Paul Dano e Patricia Arquette

Cinque serie tv da vedere adesso

Man mano che passano gli anni, e che passano le serate davanti al computer, il mio sesto senso si affina nella ricerca di film e serie tv.

A volte mi basta vedere un trailer per capire se all’orizzonte avanza una cazzata o un prodotto interessante. Non sono una sciamana, passo solo un sacco di tempo davanti allo schermo.

Durante le scorse vacanze di Natale ho usato giornate intere per macinare una puntata dietro l’altra, per un totale di cinque serie tv, e mi do delle gran pacche sulle spalle: mi sono piaciute tutte.

Queste cinque serie sono accumunate da tre cose: protagonisti indimenticabili intorno a cui ruotano storie che sembrano cucite loro addosso; una scrittura incalzante (dalle vicende più classiche a quelle più innovative), temi che non sembrano mai dei déjà vu di qualcos’altro.

Ecco allora il mio più breve riassunto possibile di tutte e cinque.

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Counterpart

Per questa non c’era scampo: io adoro J.K. Simmons. 
Whiplash resterà per sempre uno dei miei film preferiti soprattutto per quel bastardo del suo personaggio.

La storia

Howard Silk è un agente delle Nazioni Unite in un’agenzia di Berlino, in un futuro imprecisato.

Nei sotterranei dell’agenzia, la Germania Est è riuscita negli Anni Ottanta ad aprire un varco verso un mondo parallelo, copia quasi esatta del “Primo mondo”, mantenuto segreto ai civili ma con i quali i governi di qua hanno fragili relazioni diplomatiche e casini che si ripercuotono da una parte all’altra.
Il fulcro filosofico su cui ruota tutta la storia è che ognuno ha un un altro sé dall’altra parte, nato e cresciuto allo stesso modo fino al punto in cui un evento, anche minimo, ha cambiato del tutto il corso della sua vita.

A un certo punto Silk si troverà costretto ad avere a che fare con il suo doppio che sta di là.


J.K. Simmons si sdoppia sul serio, fino a modificare il tono di voce con cui recita (ci sono scene in cui dialoga con se stesso che fanno accapponare la pelle).
Ma la serie non affronta, banalmente, solo il tema del doppio, piuttosto quello del peso che le singole scelte hanno nella nostra vita. Infatti lo sentiamo dire: “l’infanzia, la genetica, non contano. Siamo impotenti di fronte alla nostra esperienza.

Julia Roberts e

Homecoming

La mente dietro Homecoming è Sam Esmail, il creatore di Mr. Robot.

>>>>Off topic
Io Mr. Robot l’ho colpevolmente finita solo oggi.
Come mi aspettavo, si è scornata subito con le mie serie preferite ed è arrivata in cima.
Ma quanto sono raffinate la regia e la fotografia usata da Esmail. E che splendore di dettagli. Potrei stamparmene i frame e appenderli in camera.

E quanto mi piace Rami Malek, e va bene che l’avete capito che lo amo no matter what, ma insomma, un’empatia del genere con un personaggio seriale non mi capitava dai tempi di Heinsemberg.

mr_robot

Chiuso l’off topic.<<<<

La storia

Homecoming è un thriller psicologico basato, ohibò, su un podcast molto famoso in America (interpretato, tra gli altri, da Oscar Isaac e David Schwimmer).

Qui la telecamera ossessiva di Esmail è puntata sul viso tirato di Julia Roberts, Heidi Bergman, un’ex assistente sociale che ha lavorato per un periodo da Homecoming, struttura innovativa per il reinserimento dei soldati americani tornati a casa dopo aver combattuto.

La serie viaggia su due piani temporali diversi, sottolineati anche da due registri stilistici diversissimi (ciao poster in camera): il presente, in cui Heidi fa la cameriera in un paesino sperduto sulla costa, e il passato, in cui scopriamo mano mano cos’è successo prima che Homecoming venisse chiuso e lei cambiasse vita.
C’è uno del Dipartimento della Difesa che indaga sul motivo per cui il programma è stato interrotto (Shea Whigham), c’è la mente dietro a Homecoming che, nel passato, telefona decine di volte al giorno ad Heidi per tenere monitorata l’operazione (Bobby Cannavale). C’è il soldato a cui Heidi si lega durante le sedute di terapia (Stephan James). E sono tutti mooooolto bravi, la tensione è tangibile, l’ansia di capire che cazzo è successo è altissima, la scoperta finale è abbastanza scioccante.

Esmail si conferma un autore incredibilmente attento e originale nell’affrontare temi attuali, spinosi, senza cadere mai nel banale e nel già visto.

Sandra Oh e Jodie Comer

Killing Eve

Non ho mai visto Grey’s Anatomy, ma tutti quelli che l’hanno amata mi hanno sempre detto che la migliore, lì dentro, è Sandra Oh. E qui si conferma la grandezza di quest’attrice, giustamente premiata ai Golden Globe per il ruolo di Eve Polastri in Killing Eve.

La storia

Eve Polastri è una funzionaria dell’M15, ente per la sicurezza e il controspionaggio del Regno Unito, che a un certo punto viene messa a capo di una squadra non proprio legale per stanare Villanelle (Jodie Comer), assassina fascinosissima e che definire spietata è dir poco.
Il punto è che entrambe finiscono per essere ossessionate l’una dall’altra, in una spy story grottesca e a tratti molto comica (se vi piace Tarantino, dai).

La creatrice è la stessa di Fleabag, che avevo già consigliato nei miei recuperoni del weekend.

Jim Carrey

Kidding

Jim Carrey non è mai stato uno dei miei attori preferiti, pur ammettendo la sua genialità e le sue capacità attoriali che lo rendono diverso da chiunque altro. Perlomeno finita la fase della faccia di gomma.

Qui ritorna a fare coppia con Michel Gondry, il regista che lo ha consacrato nel tempio del cinema indie e di tutte le conseguenti, pesantissime, citazioni emo sui social network: Eternal Sunshine of a spotless mind.

La storia

Jeff Piccirillo è un presentatore televisivo per bambini noto come Mr. Pickles, volto di uno show in cui interagisce con i pupazzi creati dalla sorella, e di un brand milionario guidato dal padre.

La serie tratta in maniera surreale, delicatissima in certi punti, violentissima in altri, la tragedia personale e di vita di Jeff, che ha perso uno dei due figli in un incidente d’auto e annaspa alla ricerca di trovare un senso in quella morte.
C’è il tema delle maschere che mettiamo addosso ogni giorno per tutelarci, c’è il conflitto tra ribellione e gentilezza, ci sono personaggi, intorno a quello di Jim Carrey, che sono un gioiello di recitazione e di profondità.
Una montagna russa di sentimenti, una stratificazione inaspettata di temi, visivamente bellissima: insomma, io ve lo dico, per me è una serie perfetta.

Paul Dano e Patricia Arquette

Escape at Dannemora

Già sulla carta questa serie tv era un parco giochi per appassionati.
La tripletta dei protagonisti è tanto atipica quanto spaziale: Benicio del Toro, Patricia Arquette e Paul Dano, mentre la regia è di Ben Stiller.
È del genere prison escape, e se vi sembrerà una storia impossibile, ta-daaan!, in realtà è tratta da una fuga vera, che nell’estate 2015 è diventata un caso seguitissimo sui media americani.

