Man mano che passano gli anni, e che passano le serate davanti al computer, il mio sesto senso si affina nella ricerca di film e serie tv.
A volte mi basta vedere un trailer per capire se all’orizzonte avanza una cazzata o un prodotto interessante. Non sono una sciamana, passo solo un sacco di tempo davanti allo schermo.
Durante le scorse vacanze di Natale ho usato giornate intere per macinare una puntata dietro l’altra, per un totale di cinque serie tv, e mi do delle gran pacche sulle spalle: mi sono piaciute tutte.
Queste cinque serie sono accumunate da tre cose: protagonisti indimenticabili intorno a cui ruotano storie che sembrano cucite loro addosso; una scrittura incalzante (dalle vicende più classiche a quelle più innovative), temi che non sembrano mai dei déjà vu di qualcos’altro.
Ecco allora il mio più breve riassunto possibile di tutte e cinque.
Counterpart
Per questa non c’era scampo: io adoro J.K. Simmons. Whiplash resterà per sempre uno dei miei film preferiti soprattutto per quel bastardo del suo personaggio.
La storia
Howard Silk è un agente delle Nazioni Unite in un’agenzia di Berlino, in un futuro imprecisato.
Nei sotterranei dell’agenzia, la Germania Est è riuscita negli Anni Ottanta ad aprire un varco verso un mondo parallelo, copia quasi esatta del “Primo mondo”, mantenuto segreto ai civili ma con i quali i governi di qua hanno fragili relazioni diplomatiche e casini che si ripercuotono da una parte all’altra.
Il fulcro filosofico su cui ruota tutta la storia è che ognuno ha un un altro sé dall’altra parte, nato e cresciuto allo stesso modo fino al punto in cui un evento, anche minimo, ha cambiato del tutto il corso della sua vita.
A un certo punto Silk si troverà costretto ad avere a che fare con il suo doppio che sta di là.
J.K. Simmons si sdoppia sul serio, fino a modificare il tono di voce con cui recita (ci sono scene in cui dialoga con se stesso che fanno accapponare la pelle).
Ma la serie non affronta, banalmente, solo il tema del doppio, piuttosto quello del peso che le singole scelte hanno nella nostra vita. Infatti lo sentiamo dire: “l’infanzia, la genetica, non contano. Siamo impotenti di fronte alla nostra esperienza.”
Homecoming
La mente dietro Homecoming è Sam Esmail, il creatore di Mr. Robot.
>>>>Off topic
Io Mr. Robot l’ho colpevolmente finita solo oggi.
Come mi aspettavo, si è scornata subito con le mie serie preferite ed è arrivata in cima.
Ma quanto sono raffinate la regia e la fotografia usata da Esmail. E che splendore di dettagli. Potrei stamparmene i frame e appenderli in camera.
E quanto mi piace Rami Malek, e va bene che l’avete capito che lo amo no matter what, ma insomma, un’empatia del genere con un personaggio seriale non mi capitava dai tempi di Heinsemberg.
Chiuso l’off topic.<<<<
La storia
Homecoming è un thriller psicologico basato, ohibò, su un podcast molto famoso in America (interpretato, tra gli altri, da Oscar Isaac e David Schwimmer).
Qui la telecamera ossessiva di Esmail è puntata sul viso tirato di Julia Roberts, Heidi Bergman, un’ex assistente sociale che ha lavorato per un periodo da Homecoming, struttura innovativa per il reinserimento dei soldati americani tornati a casa dopo aver combattuto.
La serie viaggia su due piani temporali diversi, sottolineati anche da due registri stilistici diversissimi (ciao poster in camera): il presente, in cui Heidi fa la cameriera in un paesino sperduto sulla costa, e il passato, in cui scopriamo mano mano cos’è successo prima che Homecoming venisse chiuso e lei cambiasse vita.
C’è uno del Dipartimento della Difesa che indaga sul motivo per cui il programma è stato interrotto (Shea Whigham), c’è la mente dietro a Homecoming che, nel passato, telefona decine di volte al giorno ad Heidi per tenere monitorata l’operazione (Bobby Cannavale). C’è il soldato a cui Heidi si lega durante le sedute di terapia (Stephan James). E sono tutti mooooolto bravi, la tensione è tangibile, l’ansia di capire che cazzo è successo è altissima, la scoperta finale è abbastanza scioccante.
