Rami Malek as Freddie Mercury

Bohemian Rhapsody e i dentoni di Rami Malek

È un momento storico in cui, tra franchise, sequel, prequel, spin off, reboot, in molti accusano l’industria cinematografica di non produrre davvero delle idee nuove. O danno la colpa al pubblico, perché le idee nuove, pare, non vendono.

Who wants to live forever (i film biografici)

Il biopic, contrazione di biographic picture, film biografico, è quel genere di cinema che racconta, in maniera più o meno romanzata, la vita di qualcuno che è realmente esistito.
È un genere che ha sempre avuto un discreto successo, e negli ultimi mesi è tornato alla ribalta con Bohemian Rhapsody, sulla storia dei Queen e di Freddie Mercury, dalla nascita fino alla famosissima performance al Live Aid del 1985.

Parlando solo dei film biografici a tema musicale, nel 2019 uscirà quello su Elton John, poi sarà la volta di quello sulla storia tra John Lennon e Yoko Ono, e nel frattempo si vocifera che Dave Franco sarà il rapper Vanilla Ice (che paura).

Freddie Mercury

Mi chiedo allora se stiamo assistendo a una nuova stagione per i biopic, e se è solo un altro modo per attingere con facilità a del materiale già pronto, senza dover fare lo sforzo di trovare delle idee nuove.

Torno a Bohemian Rhapsody, e dico subito una cosa: nonostante i suoi (a volte grossi) difetti, a me ha emozionato moltissimo, soprattutto nella famosa ultima mezz’ora, in cui viene ricreata la performance dei Queen al Live Aid del 1985.

Ma mi sono appassionata anche a un’altra cosa, cioè le polemiche che prima, durante e dopo l’uscita del film, hanno continuato a pioverci sopra.
E siccome ho letto di tutto con una curiosità morbosa, tanto vale che ve ne parli, no?

It’s a hard life (un film sfortunato)

Di un progetto sui Queen si parlava già nel 2010, quando il candidato per la parte di Freddie Mercury era Sacha Baron Cohen, che ha poi abbandonato il progetto perché voleva presentare la storia del cantante in un modo molto meno edulcorato rispetto a quello voluto da Brian May e Roger Taylor.

Allora è comparso Rami Malek, noto soprattutto ai nerd delle serie tv per Mr. Robot.
Ma i problemi non sono finiti, infatti si è sollevato un vespaio anche contro il regista Bryan Singer.
Questi avrebbe combinato un po’ di casini sul set e così è stato licenziato a un passo dalla fine delle riprese, e, dulcis in fundo, subito dopo gli è arrivata anche un’accusa di violenza sessuale da parte di un attore, minorenne all’epoca dei fatti.

Nonostante questa genesi travagliata, Bohemian Rhapsody è andato benone.

Freddie Mercury

È notizia di pochi giorni fa, infatti, che è il biopic musicale che ha fatto più incassi della storia e, sulla scia di questo successo, la canzone che dà il titolo al film è schizzata nelle classifiche come il pezzo più ascoltato in streaming di sempre.

Infine, i Golden Globe del 7 gennaio lo hanno premiato come miglior film drammatico, e hanno incoronato anche il buon Rami Malek come miglior attore protagonista.

Queen

Ma allora cosa c’è che non va? Chiedete voi, ignari.
Ci arrivo.

Under pressure (le critiche)

Bohemian Rhapsody è un film che continua a essere molto criticato, sia per questioni di forma che di sostanza.

Da una parte c’è chi si è lamentato degli errori, diciamo così, storici, e delle soluzioni sbrigative usate per raccontare alcuni momenti fondamentali nella storia della band.

L’esempio più lampante? Se nella realtà Mercury scopre di essere sieropositivo solo nel 1987, e lo dirà alla band due anni dopo, nel film lo confessa praticamente il giorno prima del Live Aid. Questo per dare la scusa agli autori per parlare della malattia e per rendere (come se fosse necessario) ancora più spettacolare il racconto di quel momento.

