappa del percorso (Extraordinary Voyages) è rappresentata dalla fantascienza à la Jules Vernes e i viaggi di Gulliver: lo sconosciuto e il fantastico si annidano negli angoli ancora inesplorati della Terra, negli abissi marini, arriva dal passato, e prende la forma di un dinosauro o un gigantesco cetaceo.

Successivamente l’uomo inizia a guardare in su e la paura si trasferisce sulla luna e nello spazio (Space Odysseys), e a tutte le spaventose conseguenze di un viaggio fin lassù, presagendo attacchi di alieni spaventosi e creature siderali.

Infine, in conseguenza alle scoperte della tecnologia, della genetica e della medicina, l’umanità inizia ad avere paura di sé stessa e la fantascienza si trasferisce nella società (Brave New Worlds) e dentro all’uomo stesso (Final Frontiers), che costruisce robot antropomorfi o modifica geneticamente il suo stesso corpo e mente, diventando supereroe e mostro, Iron Man e Frankenstein.

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Il percorso della mostra si snoda tra stampe bellissime dell’Ottocento, libri e fumetti, spezzoni di film di ogni epoca proiettati su grandi monitor che intervallano teche piene oggetti di scena originali, installazioni e videogiochi interattivi.

Un viaggio molto interessante e adatto a veri nerd del cinema di genere: io, orgogliosa rappresentante della categoria, mi sono emozionata davanti a elmetti originali degli Anni Settanta di Darth Vader e degli Stormtrooper, maschere e tute da astronauta usati nel primo Alien, in Star Trek e Interstellar, oggetti di scena di Existenz, Inception, sceneggiature originali di Kubrick.

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C’è anche un’installazione interattiva dedicata a The Martian, in cui è possibile ricostruire una scena del film da un centro di controllo in miniatura.

E quindi, vi chiederete, che ne è stato di Black Mirror?
La parte che aspettavo con più curiosità è stata quella che più mi ha deluso (tant’è che inzialmente ci sono passata davanti all’ingresso pensando fosse solo un’anticipazione della mostra).
Lungo tutto il corridoio di accesso al Barbican sono stati montati degli schermi che riproducono, alternandoli e duplicandoli, alcuni frame della puntata montati da dei videomaker, senza aggiungere nulla a quello che avevo già visto.

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Probabilmente sarebbe stato più significativo, claustrofobico e adeguato allo spirito della serie, se avessero ricreato parte del set della puntata, una stanza con le biciclette, da poter provare in prima persona.

Poco male: mettendo da parte questa piccola delusione, la mostra mi ha comunque affascinata e impressionata, quindi, se anche voi siete amanti del genere e avete in programma un viaggio a Londra, ritagliatevi un paio d’ore per vederla.

Into the Unknown: a journey through science fiction
Fino al 1 settembre 2017
Barbican Center
Silk Street, London.
www.barbican.org.uk

 

Nota a margine.

Ero a Londra sabato scorso, la sera dell’ultimo attentato, e mi ricorderò di questo viaggio anche per questo motivo, anche se in un altro quartiere e l’ho vissuto quasi come se fosse successo in un’altra città. Non ho avuto paura perché fortunatamente non ero lì.

Ma dopo questo episodio continuerò comunque a viaggiare e spostarmi con ancora più voglia di imparare e conoscere, perché penso sia l’unica risposta adeguata da dare contro queste tragedie.

Vilnius, seconda parte.

A Vilnius di certo non morirete di fame: innanzitutto, per la ricchezza dei loro piatti.
Ma non solo, anche perché a quanto pare è una specie di Paese delle meraviglie in cui puoi mangiare a qualsiasi ora qualsiasi cosa tu voglia.

Nei ristoranti abbiamo visto persone pranzare alle undici di mattina come alle quattro del pomeriggio, anche nelle giornate lavorative, o pranzare verso l’una al bar con dolci o quiche e torte salate accompagnate da caffè o cappuccino (so’ nordici, che ci volete fare).
Unica regola: mai fare tardi per cenare (di norma l’orario di chiusura è alle dieci di sera, le undici per quelli più temerari). E attenzione alla domenica e al lunedì: a volte c’è un doppio turno di chiusura serale.
Tutti i ristoranti e i bar sono dotati di menu in inglese e non c’è pericolo di ordinare qualcosa di strano senza saperlo.