Esmail si conferma un autore incredibilmente attento e originale nell’affrontare temi attuali, spinosi, senza cadere mai nel banale e nel già visto.
Killing Eve
Non ho mai visto Grey’s Anatomy, ma tutti quelli che l’hanno amata mi hanno sempre detto che la migliore, lì dentro, è Sandra Oh. E qui si conferma la grandezza di quest’attrice, giustamente premiata ai Golden Globe per il ruolo di Eve Polastri in Killing Eve.
La storia
Eve Polastri è una funzionaria dell’M15, ente per la sicurezza e il controspionaggio del Regno Unito, che a un certo punto viene messa a capo di una squadra non proprio legale per stanare Villanelle (Jodie Comer), assassina fascinosissima e che definire spietata è dir poco.
Il punto è che entrambe finiscono per essere ossessionate l’una dall’altra, in una spy story grottesca e a tratti molto comica (se vi piace Tarantino, dai).
La creatrice è la stessa di Fleabag, che avevo già consigliato nei miei recuperoni del weekend.
Kidding
Jim Carrey non è mai stato uno dei miei attori preferiti, pur ammettendo la sua genialità e le sue capacità attoriali che lo rendono diverso da chiunque altro. Perlomeno finita la fase della faccia di gomma.
Qui ritorna a fare coppia con Michel Gondry, il regista che lo ha consacrato nel tempio del cinema indie e di tutte le conseguenti, pesantissime, citazioni emo sui social network: Eternal Sunshine of a spotless mind.
La storia
Jeff Piccirillo è un presentatore televisivo per bambini noto come Mr. Pickles, volto di uno show in cui interagisce con i pupazzi creati dalla sorella, e di un brand milionario guidato dal padre.
La serie tratta in maniera surreale, delicatissima in certi punti, violentissima in altri, la tragedia personale e di vita di Jeff, che ha perso uno dei due figli in un incidente d’auto e annaspa alla ricerca di trovare un senso in quella morte.
C’è il tema delle maschere che mettiamo addosso ogni giorno per tutelarci, c’è il conflitto tra ribellione e gentilezza, ci sono personaggi, intorno a quello di Jim Carrey, che sono un gioiello di recitazione e di profondità.
Una montagna russa di sentimenti, una stratificazione inaspettata di temi, visivamente bellissima: insomma, io ve lo dico, per me è una serie perfetta.
Escape at Dannemora
Già sulla carta questa serie tv era un parco giochi per appassionati.
La tripletta dei protagonisti è tanto atipica quanto spaziale: Benicio del Toro, Patricia Arquette e Paul Dano, mentre la regia è di Ben Stiller.
È del genere prison escape, e se vi sembrerà una storia impossibile, ta-daaan!, in realtà è tratta da una fuga vera, che nell’estate 2015 è diventata un caso seguitissimo sui media americani.
La storia
Siamo al Clinton Correctional Facility, carcere di massima sicurezza a Dannemora, quasi al confine col Canada, un luogo definito amabilmente la Siberia dello Stato di New York.
Qui sono detenuti Richard Matt (Del Toro) e David Sweat (Dano), che riescono, con un piano incredibile, a fuggire dalla prigione, grazie all’aiuto di Joyce “Tilly” Mitchell (DATE TUTTI I RUOLI CHE AVETE A DISPOSIZIONE A PATRICIA ARQUETTE PER DIO), che lavora nella sartoria della prigione.
La serie racconta i lunghi mesi in cui i due elaborano la fuga, dal momento in cui decidono il modo in cui attuarla, ai continui raggiri della molto raggirabile Tilly, fino all’evasione e alla caccia all’uomo. Nel mezzo, tutto quello che potete immaginare succeda in un carcere del genere.
Il buio, il freddo, la fatica, la noia, lo sporco, la paura, la rabbia: te li senti tutti addosso dal primo minuto.
L’atmosfera del carcere è ricreata in maniera tanto realistica da soffocarti nelle celle dei detenuti, per non parlare della claustrofobia che suscitano le lunghe scene nel tunnel scavato dai due per fuggire. E poi loro tre, loro tre sono straordinari.