Freddie Mercury al Live Aid

Un altro genere di critiche è stato fatto su scelte più formali, come le protesi troppo pronunciate alla dentatura di Malek, o la sua fisicità mingherlina rispetto a quella molto più imponente di Mercury.
Ah, poi ci sono anche quelli che chi se ne frega di ‘sto film, tanto i Queen facevano schifo.  Ma questa è un’altra storia.

Le inesattezze ci sono, e alcune sono piuttosto pesanti, anche se funzionali a condensare in due ore più di dieci anni di storia della band.

Di altre chi se ne frega.
Non penso che nessuno abbia creduto che John Deacon si sia inventato davvero il giro di basso di Another One Bites the Dust in cinque minuti, mentre gli altri bisticciavano dietro di lui. Ma è davvero così importante che non sia veritiero?

A kind of magic (perché andiamo al cinema)

Chi sceglie di girare un film biografico sulla vita di un personaggio famoso parte malissimo: deve fare un triplo carpiato per confrontarsi con un mito che non potrà mai essere eguagliato.

Freddie Mercury on stage
Prendendo in mano del materiale così delicato deve camminare con attenzione sul crinale tra il documentario e il libero adattamento, per cercare di rendere il più possibile omaggio al mito, ma per forza di cose lo filtrerà e lo distorcerà secondo la sua sensibilità.

E che cosa è meglio allora, tentare di fare un racconto accurato o concedersi la massima libertà artistica di reinterpretarlo?

Un film che va nella seconda direzione, esasperandola, è Io non sono qui di Todd Haynes, pellicola raffinata e cerebrale dedicata a Bob Dylan, che qui viene descritto per metafore.
È interpretato da sei attori, tra cui Cate Blanchett, che descrivono le diverse fasi della carriera del cantautore come se fossero degli archetipi, e in maniera anche piuttosto oscura.
La critica lo ha adorato, a me ha lasciata indifferente.

Invece, la finta esibizione del Live Aid dentro Bohemian Rhapsody mi ha fatto venire la pelle d’oca.
E il motivo è molto semplice e molto poco intellettuale: amo la musica dal vivo, amo i Queen, e per quella mezz’ora mi sono immaginata in mezzo alla folla di Wembley.

Con buona pace dei dentoni finti di Malek e di tutte le registrazioni che ho visto, mangiandomi le mani, delle stupende, commoventi, divertentissime, performance di Freddie Mercury.

freddie-mercury

Per tirare le somme, un film ci piace e ci emoziona quando parla di sentimenti che ci risuonano nella cassa toracica come qualcosa di intimo, e riconosciamo come nostri anche se non abbiamo vissuto in prima persona quello che ci stanno raccontando. Quindi, in questo senso, su di me Bohemian Rhapsody ha funzionato.

E tutto sommato, per noi orfani di tanti grandi nomi della musica, può bastare anche un’interpretazione un po’ difettosa, tanto lo sappiamo benissimo da noi che l’originale non ce lo ridarà indietro nessuno.

Freddie Mercury

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C'era una volta il West di Sergio Leone - Roberto Donati

Il commiato nostalgico alla frontiera: C’era una volta il West

Non esiste un genere cinematografico che non mi piaccia per partito preso.
Passo senza problemi dal musical ai supereroi, dalla commedia romantica ai film d’exploitation (quelli violenti, via).

Per me è forse più una questione di regista, o di attori. Se mi affeziono, li seguo ovunque vadano (cosa che spesso mi porta a vedere anche delle gran schifezze, ma questo è un altro discorso).

Il genere cinematografico per me è interessante soprattutto come oggetto di studio, più che come preferenza in senso stretto, e così lo è l’autore che dentro quello specifico genere ha immerso le mani, lo ha plasmato, se non addirittura se lo è inventato.
E quindi, non potevo tirarmi indietro di fronte alla monografia di Roberto Donati, edita da Gremese Editore, dedicata a “C’era una volta il West” di Sergio Leone, uno che di genere ne sapeva più di qualcosa .