La cucina lituana si basa su poche materie prime e ingredienti di base: patate, cavoli, carne di maiale, pane nero, latticini, funghi, poco pesce, in stagione, del Baltico. Intorno a questi, vengono cucinati primi e secondi molto ricchi e corposi (le calorie utili a superare il freddo).

Cose buone da assaggiare

I cepelinai: gli zeppelin, i trasparenti gnocchi-dirigibile di patate grattugiate, ripieni di carne di maiale, formaggio o cavolo nero, serviti con panna acida o pancetta.

Le zuppe: d’estate la più gettonata è la Šaltibarščiai, zuppa fredda di barbabietola e kefir (latte fermentato) o yogurt, cui vengono aggiunti cetrioli e uova.

Il kugelis, uno sformato di patate e carne di maiale.

I blynai, pancake di patate salati.

I kibinai, tipici di Trakai, una sorta di panzerotti di pasta sfoglia salata, ripieni di carne di maiale o verdure, formaggi o funghi.

Il kepta duona, pane fritto all’aglio con o senza formaggio.

Dove mangiare

Se volete provare i piatti della tradizione, Forto Dvaras è quello che cercate. Una vecchia osteria tipica, in cui i camerieri vi servono agghindati con i vestiti tradizionali, e in cui trovate tutto quello che vi ho elencato sopra.
Un pochino più defilato e simile a un cottage di montagna è invece Senoji Trobelė. Anche qui trovate i piatti della tradizione, e la lontananza dal centro storico lo rende praticamente immune dal turismo e frequentato solo da locali.

Per mangiare dell’ottimo pesce dovete spostarvi nel quartiere di Uzupis, dove trovate Šturmų švyturys, un ristorantino molto coccolo e gestito da una ragazza adorabile e appassionata dell’Italia (l’unica con cui siamo riusciti a fare due chiacchiere nel corso della vacanza). Nel menu troverete pochi piatti e il pesce è quello che arriva qui poche ore dopo essere stato pescato nel Baltico, preparato secondo l’estro della cuoca, che può cambiare anche di giorno in giorno.
I piatti sono preparati con verdure di stagione, frutti rossi, le immancabili patate, panna acida: un mix di sapori a cui non siamo abituati, ma che ci hanno fatto decretare questo posto come il migliore della vacanza.
Con antipasto, secondo, dolce, vino e acqua uscirete solo con una ventina di euro in meno a testa nel portafoglio.
Ah, una nota: non è kids friendly, infatti i bambini sotto i 12 anni non sono ammessi.

La capitale è una città internazionale dove si trovano cucine di tutto il mondo, dal sushi al thai, alla pizza (la nostra guida consigliava anche un ristorante marocchino, sempre a Uzupis, che però non abbiamo fatto in tempo a provare) e, naturalmente, cucina vegetariana.
Il locale storico in questo senso è Balti Drambliai, nella città vecchia. Il locale è sottoterra, sembra una specie di grotta ed è frequentato dai giovani dell’underground cittadino. Questo è il posto dove abbiamo pagato meno in assoluto: 8 euro a testa per un piatto unico con birra e acqua. Vi consiglio di scegliere qualcosa del menu indiano.

Più pettinato e hipster, invece, il Vegafe. Piatti della tradizione rivisitati, proposte vegano-chic, un ambiente alla moda dove le giovani famiglie di Vilnius si rilassano bevendo centrifughe e spiluccando tofu: levatevi le scarpe e pranzate distesi sui cuscini e sarete subito confusi con i locali.

A Trakai, invece, per provare la cucina caraita andate nel loro ristorante ufficiale, Kybynlar, a due passi dal castello. È un posto alla buona come se ne trovano lungo le strade statali, dove non si paga molto, e da cui si esce con la pancia piena (e magari anche un po’ alticci, visto che la birra costa poco e a fine pasto vi servono il loro liquore tipico che non è particolarmente leggero).