La storia

Siamo al Clinton Correctional Facility, carcere di massima sicurezza a Dannemora, quasi al confine col Canada, un luogo definito amabilmente la Siberia dello Stato di New York.
Qui sono detenuti Richard Matt (Del Toro) e David Sweat (Dano), che riescono, con un piano incredibile, a fuggire dalla prigione, grazie all’aiuto di Joyce “Tilly” Mitchell (DATE TUTTI I RUOLI CHE AVETE A DISPOSIZIONE A PATRICIA ARQUETTE PER DIO), che lavora nella sartoria della prigione.
La serie racconta i lunghi mesi in cui i due elaborano la fuga, dal momento in cui decidono il modo in cui attuarla, ai continui raggiri della molto raggirabile Tilly, fino all’evasione e alla caccia all’uomo. Nel mezzo, tutto quello che potete immaginare succeda in un carcere del genere.

Il buio, il freddo, la fatica, la noia, lo sporco, la paura, la rabbia: te li senti tutti addosso dal primo minuto.
L’atmosfera del carcere è ricreata in maniera tanto realistica da soffocarti nelle celle dei detenuti, per non parlare della claustrofobia che suscitano le lunghe scene nel tunnel scavato dai due per fuggire. E poi loro tre, loro tre sono straordinari.

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Daredevil Stagione 3

Amare Daredevil per svariati motivi

Mi sembra arrivato il momento di parlare di Daredevil, una serie che ho adorato dal primo fotogramma, il risultato di una collaborazione Marvel-Netflix che da subito mi aveva fatto tremare le vene ai polsi.

Lo ammetto, dalla fine della seconda stagione non ho visto quello che dal 2016 a oggi fa parte dello stesso filone narrativo (cioè Jessica Jones, Luke Cage, Iron Fist e la conseguente ammucchiata dei Defenders).

Nonostante queste mancanze, la storia del Diavolo di Hell’s Kitchen funziona lo stesso e l’ho amata anche in questa terza stagione per almeno quattro motivi: il suo protagonista, i cattivi, le atmosfere e i conflitti interiori che smuovono le viscere dei personaggi.

Attenzione: spoiler sulla terza stagione.

L’eroe

La mia passione sempiterna per l’universo Marvel, anche nelle sue forme più chiassose, non è un mistero, e non lo è nemmeno la mia fedeltà ai suoi supereroi, tranne per il breve e intenso tradimento con il Batman di Nolan.

Ma i personaggi che apprezzo di più in questo mondo di machi sono quelli che nascono da un trauma, e lo devono affrontare ogni giorno: quindi a Thor preferisco Doctor Strange, a Captain America Hulk, e per lo stesso motivo ho amato subito l’avvocato Matt Murdock e il suo vigilante Daredevil.

C’è un aspetto di base che lo rende più carnale, umano e meno scintillante dei suoi colleghi, ed è il fatto che è un eroe con una pesante disabilità: la cecità.

È vero che nell’incidente che da bambino gli ha fatto perdere la vista ha anche sviluppato dei super sensi, ma alla resa dei conti è solo un pugile che si prende un sacco di mazzate, che te le senti addosso come se le avessi prese tu, e finisce quasi sempre a terra, sanguinante e di volta in volta più debole.

Uno che, per dirla come Serialminds, per raggiungere i nemici deve inseguirli per le scale. Niente varchi spazio-temporali, niente martelli magici, niente voli aggrappati a ragnatele: no, una corsa su per le scale.

Daredevil
In questa stagione il suo personaggio diventa più oscuro, più insicuro e incazzato di prima.
La corruzione che scorre in ogni vena della sua amata Hell’s Kitchen lo fa dubitare nella bontà e resistenza del “sistema”, e lo fa quasi arrivare a compiere i gesti più estremi. Più volte saranno i suoi amici a doverlo tirare per i capelli per dissuaderlo.

I villain

Credo che pochi di voi non conoscano la recluta Palla di Lardo di Full Metal Jacket.

Ecco, l’attore che lo ha reso indimenticabile, Vincent D’Onofrio, qui presta la stessa rabbia e la stessa gigantesca mole a Wilson Fisk, un cattivo così perfetto che gli sembra cucito addosso, quasi il naturale proseguo del personaggio del film di Kubrick.

Fisk è uno che fa davvero paura, uno che, senza mai sporcarsi le mani, controlla una rete criminale che mette in ginocchio una città intera, così capillare che non sai dove inizia né dove finirà.

Uno con un potere tale che, se succede qualcosa che non gli va a genio, sei sicuro che l’attimo dopo ti arriverà qualcuno a casa per massacrare te e la tua famiglia.

Insieme a lui c’è un altro pezzo da novanta, Poindexter, l’agente dell’FBI che viene manipolato psicologicamente proprio da Fisk per diventare il “doppio” cattivo di Daredevil (il futuro Bullseye), fondamentale per alimentare i conflitti interiori di Murdock.

Poindexter

Anche se io resto comunque orfana di The Punisher e nessuno prenderà mai il suo posto nel mio corazon.

I conflitti interiori

Altro motivo per cui la serie funziona sono i “problemi familiari” dei protagonisti che qui esplodono come cariche disseminate ovunque.

Da Matt che scopre chi è la sua vera madre, e ne esce ancora più devastato, senza più fiducia nell’umanità e dilaniato da quella ferita dell’abbandono che ha compromesso tutta la sua vita.

Poi ci sono i conflitti di Karen, a cui è dedicata un’intera puntata in cui scopriamo che in giovinezza era entrata nel tunnel della troca e in cui vediamo il terribile incidente in cui muore il fratello. Tutto complicato dal fatto che finalmente confessa un po’ a tutti il fatto che è stata lei ad ammazzare James Wesley, consigliere e amico di Fisk.

Se non bastassero questi, aggiungiamo anche i problemi del nuovo personaggio buono del gruppo, l’agente Nadeem, il cui unico pensiero è proteggere la moglie e il figlio, e di cui, con il cuore spezzato, assistiamo alla resa e all’inevitabile caduta.

Poi ci sono quelli di Fisk, di cui sapevamo già che da bambino aveva preso a martellate il padre, e che qui vacilla davvero solo quando entra in gioco la sua amata Vanessa, l’unica capace di mandarlo in crisi.

Per non parlare di quelli di Poindexter, la sua psicosi, il vizio dello stalking, le voci nella testa che da frasi precise diventano sempre più confuse, fino a trasformarsi in un assordante sciame di mosche.

Agente Poindexter in Daredevil

Insomma, un casino: non si salva nessuno, tutti hanno un passato da scontare che scatena dei conflitti a spirale che sembrano non risolversi mai.

Hell’s Kitchen

In maniera ancora più marcata che nelle altre due stagioni, qui Hell’s Kitchen ti soffoca, ti annega nel suo buio e nella sua cupezza. Questa non è una vera e propria serie sui supereroi, è un noir, un poliziesco, in certi momenti quasi un horror.

Alcuni tra i lunghi e violenti combattimenti di questa stagione ricordano paurosamente certe immagini che vediamo degli attentati terroristici. In un paradosso macabro, sembrano più reali le scene di Daredevil che quelle dei notiziari.
Due esempi su tutti, il massacro alla sede del The New York Bulletin e il combattimento in Chiesa.

Ma il mio applauso finale va al combattimento nel lunghissimo piano sequenza (undici minuti senza uno stacco di camera, neanche “nascosto”) della quarta puntata.
Qui Matt si è riuscito a intrufolare in prigione, ma, drogato dall’ennesimo complice di Fisk, riesce a uscirne con fatica e nessuna lucidità, passando tra decine di risse tra i detenuti e le guardie.
La scena è una lunga coreografia su fondo rosso in stile “combattimento nei corridoi” che avevamo già visto in questa serie, e che da sola vale tutta la stagione.