La scena iniziale di C'era una volta il West

C’era una volta il West

Il film ha compiuto cinquant’anni nel 2018 e, diciamocelo, non invecchia mai.

Basta fare qualche nome di chi ci ha lavorato: le musiche sono di Ennio Morricone, alla sceneggiatura hanno collaborato Dario Argento e Bernardo Bertolucci, tra gli attori ci sono Claudia Cardinale, Henry Fonda, Charles Bronson, Jason Robards e Gabriele Ferzetti.

È considerato il commiato nostalgico del regista non solo a un genere di cinema di cui i suoi film sono un archetipo, il western all’italiana, ma anche a una certa idea di America, di frontiera, di eroi, che stavano lentamente mutando sull’onda del progresso, rappresentato dalle ferrovie e dai treni.

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Prima di C’era una volta il West

Roberto Donati ci accompagna, scavando capitolo dopo capitolo a livelli sempre più profondi di analisi, dentro questo West che sta cambiando nelle mani di Leone.

La cosa che mi ha colpito subito di questo volume è che dà l’idea che l’autore avesse talmente tante cose da dire da usare ogni spazio a disposizione nella pagina per aggiungere qualche considerazione: ogni nota, ogni didascalia alle immagini e riquadro di approfondimento è da spulciare per scovare ulteriori riflessioni sul film.

Ci racconta anche cosa c’è stato prima e cosa ci sarà dopo questo film, e lo sguardo che posa su questo lavoro è personale e appassionato, ma non acritico, nei confronti di un autore che conosce come le sue tasche (o la sua fondina).

L’introduzione è il diario di lui bambino che scopre il cinema di Leone.
Inizia già qui a parlare della Trilogia del dollaro, composta da Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto e il cattivo, necessari per capire la seconda trilogia di cui fa parte C’era una volta il West, quella definita “del tempo” o “della nostalgia”.

Questi primi tre film anticipano i temi della seconda trilogia, che lì però verranno trasformati e trasfigurati.

Donati descrive i duelli della Trilogia del dollaro come dei cartoni animati, la morte come quella nei giochi dei bambini che mimano la pistola con le dita e si rialzano un minuto dopo essere stati colpiti, e una struttura alla guardia e ladri in cui tutti vogliono essere i ladri.

Nel prologo, invece, leggiamo com’e nato il regista che conosciamo attraverso le influenze non solo del tempo in cui è cresciuto (gli Anni Trenta, il fascismo), ma anche del padre, regista di melodrammi.
Dopo una carrellata sui suoi primi film, di genere cosiddetto peplum, (colossal “storici” italiani nati negli Anni Cinquanta), entriamo nel vivo del racconto e dell’analisi di C’era una volta il West. 
Saliamo a cavallo, dunque.

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La poetica di Sergio Leone

Il marchio stilistico del regista è ben impresso nella mente di chi conosce i suoi film, come le simmetrie nelle inquadrature di Kubrick, la “faccia Spielberg” o il profilo di Hitchcock: quando i tempi di certe scene sono dilatatissimi e i primi piani strettissimi sui volti dei protagonisti, quello lì è Sergio Leone.