Non da ultimi, i dolci: non ho consigli di particolari prelibatezze lituane, ma vi consiglio invece di passare da Sugamour, una pasticceria molto chiccosa in centro a Vilnius in cui le torte sono delle piccole opere d’arte. Guardate su Instagram seguendo l’hashag #sugamour: come va adesso la salivazione?

Se ancora non lo avete letto, nel primo post dedicato a Vilnius vi ho parlato di cosa vedere nella capitale lituana,

Vilnius, prima parte.

Ho iniziato a scrivere pensando ad un unico post, ma a un certo punto mi sono accorta che stavo andando come un fiume in piena e avevo troppe cose da dire. Quindi, ho deciso di dividere il racconto del nostro viaggio in due.

Un ponte abbastanza lungo, F. libero da impegni: appena ho capito che avevamo tutto il tempo di organizzare un viaggio, mi sono subito gettata a capofitto nella ricerca.

Vilnius era una curiosità che mi era rimasta dallo scorso anno, quando per caso ne avevo letto una recensione entusiasta, che ne parlava come di una capitale moderna, giovane, in fermento (ed economica, il che non guasta mai).

Siamo partiti da Orio al Serio con Ryanair e, come sempre, ci siamo affidati ad Airbnb per l’alloggio. Il giorno in cui abbiamo iniziato a cercare un appartamento non credevamo ai nostri occhi: davanti a noi c’era la prospettiva di alloggiare solo in case stupende e ristrutturate di recente, a prezzi che ci sembravano impossibili (dai 20 ai 50 euro a notte in due). La scelta è ricaduta sull’appartamento di Marius, che, a due passi dalla stazione dei treni e degli autobus ed esattamente alle porte della Città Vecchia, è stato un punto di appoggio perfetto per visitare la città.

Vilnius ci ha regalato diverse sorprese e ci è piaciuto soprattutto il suo essere nordica e contemporaneamente est europea.
Terra di passaggio sia di fenomeni naturali che di popoli ed invasori, priva di confini naturali che la proteggano e ricoperta per gran parte da boschi, la Lituania è saldamente ancorata alla sua cultura nazionale, e i suoi abitanti ci tengono particolarmente a sottolineare la loro profonda differenza soprattutto rispetto alla Russia, che anche qui è stata priva di pietà durante la Seconda Guerra Mondiale e fino alla caduta dell’Unione Sovietica.

Nordica, e quindi, prima di tutto, pulita e ordinata: a partire dal nostro appartamento, passando per le strade del piccolo centro (oggi patrimonio dell’Unesco), fino ai ristoranti e i locali (e i bagni dei locali: non ne ho mai visti di così puliti).

Nordica e senza barriere, quindi, clima un po’ schizofrenico (ci dicevamo che in un’unica giornata si alternavano tutte le stagioni): sole e cielo blu al mattino, neve all’ora di pranzo, pioggia nel pomeriggio, raffiche di vento gelate la sera.

Ma cosa c’è allora da fare e da vedere a Vilnius?
Una passeggiata nella Città Vecchia, dalla piazza del Municipio fino all’imponente Cattedrale di San Stanislao e San Vladislao è d’obbligo, per poi risalire sulle due colline che dominano la città (quella della torre del Castello di Gediminas e quella delle Tre Croci), con piccole soste nelle svariate Chiese ortodosse e cattoliche che costellano tutto il centro e che sono più o meno tutte state ricostruite dopo incendi o interventi da parte dei Russi.
La piccola chiesa ortodossa di San Nicola, costruita nel Cinquecento, è diventata subito la mia preferita: ricostruita in stile russo bizantino (due aggettivi che sono tutto un programma) con qualche ricordo gotico delle origini, ha passato anche per un’intermedia ricostruzione Barocca dopo essere stata danneggiata da un incendio. La minuscola cappella è un tripudio di elementi dorati e scintillanti di un kitsch decisamente sopra le righe, che culmina nell’assurda scritta a led sopra l’altare.