Daredevil combattimento in piano sequenza


Vabbè, dai, ci sarebbe anche un quinto motivo.

 

Nota a margine:
Dopo averne fatto un pesante binge watching, ho passato la nottata a scansare un sogno angosciante dopo l’altro.

Voi direte, bello schifo, io dico invece che, se è riuscita a turbarmi così tanto, per me è la prova del nove che è una serie tv molto potente.

 

 

 

Questo post è per F.: l’amore per Daredevil nasce tutto da lì.

La fine dell'estate

Quest’estate deve finirla.

Quest’anno non sono andata esattamente in ferie.
I grossi cambiamenti, di vita e lavorativi, che mi hanno investita (sì, investita, proprio come una macchina in corsa), mi hanno fatto vivere l’estate come un lungo part time in cui un attimo prima sto lavorando e un attimo dopo mi ritrovo sul lettino a prendere il sole.
È un po’ sfiancante, ma temo di dovermici adattare.

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Nel frattempo, però, torno al Festival del Cinema di Venezia dopo averlo saltato per un anno (e aver rosicato parecchio), e per la prima volta sarò lì alla cerimonia di apertura.
E questo mi basta per arrivare col sorriso alla fine di questa lunghiiiiiiissima estate.

Per tutti voi per cui la parola “ferie” ha ancora un significato, forse questi sono gli ultimi giorni, forse siete appena rientrati, e giustamente siete un po’ tristi.
E io, che sono buona e altruista, vi consiglio un po’ di cose da vedere, ascoltare, leggere per scivolare di nuovo nella routine lavorativa.
Partiamo.

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LIBRI

Parlarne tra amici – Sally Roonei

Mi colpisce sempre molto quando ragazzi così giovani riescono a scrivere dei romanzi con una lucidità e una profondità che mi risulta strano associare a un ventenne (e anche a me, a dire il vero).
Questa storia è una lunga riflessione sulle relazioni che va a beneficio di tutti, a prescindere dal proprio orientamento sessuale ed età. E la Roonei ha una scrittura pienissima, vivida, che sembra quasi di essere lì con loro.

Divorare il cielo – Paolo Giordano

Dopo tanti anni di acquisti su Amazon (e profili di Instagram di book blogger), questo consiglio mi è arrivato da una libraia: È stata lei che mi ha detto che  i due protagonisti, Teresa e Bern, sono degli altri numeri primi, proprio come quelli del primo libro di Giordano, e che per chi è nato negli Anni Ottanta riesce a rivedere in quella storia (seppure assurda) la propria storia.
E in effetti è così.

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FILM

I, Tonya

Il film sulla pattinatrice Tonya Harding è entrato subito tra i miei film preferiti dell’anno. Ho iniziato a sentirne parlare molti mesi prima, e all’inizio non mi aveva convinta, poi, man mano che passavano i mesi, mi ha incuriosita sempre di più, finché ho visto il trailer, e la violenza dei dialoghi tra i protagonisti con Goodbye stranger in sottofondo mi ha dato il colpo di grazia.

Dogman

Volete leggere per l’ennesima volta di quanto commovente è stato il discorso di Marcello Fonte a Cannes? O quanto Edoardo Pesce sia un camaleonte e di come si è trasformato per diventare il tremendo Simoncino?
No, queste cose le sapete già tutti. Io vi dico solo che, se non avete mai visto un film di Garrone, è il caso che iniziate. Perché i film di Garrone sono la vita.

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SERIE TV

Atlanta

Io Donald Glover manco sapevo chi fosse. Poi è uscito il video di “This is America” e ho scoperto che ha uno pseudonimo come rapper e si fa chiamare Childish Gambino e spacca e fa parlare un sacco di sé.

Allora ho deciso di recuperare Atlanta, dove lui fa tutto: l’ha inventata, ci ha messo i soldi, e pure la faccia.
La trama è semplice: due cugini spiantati cercano di farsi strada nella scena musicale rap di Atlanta. È una commedia, è molto divertente, è scritta benissimo e Glover, beh, fatemi sapere com’è Glover.

The Handmaid’s Tale

Che dire, questa per me è LA serie, dell’anno, forse della vita.
È arrivata al momento giusto con l’argomento giusto, è tagliente, fredda, ti strappa le viscere e ti costringere a riflettere sul mondo in cui viviamo e sui suoi pericoli.
La seconda stagione non perde un colpo, e non cala per nulla di qualità rispetto alla prima.
Avevo già fatto qualche riflessione sul Racconto dell’Ancella versione televisiva, adesso attendo di leggere il libro della Atwood.

 

E, per concludere, una manciata di dischi a vostro uso e consumo che ho ascoltato tantissimo negli ultimi mesi.

Questi non ve li spiego, perché tanti manco sono di quest’anno, anzi, ce n’è uno che ha quasi trent’anni.

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Buona fine estate a tutti e ci rivediamo col fresco.

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Tredici seconda stagione Netflix

Tredici: la forza dei ruoli secondari

Non posso scrivere questo pezzo senza parlare della trama della seconda stagione, quindi sì: se continuate a leggere vi beccate gli spoiler. Poi non ditemi che non vi avevo avvertito.

Tredici è un prodotto seriale che, nonostante i numerosi difetti, continua a interessarmi e incuriosirmi, tanto da essere la prima volta che qui parlo due volte della stessa serie tv.

Il tema principale della prima stagione è controverso e molto delicato: un’adolescente, Hannah Baker, si suicida, dopo aver subito ripetuti atti di bullismo da parte dei suoi compagni di scuola, enfatizzati dall’incapacità degli adulti di cogliere i campanelli di allarme.
Prima di togliersi la vita, registra nove cassette, indirizzate a ognuno di quelli che lei ritiene i colpevoli, e racconta gli episodi che li hanno visti coinvolti.

Il calderone della seconda stagione

Mi sono approcciata alla seconda stagione in modo molto scettico, perché temevo l’effetto allungamento del brodo, e purtroppo non mi sono ricreduta.

Qui assistiamo al processo che vede contrapposti i genitori di Hannah alla scuola, a cui fanno causa per la morte della figlia.
Lo spettro dei temi affrontati si amplia, e si focalizza soprattutto sulle molestie e gli abusi sessuali da parte del capo della squadra di baseball (Bryce Walker) nei confronti non solo di Hannah, ma di numerose altre ragazze, tra cui Jessica Davis, una degli accusati da Hannah nella prima stagione.

Oltre a questo si parla apertamente di dipendenze da droghe, problemi razziali, salute mentale, omosessualità, possesso di armi e stragi nelle scuole.
Sì, è un grosso calderone in cui c’è di tutto, e in cui alcuni temi sono trattati meglio, altri meno, e l’ultima puntata cerca di farne un riassuntone un po’ forzato.

Poche cose riescono ad essere d’impatto, come ad esempio, l’ultima scena dedicata al processo, in cui al discorso di Jessica contro Bryce si sovrappongono i racconti di abusi di tutte le donne protagoniste della serie.

Hannah e Clay di Tredici

Due protagonisti insopportabili
I due protagonisti (Hannah e Clay) sono ormai insostenibili.
Hannah, da morta, si manifesta all’amico, ma non si capisce a che scopo: non aiuta nello svolgimento della trama, né lo fa impazzire del tutto, come sembrerebbe nelle prime puntate.

Nella prima stagione era trapelato che Clay avesse sofferto di depressione, ma qui si trasforma all’improvviso in un piccolo eroe senza macchia e senza paura, che arriva persino, da solo e in maniera del tutto irrealistica, a sventare una strage al ballo della scuola.