Il suo universo è quasi sempre un mondo arcaico che deve piegarsi all’avanzare del progresso, a cui l’uomo guarda, generalmente, con sfiducia.
Un mondo in cui il tempo scorre inesorabile e viene enfatizzato proprio dalle lunghe scene e dai lunghi silenzi dei suoi protagonisti.
Gli eroi sono individui cinici, il dollaro è più potente della colt, lo spazio è gigantesco ma allo stesso tempo claustrofobico e, ad aleggiare sopra tutto e ad accompagnare per mano ognuno dei personaggi, o forse, il personaggio principale, c’è sempre la Morte.
Per capire Sergio Leone basta forse solo questa frase estratta dal prologo del libro:

“(…) all’inizio di ogni film di Leone scatta, quasi automaticamente, anche il conto alla rovescia e la banale scritta “fine” porta con sé, inavvertite perché nascoste tra le righe, la tragedia e l’implacabile angoscia da fine dei tempi. (…) durante i suoi film si respira letteralmente aria di morte (…)” (pp. 43-44)

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Di cosa parliamo quando parliamo di West

La parte più consistente e approfondita di questo volume riguarda l’analisi delle scene chiave del film, sviscerate sulla base dei grandi temi che percorrono la narrazione (tra gli altri, quello dei ritorni, l’assenza, il silenzio, la ferrovia, il paesaggio, l’acqua, e, naturalmente, la morte).

Molto interessante, in particolare, il paragrafo L’arrivo di un treno alla stazione di Flagstone, forse il momento più simbolico del film, in cui compare il personaggio di Claudia Cardinale, l’ex prostituta Jill.
Non seguiamo, infatti, solo il suo arrivo in città, ma, simbolicamente, la sua, e la nostra, presa di consapevolezza di quello che è (ed era) il West. 
Un West che, né glorioso, né tantomeno eroico, è piuttosto:

“ (…) polveroso come d’abitudine, ma l’ampia prospettiva fotografica ne rivela la conformazione cantieristica: un West alacre e fremente, abitato e pieno di attività, ormai quasi urbano, ricco di mezzi di trasporto (…) da “sentiero selvaggio” qual è stato, sta ora iniziando a civilizzarsi.” (p. 92)

E ancora:

“(…) chiuso in se stesso e dominato dal sudore, dalla fatica e di nuovo dalla paura (…)” (p. 93).

Un West dove i personaggi stessi simboleggiano quello che è stata e quello che l’America sta diventando. Da una parte chi segue il progresso, dall’altra chi è ancorato a vecchi schemi ormai passati, e quindi destinato a estinguersi. L’ironia dei precedenti film qui diventa ancora più tagliente, le frasi pesano come macigni e non lasciano spazio ad alcuna resa dei conti.

Di questo libro non vanno saltati nemmeno Ricordi e testimonianze ed Estratti Critici, in appendice alla sezione Materiali.
Qui, per esempio, scopriamo che Bertolucci ha scritto la scena della famiglia McBain che aspetta l’arrivo di Jill, poco prima di essere trucidata, e la scelta, fortissima, di interrompere il rassicurante frinire delle cicale come presagio della tragedia. O, ancora, sempre sua l’idea (e l’insistenza per farlo accettare) di mettere al centro della storia, per la prima volta, una donna.

È nell’estratto del critico Enrico Giacovelli che, invece, leggiamo della scelta inconsueta da parte di Leone di scritturare Henry Fonda, buono per antonomasia, per interpretare il killer sadico (e aggiungo io, a cui il regista disse di tirarsi via i baffi, le basette e le lenti a contatto che si era messo il primo giorno di riprese per nascondere i suoi occhi chiari, secondo la sua idea di come doveva essere un cattivo).

Insomma, 128 pagine che però sembrano il doppio. È questo quello che succede, quando si ama tanto una materia: non si smetterebbe mai di parlarne.

C’era una volta il West di Sergio Leone, di Roberto Donati è disponibile sul sito di Gremese e anche su Amazon.

Mostra del cinema di Venezia

Venezia 75: era chiaro che avrei detto la mia.

Una settimana fa a quest’ora ero nel pieno della 75^ Mostra Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Una manciata di giorni di ferie per fare una delle mie cose preferite: chiudermi in sala a vedere in anteprima film che poi mi sarei divertita a consigliare e sconsigliare.

Nel frattempo sono stati assegnati i premi, qualche film è già uscito in sala e io mi sono già dimenticata di avere fatto delle ferie.