In città il complesso più importante da vedere è quello formato dalla Chiesa di Sant’Anna e dalla Chiesa e Monastero di San Bernardino, dove potete fare un giro rilassante per riprendervi dalla confusione bizantina e riposarvi gli occhi con un più sobrio stile gotico. La Chiesa di Sant’Anna è uno dei motivi per cui l’Unesco ha dichiarato il centro storico di Vilnius patrimonio dell’Umanità.

In ricordo delle oltre cento sinagoghe che un tempo costellavano la città e che sono state distrutte per mano tedesca durante l’Olocausto è rimasta solamente la Sinagoga Corale (all’epoca utilizzata come deposito di medicinali).

La numerosissima comunità ebrea di Vilnius è stata quasi completamente spazzata via dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale, e una tappa obbligata, dolorosa e coinvolgente è sicuramente il Museo del genocidio, che si trova in quella che è poi diventata la sede del KGB lituano.
Al primo piano, una serie di stanze completamente tappezzate di fotografie e oggetti raccontano in maniera ossessiva e didascalica la storia di invasioni, deportazioni, arresti, uccisioni e violenze di ogni tipo sul popolo lituano sia durante che dopo la Guerra, con particolare attenzione alla guerra partigiana, dal 1944 al 1953.
Nei sotterranei si visitano invece le prigioni usate dal KGB per imprigionare dissidenti e contestatori del regime, un budello infernale in cui si alternano camere d’isolamento in cui i prigionieri venivano tenuti ore nell’acqua gelata, o celle completamente insonorizzate dove veniva rinchiuso chi si dimostrava particolarmente ribelle, per scendere fino alla sala delle esecuzioni.

Uscire mentalmente ed emotivamente da quella visita non è stato facile, ma credo che sia una tappa necessaria per comprendere meglio la storia di questo Paese.

Altra tappa obbligata (e molto meno impegnativa) è la statua dedicata a Frank Zappa. Sì, avete letto bene: in una piazza un po’ defilata un sindaco, eletto subito dopo la caduta del Muro, ha voluto esprimere la rinnovata libertà della sua città facendo costruire una statua di uno dei musicisti più dissacranti del rock. Intorno, una serie di murales, anche questi dedicati a Zappa, chiassosi e assolutamente fuori contesto: imperdibile.

Ma una delle cose più curiose di Vilnius è il quartiere Užupis, che in lituano significa “oltre il fiume” e che si è proclamato Repubblica indipendente nel 1997. Punto di ritrovo di artisti e creativi (una specie di Montmartre, spesso paragonato anche a Christiana a Copenhagen), è stato dichiarato indipendente dai suoi abitanti in un atto di anticonformismo e di riscatto, da luogo di prostitute, delinquenti e senzatetto, a quartiere bohémien per eccellenza.
Užupis ha un presidente, eletto nel 2014, e una costituzione affissa sui muri della città e tradotta in quasi tutte le lingue del mondo, una bandiera a cui viene sostituito il colore a seconda della stagione, e un Parlamento (che si riunisce al bar).
La costituzione è un documento all’apparenza semplice ma in realtà molto profondo, un manifesto filosofico in cui si ricorda che l’uomo ha diritto a essere uomo e ha diritto di morire, di avere dubbi e di capire, di piangere e di essere frainteso, ma soprattutto, di essere libero.
Se avete voglia di camminare un po’ in questa zona trovate anche il bel cimitero di San Bernardino, fondato dai monaci benedettini nel 1800, arrampicato su una collina che affaccia sul fiume Vilnia.

Un ultimo consiglio: dedicate una mezza giornata per una visita a Trakai (la raggiungete in venti minuti con il treno), cittadina a 30 chilometri da Vilnius circondata da laghi, il cui fiabesco castello, che è stato residenza dei Gran Duchi di Lituania, sorge su un’isola collegata alla terraferma da ponti di legno, l’unico dell’Europa orientale ad essere stato costruito proprio in mezzo a un lago.
 Mi raccomando, non di lunedì, che lo trovate chiuso (purtroppo, ve lo dico per esperienza personale).
A Trakai vive la comunità più rilevante (anche se ormai sono rimasti in poche centinaia) di ebrei caraiti, un ceppo di origini turche, e lì trovate anche un ristorante che serve la loro cucina tipica.