Ruoli secondari che brillano
Come spesso accade, a protagonisti insipidi si contrappongono ruoli secondari notevoli.
In questo caso, due personaggi che secondo me funzionano molto bene sono quelli di Alex Standall e Tyler Down.

Alex Standall di Tredici

Alex Standall (interpretato da Miles Heizer)
Il personaggio più interessante da subito, nella prima stagionè stato ignorato da tutti, compresi noi spettatori, perché troppo concentrati sulla morte di Hannah.
Sono passati inosservati il disagio, il senso di colpa e la fragilità del più umano e realistico di tutti i personaggi, tanto che nessuno si sarebbe aspettato il tragico tentativo di suicidio dell’ultima puntata.

Nella seconda stagione, Alex dopo essere sopravvissuto, e l’attore affronta con garbo lo sviluppo del suo personaggio, la sua disabilità e la perdita di memoria causati dall’incidente, ma anche il rapporto contrastato con gli amici e con qualcosa che assomiglia all’inizio di un amore.

Nervoso ma placido, rassegnato ma combattivo, timido ma in realtà il più coraggioso di tutti: Alex vive un caleidoscopio di emozioni molto vere, ed è l’unico credibile di tutta la serie.

Tyler di Tredici
Tyler Down (interpretato da Devin Druid)
Quella di Tyler è una storia parallela a quella principale, e ha una parabola molto coerente e credibile: dalle prime accuse di stalking nella prima stagione, arriviamo a scoprirne il disturbo ossessivo-compulsivo e la passione per le armi.
E, dal primo momento in cui ne prende in mano una, sappiamo già come andrà a finire.

Vittima di un bullismo continuo, trova una parvenza di salvezza quando incontra l’amico punk e la ribellione (vabbè), con cui combina qualche guaio, come andare in giro per la scuola con una maglietta auto prodotta con scritto assholes.
Ma quello che i due architettano insieme è sempre troppo poco per lui, che vorrebbe un alleato per vendicarsi davvero degli stronzi della scuola.

Devin Druid è perfetto nel mostrarci la sua costante inquietudine che vibra sotto pelle e che non trova mai sfogo, ma anche la vergogna e l’incapacità di avere a che fare con le coetanee (la scena dell’appuntamento al cinema è da manuale), che acuisce ancora di più la sua infelicità.

All’apice della disperazione, sarà costretto a passare mesi al riformatorio e da lì tornerà solo in apparenza tranquillo, ma riflessa negli occhi avrà una nuova, inquietante, vacuità.

L’ultimo episodio di violenza che è costretto a subire, così crudo da farti distogliere lo sguardo, farà eruttare tutto il marcio e la sofferenza sepolta negli anni, e gli farà prendere la decisione di imbracciare il mitra e prepararsi alla resa dei conti.

E poi, diciamolo, Devin Druid ha la faccia adatta ai ruoli alla Edward Norton, e di fronte a lui vedo un futuro roseo fatto solo di assassini, psicopatici e alienati di vario genere.

Humor nero su Netflix

Una serie di sfortunati eventi e Santa Clarita Diet

Tornano i recuperoni delle serie tv, un po’ in ritardo rispetto alla loro uscita, ma nel mio cuore spero che non siate tutti come me, e che qualche titoli ogni tanto vi sfugga.

Prima facciamo un riepilogo delle puntate precedenti:
– Le serie sull’amore: Love e Lovesick;
– Le serie coi titoli espliciti: I love Dick e Fleabag;
– Due serie non c’entrano nulla l’una con l’altra ma che mi sono piaciute: The Marvelous Mrs. Maisel ed Easy.

Oggi invece parliamo di humor nero, anzi, nerissimo, e di attori dalla portentosa mimica facciale.

Una serie di sfortunati eventi

Una serie di sfortunati eventi – due stagioni, su Netflix
Ho conosciuto il talento di Neil Patrick Harris (e i suoi meravigliosi travestimenti di famiglia per Halloween) colpevolmente tardi.
Per anni mi è stato detto quanto fosse inaccettabile per una che basa la sua vita sugli insegnamenti di F.R.I.E.N.D.S. non aver visto neanche una puntata di How I met your mother.
Sì, adesso l’ho iniziata, vostro onore, lo giuro.

Ma nel frattempo ho anche visto l’altra fatica di NPH, Una serie di sfortunati eventi, serie dark tratta dai libri di Lemony Snicket.

Qui è l’a dir poco perfido Conte Olaf, che cerca in tutti i modi (e nascondendosi dietro tutte le identità possibili) di uccidere i ricchi orfani Baudelaire per rubarne l’eredità.
Assicuratevi di vederla in lingua originale per sentire la sua capacità di modulare i diversi accenti e tic per caratterizzare i diversi personaggi.

Conte Olaf e Violet Baudelaire

Ogni due puntate viene raccontato uno dei libri di Snicket (finora sono andati in onda dall’Infausto Inizio al Carosello Carnivoro).
Le ambientazioni si fanno via via più macabre e spaventose, e sono popolate da personaggi di una cattiveria disumana nei confronti dei poveri orfani. I tre Baudelaire possono contare solo su loro stessi, il loro ingegno e la loro intelligenza, e su pochi protettori che però finiscono sempre piuttosto male.
Ah, e poi c’è Sunny Baudelaire, la piccola dei tre, che si esprime solo a mugugni, ma sottotitolati, ed è spassosissima.

Sunny Baudelaire

 

Santa Clarita Diet
Santa Clarita Diet – due stagioni su Netflix
Drew Barrymore è uno dei miei miti dell’infanzia, e rivederla in una serie tutta sua mi ha riempita di felicità.
Qui è un’agente immobiliare che lavora con il marito (il dinoccolato re delle faccette Timothy Olyphant) e ha una figlia adolescente. Capita che però, una mattina, lei si svegli morta, o meglio, morta vivente, e che quindi non riesca a mangiare più nulla se non carne umana.
Come immaginerete, la cosa manderà un po’ in crisi la famiglia, che cercherà di trovare una soluzione al problema, creando delle situazioni esilaranti.

Santa Clarita Diet

La seconda stagione stacca notevolmente la prima (era da tanto che non sghignazzavo così), con i due protagonisti in stato di grazia, sempre più macchiette e impegnati in discussioni sempre più nonsense. E anche i personaggi secondari sono perfetti.

Santa Clarita Diet

Ah, vi avviso: è splatter, ma splatter-splatter, quindi non iniziatela nemmeno se siete sensibili al sangue e schifezze varie. Io, per dire, ho rischiato di fermarmi alla prima puntata: al solo ricordo mi viene ancora il voltastomaco… ma fidatevi! Giuro che è divertente!

 

Paul Bettany in Manhunt: Unabomber

True crime appassionanti: la storia di Unabomber

Manuhunt: Unabomber è una serie in otto puntate di Discovery Channel disponibile su Netflix.
Non avrei mai pensato che questa serie mi sarebbe piaciuta, ma la storia di Unabomber mi ha appassionata, è stato quasi un caso di studio.

C’è dalla mia che amo le serie tv crime, anzi i true crime, quelli tratti da storie vere (vedi alla voce O.J. Simpson).
La cosa che mi diverte è confrontare quello che è raccontato dalla serie con le vicende reali, e il più delle volte mi stupisco di come la realtà abbia molta più fantasia della fantasia stessa (o dei nostri incubi).

E poi mi interessa l’aspetto pop di questi processi, il modo in cui sono entrati nelle case delle persone e come hanno influenzato la cultura di massa anche in zone che non ci aspetteremmo.
La storia di Unabomber, in questo senso, è emblematica.