Però adesso arriva il bello: consigliare agli altri.
Torno alla mia antica passione per gli elenchi e vi racconto le cose che mi ricorderò, nel bene e nel male, di questa edizione.

Alessandro Borghi è Stefano Cucchi in Sulla mia pelle

Sulla mia pelle, di Alessio Cremonini.
Alessandro Borghi si è definitivamente lanciato nell’Iperuranio degli attori più incredibili del momento.
Questa pellicola, lo saprete, racconta gli ultimi sette giorni della vita di Stefano Cucchi, ed era necessaria, uno schiaffo in faccia, un film durissimo da vedere, a partire dalla trasformazione (non solo nel corpo, ma soprattutto nella voce) di Borghi in Stefano.

Come dice da giorni lui stesso sui suoi account social, anche se lo trovate su Netflix, andate a vederlo al cinema, condividetelo, continuate a parlarne.

Lady Gaga e Bradley Cooper sul red carpet a Venezia 75

La coppia Lady Gaga – Bradley Cooper
Allora, io lo so che lui ha un figlio con una delle donne più fighe della Terra, però credetemi, vederli insieme è stato emozionante, non solo sullo schermo, ma anche per la loro bellezza dal vivo, anche se (sigh) solo come coppia artistica.
Il loro film A star is born mi ha strappato le viscere: preparatevi a piangere tutte le vostre lacrime.
Lui è proprio il tipo d’uomo che nel manuale base delle relazioni è contrassegnato come “pericolo – contiene sostanze tossiche- girare alla larga”, ma quando lei se ne innamora non vi verrà neanche da dirle che è una cretina, perché come si fa a non pensarla come lei.
COME SI FA DIO SANTO.

Gipi sul red carpet di Venezia 75

Gipi, una balotta di amici e una bella riflessione sulla fragilità
L’ultima sera ci siamo rintanati in sala per fuggire all’ennesimo temporale e vedere Il ragazzo più felice del mondo, secondo film del fumettista Gipi.
In sala c’erano lui e il cast, una brigata di amici di cui per caso fa parte anche Domenico Procacci, e io sarei andata volentieri a bermi una birra con loro.

Se i suoi fumetti sono dolenti, dark, a volte anche molto tristi, lui è di un’intelligenza e una simpatia unica, un toscanaccio senza peli sulla lingua che ci ha fatto sghignazzare non solo sullo schermo, ma anche fuori.
Ma il tutto, a condimento di una riflessione profonda sulla fragilità di chi per lavoro si espone al giudizio degli altri, che attraverso la creatività si mette a nudo e si sente sempre un po’ un bambino da rassicurare e a cui dire che tutto andrà bene.

Ti voglio bene anch’io, Gianni, e l’incipit con “La vita di Adelo” mi ha fatto cascare dalla sedia.

The ballad of Buster Scruggs

I fratelli Coen e la sindrome di Woody Allen
Era la cosa che aspettavo di più.
Quando hanno pubblicato il calendario dei film in concorso, ho fatto i salti di gioia perché avrebbero proiettato The ballad of Buster Scruggs proprio nei giorni in cui ero al Lido.

I Coen per me, fino alla scorsa settimana, erano come i Beatles: non ne sbagliavano una.
Poi, all’improvviso, sono diventati come il Woody Allen degli ultimi anni: rincoglioniti.

Il film è piatto, non fa né ridere né riflettere, abbozza qualche idea banale e stanca, sembra buttato lì perché “anche quest’anno dobbiamo girare qualcosa”.
E come Woody Allen, ho paura che anche a loro siano finite le idee e che abbiamo preso la strada di un inesorabile declino. Spero di sbagliarmi perché a quella perdita ormai mi sono rassegnata, non so se ne reggo un’altra.