Ma di questo vi racconterò nella seconda parte, in cui potrete scegliere dove sedervi a riposare per mangiare qualcosa di sostanzioso (c’è freddo, servono calorie!) o bere un caffè in qualsiasi momento della giornata.

Update: sulla pagina Facebook di Al contrario trovate anche qualche foto del viaggio.

Obrigada

Ho deciso di trovare uno spazio, qui in Al contrario, anche per raccontare i miei viaggi e posti del cuore.

Esattamente un anno fa ho passato un lungo weekend a Lisbona, che faceva parte del mio regalo di laurea per F. Ho scelto la capitale portoghese perché era un luogo che incuriosiva entrambi e che nessuno dei due aveva visitato.

Prima di partire mi aspettavo una città malinconica e indolente, come tutti la descrivono, e come mi era arrivato alle orecchie portato dalle note del fado.
Ma l’atmosfera che abbiamo respirato in quei quattro giorni è stata tutt’altro che malinconica. I portoghesi  sono persone allegre ed estremamente ospitali, dolci e piene di entusiasmo.

Un consiglio prima di partire: la vita a Lisbona non è per nulla cara, mentre i voli per arrivarci sì. Prenotate qualche mese prima, e se volete evitare i low cost scegliete Tap Portugal, la loro compagnia di bandiera.

Noi siamo stati ospiti di Fabi, conosciuta su Airbnb, che mette a disposizione un appartamento che è una vera e propria coccola, nello storico quartiere di PrÍncipe Real, a due passi dalla città vecchia.

Update: purtroppo Fabi deve aver tolto il suo appartamento da Airbnb perché non si trova più, ma sul sito c’è l’imbarazzo della scelta.

La prima cosa che abbiamo imparato in questo viaggio è che a Lisbona ci si perde, e se non vi succede almeno una volta durante il vostro soggiorno non potete dire di averla visitata per davvero.

Lisbona è la città ideale per non darsi una meta precisa, ma concedersi di girovagare. Ogni angolo, ogni stradina, ogni salita vi può riservare una sorpresa.
Qui, comunque, vi lascio qualche ricordo e consiglio a partire dal nostro viaggio.

Baixa e Rossio, i quartieri centrali della città.
La bella Praça do Comércio è l’equivalente di una Piazza San Marco o del Duomo di Milano: se andate a Lisbona non potete non passarci.
Da lì tirate tardi e fare una passeggiata al tramonto sulle rive del Tago, dove spesso si fermano gli artisti di strada. Trovate un bar per l’aperitivo che serva la ginjinha, il tipico liquore alle ciliegie di Lisbona.

In zona la nostra Lonely Planet ci suggeriva un ristorante chiamato Le Petit Bistro, che però abbiamo scoperto dopo un giro a vuoto che è stato sostituito dal Restaurante Isco, un piccolo locale che serve combinazioni diverse di tascas (l’equivalente portoghese delle tapas) soprattutto di pesce, in un ambiente arredato come il pontile di una nave. Si paga poco, si mangia bene, i ragazzi che lo gestiscono sono simpaticissimi: la nostra prima cena ci ha fatto subito innamorare della città, dei portoghesi e della cucina di Lisbona.

Il tram 28
Se pensate a Lisbona, non possono non venirvi in mente subito i suoi famosi tram gialli. Questa sgangherata linea è una delle cose più tipiche e romantiche da fare in città, inerpicandovi per le stradine strette del quartiere Rossio e arrivare nella zona di Alfama, Castello e Graca, forse la parte più suggestiva della città. 
Qui da non perdere ci sono il Miraduro di Santa Luzia, da cui si gode una vista spettacolare sui coloratissimi edifici del quartiere, il castello moresco di Sao Jorge e tutte le vie secondarie dell’Alfana (il posto perfetto dove perdersi).