Paul Bettany e

In molti definiscono Manhunt la sorella minore di Mindhunter, una delle migliori serie uscite lo scorso anno (e che comunque vi consiglio di vedere).
Non hanno solo due titoli che risuonano in maniera simile, hanno in comune anche la dinamica di indagine descritta: in entrambi i casi ci sono degli agenti dell’FBI che in corso d’opera si inventano da zero un nuovo metodo di profilazione dei criminali.

In Mindhunter, ambientata negli Anni Settanta, vediamo emergere dal tessuto sociale e delinearsi in maniera sempre più precisa una nuova categoria criminale, quella dei serial killer, che viene inventata proprio dal team protagonista della serie.
La narrazione è potentissima anche se non c’è un vero e proprio crimine da indagare, ma solo una procedura che viene raffinata puntata dopo puntata.
Se volete sapere qualcosa di più su questa serie, vi vengono in aiuto i soliti guru di Serialminds.

Manhunt: Unabomber racconta invece del percorso che ha portato l’FBI ad arrestare il bombarolo Theodore Kaczynski. Unabomber terrorizzò gli Stati Uniti tra il 1978 e il 1996, inviando per posta bombe rudimentali, soprattutto alle Università, che uccisero in totale tre persone e ne ferirono 23.

La prima fu recapitata alla Northwestern University nel ’78, la seconda fu trovata (non esplosa) nella stiva di un Boeing 727 che da Chicago era in partenza per Washington. Da lì il nome creato per il terrorista: UN- University e A- airport.

La storia è appassionante per almeno tre motivi.

Manhunt: Unabomber

1. Il gruppo di agenti che ha indagato per risolvere uno dei casi più costosi della storia degli Stati Uniti ha di fatto inventato la linguistica forense.
Leggendo le lettere (e il Manifesto, che vi spiego tra un po’) di Kaczynski, gli agenti coinvolti sono riusciti a identificare dei pattern, delle abitudini di scrittura, dei termini frequenti che hanno permesso ai Profiler di identificarne l’età, il quoziente intellettivo, persino l’Università in cui si era laureato. Figata, punto,

Manhunt: Unabomber
2. La storia personale di Kaczynski è un perfetto manuale di come nasce un terrorista.
Dal 1971 fino al suo arresto, ha vissuto in una capanna sperduta nei boschi del Montana, senza acqua corrente, elettricità o riscaldamento, per vivere esattamente nel suo ideale di società.

Ma il terrorista non è solo un pazzo che ha vissuto recluso e recuperava scarti dalla spazzatura per mettere insieme delle bombe, è anche un uomo con un’intelligenza molto superiore alla media: per dirne una, è stato immatricolato a Harvard a soli 16 anni.

Lì è stato sottoposto allo “studio” del professor Henry Murray, psicologo che faceva parte del progetto MKULTRA della CIA per il controllo della mente. Già.
Illegale e clandestino, in piena Guerra fredda l’MKULTRA coinvolse università, ospedali, prigioni, ricercatori privati.
Murray assodava i suoi studenti, che lo adoravano, come cavie umane sui cui sperimentava combinazioni di droghe e tecniche di tortura psicologica e fisica dette brainwashing.
Lo scopo degli psicologi era quello di portare le cavie a fare quello che volevano, e programmarle per portare a compimento un’unica missione (ad esempio un omicidio). Sembra fantascienza ma è tutto vero, il caso è anche arrivato negli Anni settanta al Senato.

Di sicuro queste sedute incrinarono la personalità già fragile di Ted: i flashback sulla sua infanzia ci raccontano come già da bambino avesse tendenze distruttive.

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3. Il Manifesto di Unabomber: La Società Industriale e il suo futuro, detto anche La Pillola Rossa (vi dice niente? Sì, vi dice giusto, adesso vi spiego).
Nel 1995 Kaczynski invia delle lettere di richiesta a diversi quotidiani, tra cui The New York Times, The Washington Post e pure Penthouse: se pubblicheranno il suo Manifesto, in cambio smetterà di mandare bombe.
Il Manifesto verrà pubblicato e sarà la vera svolta delle indagini. Non vi dico come, ma è grazie a questo che Ted verrà riconosciuto.

Il complicatissimo documento è un’accorata critica a come le tecnologie abbiano ridotto l’umanità in schiavitù (e lì si parlava di automobili, gli iPhone sarebbero arrivati dieci anni dopo) e un’apologia luddista a favore di un ritorno a una civiltà pre industriale. Kaczynski sperava che, grazie alla pubblicazione del Manifesto, le masse si sarebbero sollevate e avrebbero dato inizio a una rivoluzione.
Se vi risuona qualcosa, è perché lo ritrovate paro paro nelle parole di Tyler Durden in Fight Club e dentro tutta la mitologia di Matrix. Esatto, i vostri film preferiti dell’adolescenza non sarebbero mai esistiti senza Unabomber.
Volete approfondire? Leggete qua: Unabomber: che cosa resta oggi di Ted Kaczynski.

Extra: Paul Bettany è il volto scarno e convincente di Ted Kaczynski ed ed è l’unico che brilla davvero in questa serie tv. La sua controparte buona è l’agente Fitz, il talentoso Profiler che, mettendosi contro tutti, arriverà a delineare il profilo del criminale, a costo di perdere lui stesso la sanità mentale. È interpretato da Sam Worthington, che per me è un po’ fiappo e monocorde.

Ma, per contrasto, la caduta di Fitz riesce quasi a instillarci il dubbio che, nell’insensatezza dello strumento che Kaczynski usa per comunicare il suo messaggio, è forse l’unico che ha un vero progetto e un ideale, mentre tutti gli altri intorno a lui si affannano per trovare un senso alle loro vite.

Insomma, se anche voi siete fissati con i tratto da una storia (criminale) vera, che vi mandino anche un po’ in crisi, non vi potete proprio perdere Manhunt: Unabomber.

Shameless e Arrested Development

Le mie famiglie preferite delle serie tv

Spoiler alert: in questa rassegna non c’è This is Us, la serie familiare per antonomasia degli ultimi tempi che ha conquistato chiunque tranne me.
Ho visto un paio di puntate e mi stavano tutti troppo antipatici per continuare: la mia politica è ormai di non perdere tempo se una serie tv non mi convince già dalle prime puntate.

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Alcune famiglie non proprio giuste di cui ho già parlato sono quelle di The Marvelous Mrs Maisel, The Affair, e naturalmente quelle di Game of Thrones, dove sono particolarmente problematiche e colorite (soprattutto perché vengono volentieri decimate).

Valar Morghulis
Queste sono altre quattro famiglie televisive a cui mi sono affezionata negli anni.

Shameless

Shameless
Arrivata all’ottava stagione, Shameless ci racconta le vicende dei Gallagher, famiglia del South Side di Chicago, zona di povertà, criminalità, spaccio e problemi vari di ordine pubblico.
I sei fratelli sono stati abbandonati dalla madre tossicodipendente e costretti ad arrangiarsi da soli, con la maggiore, Fiona, a fare a madre ai più piccoli, e a fare i conti con Frank, padre alcolizzato e uno dei peggiori personaggi visti in tv.
A ogni stagione ti auguri che scompaia per sempre, e invece ritorna come un Lazzaro strafatto di metanfetamine. Chapeau al suo interprete, William H. Macy, per essersi fatto odiare così profondamente.