 

Emma Stone e Rachel Weisz in The Favourite

Lanthimos, cat fight e capricci
Una delle serie tv che più ho amato quest’anno è stata The Crown, che con i suoi intrighi e segreti alla corte della regina d’Inghilterra mi ha tenuta incollata alla tv come solo negli anni d’oro di Mad Men.
Olivia Colman sostituirà Claire Foy nel ruolo di Elisabetta, ma nel frattempo è stata un’altra regina, la seicentesca Anna Stuart in The Favourite del greco Yorgos Lanthimos.

All’epoca di The Lobster ero rimasta piuttosto scioccata dai livelli di follia fino a cui questo regista si spinge, qui forse un po’ smorzati per cercare di piacere a un pubblico più ampio, ma di sicuro con uno stile molto riconoscibile e uguale a nessun altro.
Qui ha avuto a disposizione tre attrici che si contendono il primato della migliore sia nella realtà che nella finzione.
Oltre alla Colman, perfetta regina poppante incapace di prendere una decisione che sia una, da cosa mangiare a colazione a come tassare i suoi sudditi, Rachel Weisz e Emma Stone sono due perfette e subdole contendenti delle sue attenzioni.

 

firstman

Damien Chazelle cerca il riscatto
Non ne ho mai parlato qui, ma l’anno scorso La La Land mi aveva rubato il cuore. Prima di lui, Whiplash era già uno dei miei film preferiti.
Quindi capite bene che, quando ho scoperto che l’apertura della Mostra sarebbe stata affidata proprio a Chazelle, ero abbastanza euforica.

La sensazione che mi ha lasciato First Man è di un film molto tecnico, troppo preciso nei dettagli, troppo documentaristico nelle scene familiari, troppo fissato nel riprendere il punto di vista degli astronauti durante i tentativi, più o meno falliti, di arrivare sulla luna.

Se alla prima scena, angosciante, dell’addestramento di Armstrong, vista sui meravigliosi schermi della Mostra e supportata dall’altrettanto meraviglioso impianto audio, il battito accelera per forza, e la claustrofobia ti assale, alla quinta scena girata uguale, un po’ ti rompi anche le palle.

Il mio pensiero è che Chazelle si sia voluto riscattare dopo la favola dello scorso anno, con un film solido, che non lascia spazio all’immaginazione, senza scene emozionanti (tranne quella dell’allunaggio) e che finisce per essere piuttosto freddo.

E poi Ryan, io continuo a pensare che tu sia fighissimo, ma qui la tua unica espressione è talmente scarsa che non è neanche un’espressione completa.

 

amanda

Extra: Amanda, di Mikhael Hers.
Non contenta di tutto quello che avevo programmato, in un pomeriggio in cui avevo due ore buche mi sono infilata in sala a vedere questo film francese.
La storia è quella di un ragazzo poco più che ventenne di Parigi che si ritrova all’improvviso a dover badare alla nipotina di sette anni, Amanda, dopo la morte inaspettata della sorella. Nel frattempo, si sta innamorando di una coetanea.

È un film delizioso, delicato, vero, e ha un protagonista dolcissimo, l’attore Vincent Lacoste, che durante l’incontro col pubblico dopo la proiezione è stato sommerso di domande sulla sua interpretazione, che ha colpito tutti in sala, e a cui ha risposto con grande timidezza e stupore (e lo ha reso, se possibile, ancora più adorabile).

Ho visto anche moltissime star sul red carpet, qualche altro film compreso il Leone D’Oro, ma queste sono le cose che mi hanno colpita di più.
Se andrete al cinema a vederne qualcuno, raccontatemi, se vi va, cosa ne pensate.

La fine dell'estate

Quest’estate deve finirla.

Quest’anno non sono andata esattamente in ferie.
I grossi cambiamenti, di vita e lavorativi, che mi hanno investita (sì, investita, proprio come una macchina in corsa), mi hanno fatto vivere l’estate come un lungo part time in cui un attimo prima sto lavorando e un attimo dopo mi ritrovo sul lettino a prendere il sole.
È un po’ sfiancante, ma temo di dovermici adattare.