Durante il nostro giro in questi quartieri siamo andati a caccia degli azulejos, le tipiche piastrelle di ceramica smaltate e colorate che ricoprono molti edifici in città.
Io, in particolare, aspettavo da mesi di venire a Lisbona per vedere finalmente il negozio dei Surrealejos, gli azulejos surreali di Luca Colapietro, ragazzo pugliese che si è inventato questo progetto e ha aperto qui un piccolo negozio un po’ defilato dove vende le sue meravigliose creazioni.

In questa zona abbiamo scovato anche un bel ristorante in un palazzo storico, il The Decadente, che serve cucina portoghese rivisitata, gestito da ragazzi giovani e amanti della birra artigianale. Un po’ hipster, in effetti, ma molto bello e non troppo caro.

Qui c’è anche uno dei locali più surreali in cui siamo incappati durante il viaggio, il Pavilhão Chines, al numero 89 di Rua Dom Pedro V. Un luogo fuori dal tempo, quasi liberty nell’arredamento, e caratterizzato da grandissime vetrine con dentro di tutto: oggetti completamente assurdi e kitsch come foste in un fumoso mercatino delle pulci, reperti che vanno dagli anni Venti agli anni Ottanta.

Bairro Alto

Cais do Sodré, ex quartiere a luci rosse della città, è stato ormai riconvertito, ma ha mantenuto uno spirito anticonformista e di marginalità.
La strada da vedere è Rua Nova do Carvalho, che riconoscerete subito perché è stata dipinta di rosa.
Qui ormai le prostitute non ci sono più, ma si alternano locali dove ascoltare musica dal vivo o dj set e dove bere un cocktail in un’atmosfera molto particolare.

Noi siamo stati al Pensão Amor, un’ex casa di tolleranza ora diventata un particolarissimo spazio artistico, in cui c’è anche una libreria di testi erotici e una boutique di vestiti vintage. I cocktail sono spaventosamente costosi, ma il locale è da vedere.

Anche il Bar da Velha Senhora, nello stesso palazzo, merita una visita: è un locale di burlesque che sembra fermo ai primi del Novecento, dove potete assistere a esibizioni di fado, cabaret e bere drink dai nomi a dir poco evocativi.

Sempre nel quartiere di Bairro Alto, c’è anche Pharmacia, il ristorante che è diventato uno dei nostri posti del cuore. Ci siamo passati per due sere di fila prima di trovare un tavolo, però ne è valsa la pena. 
È un locale assolutamente bizzarro arredato esattamente come un’antica farmacia (persino alcune portate sono servite in ampolle e provette d’epoca). Andateci non solo per la particolarità dell’arredamento, ma anche perché si mangia molto bene (anche se, l’avrete capito, mangiare male a Lisbona è praticamente impossibile).

Belém
Purtroppo il giorno in cui abbiamo deciso di visitare questo quartiere siamo stati sorpresi da una tempesta che ci ha notevolmente limitato gli spostamenti. 
Perciò del quartiere di Belém non vi posso raccontare di una bella passeggiata lungo il fiume o la sua magnifica torre, o ancora del fiabesco monastero, ma solo tre cose:

– Il Museu Coleção Berardo, quasi sconosciuto rispetto ai suoi cugini più famosi come la Tate Gallery, ma tappa immancabile per gli amanti della pop art, del surrealismo, di dadaismo e altri movimenti del secolo scorso, e che vanta opere datate fino al 2010: una collezione incredibile che contiene il meglio dell’arte moderna e contemporanea;

– l’antica Confeitaria de Belém, la pasticceria dove sono stati inventati i pastéis de nata, i dolci tipici di Lisbona, formati da un guscio di pasta sfoglia farcito con una crema cotta a base di panna e uova di cui mi sarei nutrita per tutta la vacanza. Si dice che questa pasticceria ne sforni 15mila al giorno;

– il Pão Pão Queijo Queijo, una specie di fast food artigianale con un menu fornitissimo, dove si mangiano insieme ai lisbonesi falafel, panini farciti di tutti i tipi, patatine fritte giganti.

A Lisbona ho lasciato un pezzo di cuore, e ci tornerei subito anche solo per tre cose che non abbiamo fatto: sentire un concerto di fado, andare al mare e visitare il palazzo di Sintra.

Per finire, vi lascio la mappa del nostro viaggio.