Frank Gallagher

I Gallagher cercano perlopiù di sopravvivere, tra soldi che non ci sono mai, violenza psicologica e fisica, relazioni incasinate, disturbi della personalità, lavori al limite del criminale e un sacco di sesso.
Sono circondati da un corollario di personaggi tremendi che contribuiscono solo a farti perdere la fiducia nell’umanità (magistrale Joan Cusack, che per un paio di stagioni è la vicina ossessivo-compulsiva che si innamora di Frank). Ma poi ci sono i migliori amici, Vic e Kev, che, anche se parecchio incasinati pure loro, sono gli unici su cui i Gallagher possono contare nei momenti di difficoltà.

Decisamente dissacrante, non è adatta ai deboli di stomaco o a chi si scandalizza facilmente.

 

Arrested Development

Arrested Development
Ecco a voi la storia di una facoltosa famiglia che perse tutto, e dell’unico figlio che aveva la possibilità di tenerla ancora unita.

Iniziata nel 2003, interrotta dopo la terza stagione ma ritornata a grande richiesta nel 2013, Arrested Development ci presenta un’altra famiglia in cui vorresti strozzare metà dei componenti: i Bluth.
Il padre (Jeffrey Tambor) viene arrestato per frode fiscale, e l’unico figlio con la testa sulle spalle (Michael, interpretato da Jason Bateman) dovrà tentare di salvare la famiglia e l’azienda. Gli altri sono incapaci, inaffidabili, pigri, inconsapevoli del mondo reale al di fuori della loro vita da ricconi.

Arrested Development

Arrested Development ha un cast pazzesco: oltre a Bateman e Tambor, tra gli altri ci sono Portia de Rossi, che interpreta la sorella gemella di Michael, Will Arnett, un altro fratello, e Michael Cera, che interpreta il timido figlio di Michael. E, tra i personaggi frequenti ci sono pure Liza Minnelli e Harry Winkler (sì, Fonzie di Happy Days).

Altre cose da sapere: è girata come un finto reality show, e il montaggio segue connessioni assurde tra i pensieri dei protagonisti, con esiti esilaranti e gag ricorrenti: uno stile di regia che l’ha resa un’apripista per tutte le serie comedy successive. Ah, è nata da un’idea di Ron Howard (che l’ha pure prodotta).

 

Modern Family cast


Modern Family

Questa serie è un mockumentary, un falso documentario, in cui tre famiglie di Los Angeles imparentate tra loro (i Pritchett) accettano di raccontarsi. Da qui nascono i numerosi momenti in cui i personaggi raccontano le vicende dal loro punto di vista, seduti sul divano di casa, come se stessero rispondendo a un’intervista.

I Pritchett sono rappresentati dal patriarca Jay sposato con Gloria, colombiana, molto più giovane di lui (una stupenda Sofia Vergara) e con un figlio dal precedente matrimonio; la figlia di lui Claire, sposata con lo strambo e tenero Phil, e i loro tre figli (il piccolo, strambo come il padre, la figlia di mezzo super secchiona, e la grande, la classica bella e popolare); Mitchell, l’altro figlio di Jay, omosessuale, con il compagno Tucker e Lily, la loro bambina adottata di origine vietnamita.

Sofia Vergara as Gloria Pritchett

Il titolo ci dice già tutto. Le tre famiglie affrontano temi tipici dei nostri giorni, il rapporto e le crisi di coppia, i diritti delle famiglie omogenitoriali e le diverse generazioni a confronto con l’omosessualità, la crescita dei figli, le coppie miste per cultura e per età.

Il tutto raccontato con un sarcasmo pungente che fa parecchio ridere e anche un po’ digrignare i denti, perché in fondo i Pritchett siamo noi, e soprattutto sono chi non vorremmo essere.

 

Transparent

Transparent
Jeffrey Tambor torna a fare il padre di un’altra famiglia di Los Angeles allo sbando, gli Pfefferman.

Anche questa volta è lui, Mort, che crea scompiglio nei suoi tre figli, già di per loro non molto inquadrati, e forse simili ai Bluth nel loro essere ricchi, incapaci di crescere, egoisti e confusi.
Questa volta, però, non è una truffa economica la bomba che esplode in famiglia, ma il suo coming out sulla volontà di vivere la vita che ha sempre voluto, quella di una donna transgender, e di diventare Maura.

Transparent è stata travolta lo scorso anno da uno dei numerosi scandali che hanno scosso Hollywood. Tambor è infatti stato accusato di molestie da due donne trans che hanno lavorato in Trasparent, e ha deciso di allontanarsene. Così, la serie proseguirà per una quinta stagione senza il suo protagonista.

Nonostante questo, lo show ha avuto un’importanza molto positiva per il movimento transgender, poiché racconta con estrema delicatezza e normalità l’accettazione dell’altro e l’amore in tutte le sue forme (il rapporto tra Maura e l’ex moglie è una delle cose più poetiche e vere viste ultimamente in tv).

 

 

 

The Marvelous Mrs Maisel e Easy

The Marvelous Mrs. Maisel ed Easy

Passati i Golden Globe, mi dedico all’attività più importante dopo ogni evento stellare: controllare i look del red carpet, che in questo caso sono stati incidentalmente più chic del solito perché le star hanno sfilato in total black a sostegno della campagna Time’s Up contro gli abusi sessuali.

Controllando la lista dei vincitori, ho scoperto che ha avuto un discreto successo una serie tv che per molto non mi ero filata di striscio, ma che ho appena finito con un certo gusto, e va la infilo nel mio terzo post del recuperone del weekend.

Binge watching

Il mio recuperone del weekend è fatto di serie brevi, al massimo un paio di stagioni, che in due giornate potete finire senza problemi. Di solito non sono tra quelle osannate dalla critica e sono rimaste in disparte rispetto ad altre ben più famose.

Per il primo weekend vi avevo proposto Love e Lovesick. Per il secondo mi sono buttata sul politicamente scorretto con I love Dick e Fleabag.

Per il terzo weekend di binge watching vi propongo come prima serie una coccola, qualche ora di puro divertimento senza troppo sbattimento. E come seconda, una serie antologica leggera ma che apre a qualche inaspettata riflessione.

Rachel Brosnahan as Midge Maisel

The Marvelous Mrs Maisel (su Prime Video)
I primi minuti del pilot di questa serie tv mi avevano ingannata: la protagonista Midge Maisel mi ha fatto subito pensare a una Kimmy Schmidt degli Anni cinquanta, ma molto più antipatica. Poi ho capito che avrebbe preso tutt’altra direzione.

Midge è una giovane casalinga ebrea di New York che viene mollata dal marito Joel, un aspirante comico che non ha molto successo. La sera dell’abbandono Midge si ubriaca, torna nel locale dove si esibiva Joel e fa letteralmente a pezzi la platea, scoprendosi una stand-up comedian molto più talentuosa del marito.

La stand-up comedy americana è molto più dissacratoria di quella nostrana e non fa sconti a nessuna categoria politica o religiosa, è scorretta in temi di sesso, famiglia, questioni razziali.

Questa serie artificiosa, strutturata quasi come un musical (ma dove nessuno canta o balla), ci racconta una stand-up comedy che prende in giro lo splendore e il benessere economico di quegli anni, ma anche una disuguaglianza femminile che in qualche modo stava già iniziando a incrinarsi.

I dialoghi serratissimi ricordano lo stile di Gilmore Girls, mentre le atmosfere, impeccabili e patinate, quello di Mad Men.

Non aspettatevi però dei personaggi strutturati e profondi: Midge e Joel sono quelli più riusciti, mentre i secondari risultano farseschi e macchiettistici (perfettamente in linea con la messa in scena), in alcuni casi forse eccessivi, e fanno solo da divertente contorno alla storia dei protagonisti.