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Nel frattempo, però, torno al Festival del Cinema di Venezia dopo averlo saltato per un anno (e aver rosicato parecchio), e per la prima volta sarò lì alla cerimonia di apertura.
E questo mi basta per arrivare col sorriso alla fine di questa lunghiiiiiiissima estate.

Per tutti voi per cui la parola “ferie” ha ancora un significato, forse questi sono gli ultimi giorni, forse siete appena rientrati, e giustamente siete un po’ tristi.
E io, che sono buona e altruista, vi consiglio un po’ di cose da vedere, ascoltare, leggere per scivolare di nuovo nella routine lavorativa.
Partiamo.

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LIBRI

Parlarne tra amici – Sally Roonei

Mi colpisce sempre molto quando ragazzi così giovani riescono a scrivere dei romanzi con una lucidità e una profondità che mi risulta strano associare a un ventenne (e anche a me, a dire il vero).
Questa storia è una lunga riflessione sulle relazioni che va a beneficio di tutti, a prescindere dal proprio orientamento sessuale ed età. E la Roonei ha una scrittura pienissima, vivida, che sembra quasi di essere lì con loro.

Divorare il cielo – Paolo Giordano

Dopo tanti anni di acquisti su Amazon (e profili di Instagram di book blogger), questo consiglio mi è arrivato da una libraia: È stata lei che mi ha detto che  i due protagonisti, Teresa e Bern, sono degli altri numeri primi, proprio come quelli del primo libro di Giordano, e che per chi è nato negli Anni Ottanta riesce a rivedere in quella storia (seppure assurda) la propria storia.
E in effetti è così.

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FILM

I, Tonya

Il film sulla pattinatrice Tonya Harding è entrato subito tra i miei film preferiti dell’anno. Ho iniziato a sentirne parlare molti mesi prima, e all’inizio non mi aveva convinta, poi, man mano che passavano i mesi, mi ha incuriosita sempre di più, finché ho visto il trailer, e la violenza dei dialoghi tra i protagonisti con Goodbye stranger in sottofondo mi ha dato il colpo di grazia.

Dogman

Volete leggere per l’ennesima volta di quanto commovente è stato il discorso di Marcello Fonte a Cannes? O quanto Edoardo Pesce sia un camaleonte e di come si è trasformato per diventare il tremendo Simoncino?
No, queste cose le sapete già tutti. Io vi dico solo che, se non avete mai visto un film di Garrone, è il caso che iniziate. Perché i film di Garrone sono la vita.

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SERIE TV

Atlanta

Io Donald Glover manco sapevo chi fosse. Poi è uscito il video di “This is America” e ho scoperto che ha uno pseudonimo come rapper e si fa chiamare Childish Gambino e spacca e fa parlare un sacco di sé.

Allora ho deciso di recuperare Atlanta, dove lui fa tutto: l’ha inventata, ci ha messo i soldi, e pure la faccia.
La trama è semplice: due cugini spiantati cercano di farsi strada nella scena musicale rap di Atlanta. È una commedia, è molto divertente, è scritta benissimo e Glover, beh, fatemi sapere com’è Glover.

The Handmaid’s Tale

Che dire, questa per me è LA serie, dell’anno, forse della vita.
È arrivata al momento giusto con l’argomento giusto, è tagliente, fredda, ti strappa le viscere e ti costringere a riflettere sul mondo in cui viviamo e sui suoi pericoli.
La seconda stagione non perde un colpo, e non cala per nulla di qualità rispetto alla prima.
Avevo già fatto qualche riflessione sul Racconto dell’Ancella versione televisiva, adesso attendo di leggere il libro della Atwood.

 

E, per concludere, una manciata di dischi a vostro uso e consumo che ho ascoltato tantissimo negli ultimi mesi.