La brava (e bellissima) Rachel Broshanan ha appunto vinto il Golden Globe per la miglior attrice protagonista in una serie tv comedy e la serie stessa si è portata a casa il premio come miglior comedy.

Piccoli Passi Easy

Easy (su Netflix)
A un primo sguardo, Easy rispecchia il suo nome: semplice, e per questo la prima stagione non mi aveva particolarmente entusiasmata. 
Come in ogni serie antologica, i personaggi sono sempre diversi di puntata in puntata (anche se qui e là scopriamo delle connessioni tra loro) e il fulcro di tutte le storie raccontate è riflettere sui rapporti di coppia.

La seconda stagione mi ha stupito perché porta la riflessione a un livello più profondo e non scontato. I protagonisti sono quasi tutti gli stessi, presumibilmente qualche anno dopo rispetto a dove li avevamo lasciati, e si scoprono nuovi intrecci tra una storia e l’altra.
I temi sono vari: dal tentativo di salvare un matrimonio che si è voluto aprire ad altre persone (Matrimonio aperto), al lavoro di una escort e il suo rapporto con i clienti che travalica l’aspetto sessuale (Secondo lavoro).
Le puntate più interessanti sono quella che si interroga su come ci si può rapportare con gli ex partner senza combinare troppi casini (Ricorda il tuo Twitter!), quella sulla gelosia che compare inesorabile anche quando si fa della propria vita un baluardo contro gli stereotipi (Lady Cha Cha), e quella sulla forza e la dolcezza del desiderio di maternità (Piccoli passi).
C’è poi La figlia prodiga, un’altra puntata che mi ha colpito e che esce dai confini tracciati dalla serie, una riflessione su cosa sia la vera bontà cristiana vista attraverso lo sguardo tagliente di un’adolescente ribelle.

E allora easy diventa solamente il tono con cui i personaggi si raccontano e lo stile di regia di queste brevi puntate, semplice ma non semplicistico.
Sfido chiunque a non sentirsi partecipe dei dubbi dei protagonisti. Ti intrufolano in mezzo a dialoghi che sembrano rubati da conversazioni di tutti i giorni, pieni di esitazioni, quasi recitati a braccio.
Ed è come guardare dal buco della serratura le nostre stesse debolezze.

 

 

 

 

Idee regali Natale

Idee per Natale: serie tv

In questo periodo dell’anno centinaia di siti pubblicano i loro consigli per i regali da fare agli “amanti di… (completa a piacere)” in cui spero sempre di trovare delle idee originali, ma il più delle volte ricevo in cambio solo una grande delusione.
Ecco, finalmente mi posso sfogare e vi faccio le mie, di liste regalo.
La prima, ovviamente, è quella sui gadget a tema serie tv.

Ah! Se acquistate su Amazon dai link che trovate in questo post darete un piccolo contributo alla causa di Al Contrario. E se i regali li comprate per me, sarete ancora più bravi. Cominciamo.

Stranger Things
Qui non sapevo dove sbattere la testa, vorrei all’incirca tutto quello che il marketing mi offre. Se devo proprio fare una scelta, non potrei vivere senza:

Sherlock
Di Sherlock vi avevo già raccontato l’acquisto più pazzo di sempre, una tripletta di mega poster dedicati alla seconda stagione, ma sapete come vanno queste cose, di Cumberbatch non se ne ha mai abbastanza. Quindi via con:

Game of Thrones
Altro argomento su cui c’è l’imbarazzo della scelta: c’è merchandising di tutti i tipi e so già che tra un po’ mi stuferò di vedere gadget finto-medievali o magliette con scritto “Mother of Dragons”. Ma c’è ancora spazio per essere originali. Per esempio con:

Orange is the new Black
Ho parlato della mia simpatia per le penitenziarie di Litchfield in un articolo su Sgaialand Magazine, e ho scoperto che anche questa serie ha generato una bella fandom e tanti bei gadget.


Mad Men
In Mad Men sono tutti fighi, quindi aspettatevi un merchandising di livello altissimo.

 

 

Una serie sui punti di vista: The Affair

The Affair è una serie dell’emittente Showtime (quella di Homeland, per dirne una) che non ha suscitato molto scalpore, ma che mi sento di difendere perché non solo credo sia molto ben fatta, tutto sommato realistica pur essendo fiction, e poi perché racconta le vicende dei protagonisti con un meccanismo piuttosto originale.

Alison e Noah The Affair

Si parla di due coppie, Noah e Helen e Cole e Alison, che si conoscono durante una vacanza al mare dei primi due a Montauk, la cittadina dove vivono gli altri due. Noah ed Alison iniziano una relazione, che si rivelerà causa di risvolti psicologici, ossessioni, inquietudini e conseguenze disastrose, e arriverà a provocare dei danni gravi anche ad altri membri della comunità.

Tra parentesi: il personaggio di Cole è Joshua Jackson.
A prescindere dal fatto che quando era un pischello in Dawson’s Creek ho sempre preferito il suo Pacey a quel lesso di Dawson, oggi, con piglio del tutto professionale, posso affermare che è diventato un gran bono.

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Avevo già scritto qualche pensiero su questa serie in tempi non sospetti (cioè prima di aprire il blog). Un anno fa dicevo questo:

The Affair è una storia di tradimenti e bugie.
Ma è soprattutto una storia di punti di vista, di ricordi, di interpretazioni, e se nella prima stagione ci vuole qualche puntata per capirne il meccanismo (vicenda vista da lui, subito dopo la stessa cosa vista da lei), dalla seconda in poi l’occhio è allenato e incuriosito a cogliere le differenze.

Nella prima stagione Noah ed Allison sono le uniche due voci narranti, e le differenze sono soprattutto di tipo seduttivo: nel ricordo di lui, lei ha un tubino nero sexy e lo provoca per prima, nel ricordo di lei, invece, è lui il seduttore, mentre lei è molto più goffa.

Nella seconda stagione la visione si allarga e comprende anche gli altri due angoli del quadrato: Helen e Cole, e i punti di vista si raddoppiano.

Helen e Noah The Affair

Le differenze non solo più solamente delle sottigliezze (i capelli erano raccolti o sciolti? Chi è stato il primo a sorridere?) ma cambiano intere parti del racconto, spesso si contraddicono.
Ma il risultato è sempre lo stesso, si va avanti senza intoppi e le differenze tra un ricordo e l’altro, pure così marcate in alcune scene, non compromettono l’esito della serie.

C’è poi un altro aspetto: chi racconta è una docile vittima, mentre la sua controparte è sempre più felice, o più cattiva, o più forte. Chi racconta vorrebbe fare pace, ma si trova in balia delle decisioni dell’altro, che lo prevarica o lo riempie di bugie.

Alison e Cole The Affair

Aggiungo che nella terza stagione la situazione si complica ulteriormente con l’introduzione di un ulteriore punto di vista, che stavolta non svelo per non anticiparvi l’evoluzione della trama.

Ancora oggi questa serie mi porta a ragionare sui punti di vista, sull’angolazione dalla quale due persone vedono la stessa cosa, e su quanto nel ricordo ci si metta spesso nella posizione di avere ragione. E ribadisco un’altra cosa su cui avevo già riflettuto:

Se la somma di tutti i particolari dà sempre lo stesso risultato, allora quanto importanti sono quei piccoli dettagli che a noi sembrano fondamentali, e che gli altri si sono dimenticati?
È un tradimento ricordarsi quello che è successo in un modo diverso, anche completamente opposto, dall’altr? Oppure in fondo non è così importante per lo svolgimento delle nostre vite, che vanno avanti comunque?

Questa cosa mi ha fatto sorgere un sacco di dubbi sul motivo universale su cui litigano le coppie: ricordarsi gli anniversari.

 

Un menu a base di film e serie tv

Da film e serie tv al cibo: ecco una scorpacciata di titoli

 

Come sarebbe una cena con i migliori piatti veneti a tema cinema e tv? Il menu ve lo abbiamo preparato noi: dagli antipasti fino al dopo cena, ecco come abbinare ogni portata a un film o una serie tv.

Pronti a mettervi a tavola con noi?

STREET FOOD
Quella di “mangiare per strada” è ormai diventata una moda, che in Veneto affonda le sue radici nella tradizione culinaria della regione. Che cosa guardare se vi viene voglia di un’ottima frittura o di un succulento hamburger?

Film

Il Big Kahuna Burger di Quentin Tarantino è un hamburger ormai mitico, preparato nella catena di fast food di ispirazione hawaiana che compare in alcuni film del re dello splatter. Il più famoso è quello che Jules (Samuel L. Jackson) addenta in Pulp Fiction.
Talmente famoso che qualcuno ne ha anche copiato la ricetta.

Serie Tv
Quale fast food è più famoso di Los Pollo Hermanos di Breaking Bad? D’accordo, era solo una copertura per il proprietario Gus Fring per il riciclaggio di denaro, ma chi non avrebbe voluto assaggiare quelle succulente alette di pollo fritte?
Se invece preferite una bella frittura di pesce, potete farvi una maratona di Gomorra, dove la trovate in una delle scene simbolo della prima stagione, resa celebre anche dal gruppo comico napoletano The Jackal.


LA ZUCCA
La zucca è la regina dell’autunno, e su Sgaialand avete l’imbarazzo della scelta delle ricette che la vedono protagonista. Anche se Halloween è già passato, la zucca non può che farci venire in mente una delle feste più americane che ci siano.

Film

Il film migliore da rivedere in questo periodo dell’anno è The Nightmare Before Christmas, capolavoro di animazione dark di Tim Burton.
Il protagonista, Jack Skeletron, dal Paese di Halloween viene catapultato nel mondo reale e decide di sostituire Babbo Natale con effetti disastrosi, ed è un personaggio ormai mitico.
La sua Ballata delle Zucche è un classico di Halloween.

Serie Tv
La serie tv di cui i fan aspettavano la seconda stagione da più di un anno è Stranger Things, un cult per gli amanti del cinema e delle atmosfere degli Anni Ottanta.
Siamo nel 1984 e la città di Hawkins sembra essere uscita dalla minaccia del Sottosopra (una dimensione parallela e malefica del mondo reale, dove nella prima stagione era scomparso Will, uno dei ragazzini protagonisti). Ma a un anno dalla sparizione, ricominciano degli eventi inspiegabili, come una strana malattia che sta distruggendo tutte le zucche.

I PRIMI PIATTI DI PASTA 
Paola Da Re è una padovana emigrata a Los Angeles, dove ha aperto Pasta Sisters, catering d’eccellenza che propone primi piatti e pasta fresca, e fa impazzire anche le star. Come resistere a un piatto di carbonara fumante?

Film
In Big Night, film di Stanley Tucci del 1996, due cuochi italiani emigrati negli Stati Uniti hanno aperto un ristorante in un paesino sulla Costa Est, ma gli affari non vanno bene.
La grande serata del titolo è quella in cui sembra debba arrivare un famoso cantante italiano a cena da loro. Una divertente commedia degli equivoci da recuperare.

Serie Tv
Master of None è un serie tv in cui il genio della comicità Aziz Ansari (già visto in Parks and Recreations) racconta la generazione dei trentenni senza fare sconti a nessuno.
La seconda stagione è girata in gran parte in Italia, ed è un atto d’amore per il nostro Paese, la sua musica, il suo cinema, e la sua cucina (i protagonisti vanno anche a cena all’Osteria Francescana di Massimo Bottura).

L’articolo completo è su Sgaialand Magazine.

Stranger Things Upside Down

Pronti a tornare nel Sottosopra?

La scorsa estate sono successe due cose. Una è già tristemente terminata, l’altra sta tenendo tutti in agitazione per il suo attesissimo seguito.
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La prima era The Get Down, cancellata dopo solo una stagione, a causa dei costi esorbitanti e dello scarso appeal sul pubblico. Io per non sbagliare continuo ad ascoltare la colonna sonora. Ma di serie cancellate prima ancora che me ne rendessi conto ho già parlato un bel po’.

Il secondo fenomeno del 2016 è stata Stranger Things, che da omaggio affettuoso agli Anni Ottanta è diventata un fenomeno e un cult che ha superato ogni aspettativa.
A Halloween tutti vogliono essere Eleven.


E proprio a Halloween uscirà la seconda stagione, anticipata mesi fa dalle prime immagini dal set che erano un nuovo esplicito omaggio ai film degli Anni Ottanta.

Stranger Thinks kids in Ghostbusters costumes

Anche con Stranger Things, tutto quello che fa da contorno alla serie, dai gadget all’attività promozionale, diventa quasi più importante delle puntate stesse. Ci permette di non dimenticarla, di tenere alte le aspettative e di continuare a parlarne. Game of Thrones è maestra in questo, ma Stranger Things nel suo piccolo non è da meno.

Qualche settimane fa sono uscite delle finte locandine (o meglio, delle meta-locandine) in cui i protagonisti sono stati ritratti come i poster dei più famosi film horror del passato. Chiaramente le vorrei tutte, perché, si sa, il gadget è il mio punto di non ritorno.


E venerdì 13 ottobre (quando, sennò?) è uscito il trailer finale della seconda stagione, che io non ho visto perché ho paura mi rovini la sorpresa, ma lo lascio qui per i meno sensibili agli spoiler.

Ma il vero fenomeno di questa serie sono i suoi giovani protagonisti.
Hanno fatto una quantità di servizi fotografici promozionali uno più bello dell’altro: se avessi dodici anni avrei i loro poster in camera, altroché boyband.


Non per nulla se la sono spassata anche con Nicolas Ghesquière, il direttore creativo di Luis Vuitton, che durante una sfilata ha anche usato uno dei finti poster su una t-shirt.

La maglietta fa schifo, ma il messaggio è chiaro: il Sottosopra va con tutto.

Luis Vuitton Stranger Things Tee

Nicolas Ghesquière and Stranger Things kids
I miei preferiti, comunque, sono questi tre.

Gaten Matarazzo. Che dire di lui? È un caratterista nato e ha un nome che lo porterà lontano (ti prego, Gaten, non usare mai uno pseudonimo).

Gaten Matarazzo

Il suo personaggio è stato anche oggetto di un’operazione di marketing in cui tanti Dustin in bicicletta hanno invaso New York per accompagnarei fan in risciò al Comic-On.

E guardate il suo riassunto in 7 minuti della prima stagione. Quanti cuori.

Poi c’è Finn Wolfhard, che è anche nel cast del remake di IT, uscito nella sale in questi giorni, e che ha una faccia facciosa alla Charlie Brown che per me è adorabile.

E, per ultima, la vera star, Milly Bobby Brown, che oltre a essere una giovane Natalie Portman, ad avere uno stile che LEVATEVE TUTTI, canta, balla e recita come un’attrice navigata.


Ah, è in arrivo anche il Monopoly della serie.
Cosa c’è di più Anni Ottanta di un board game?

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