Questi non ve li spiego, perché tanti manco sono di quest’anno, anzi, ce n’è uno che ha quasi trent’anni.

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Buona fine estate a tutti e ci rivediamo col fresco.

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Call me by your name

Le stagioni dell’amore

Ieri Al contrario ha compiuto un anno (signora mia, come crescono in fretta!).
Questo blog è stato prima un esperimento, poi un impegno, adesso è una palestra in cui mi alleno a scrivere e un luogo di chiacchiere con chi ha voglia di leggermi.

L’ho inaugurato con un post su uno dei film che mi erano piaciuti di più lo scorso anno, Logan, e anche oggi voglio parlare di cinema.

Questo è uno di quei periodi in cui nelle sale italiane esce di tutto a ritmi serratissimi, e se non ti imponi un calendario rigido rischi di perderne molti.

Questa volta mi sono impuntata, e ho visto quasi tutti i candidati agli Oscar. Dopo Scappa – Get Out, che aveva fatto parte del mio weekend horror, ne ho macinati uno alla settimana e sono riuscita a lasciarmene indietro solo un paio.

Ho una classifica personale dei miei tre preferiti, che sono, nell’ordine, Call me by your name (Chiamami con il tuo nome) di Luca Guadagnino, Phantom thread (Il filo nascosto) di Paul Thomas Anderson e The Shape of water (La forma dell’acqua), di Guillermo del Toro, vincitore dell’Oscar come miglior film.

Oltre a scenografie, musiche, costumi, immaginari e atmosfere, che mi hanno rapita in tutti e tre i film, li ho trovati una somma perfetta di tre momenti dell’amore che, chi più chi meno, abbiamo vissuto un po’ tutti almeno una volta nella vita.

Chiamami col tuo nome
C’è l’esplosione dell’amore adolescenziale che invade tutto, ti dilania e ti lascia perennemente assetato. È quel desiderio di fondersi fisicamente e spiritualmente con l’altro, che puoi vivere in quel modo solo a diciassette anni (Call me by your name).

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C’è poi l’amore contrastato, non compreso, diffidente all’inizio, che si dischiude giorno dopo giorno. Quello verso una persona così diversa da te che non ti aspetteresti mai di amare. Ma è anche l’amore eroico, che passa sopra qualsiasi cosa, che fa di tutto per salvarsi (The Shape of water).


Il filo nascosto
E, infine, c’è l’amore malato, la dipendenza, la sottomissione, quello tra una vittima e un carnefice che all’improvviso si scoprono intercambiabili. Quel rapporto che, se lo vedi dall’esterno, ci vuole un secondo per smascherarlo, ma all’interno, che tu capisca o meno quello che ti sta succedendo, credi sia la cosa migliore che ti possa capitare. È violento, tagliente, psicologicamente sottile. No so nemmeno se definirlo amore o solo autodistruzione (Phantom thread).

Nonostante siano tutte e tre delle storie fantastiche, ci si può facilmente immedesimare in quei sentimenti, in quelle ossessioni, in quei turbamenti.

Dall’adolescenza, purtroppo e per fortuna, se ne esce quasi tutti praticamente indenni.
Il film di Guadagnino è sospeso in una bolla irreale, in cui nessuno si pone domande o si fa problemi, ma ci ha ricordato una cosa fondamentale: siamo stati tutti Elio.

L’amore di The Shape of water è un prezioso miracolo, se arriva a illuminare una vita, in quello di Phantom thread, invece, preghi solo di non cascarci mai dentro. O di uscirne vivo.

 

 

 

 

 

Orsetto mannaro

Weekend horror

Nella mia vita c’è stato un momento di cesura fondamentale per la mia passione per il cinema. È stato andare a vedere una domenica pomeriggio “L’Esorcista”, quando, negli anni Duemila, hanno avuto la malaugurata idea di riproiettarlo, restaurato e senza censure.

Ricordo perfettamente quel pomeriggio: metà della compagnia di amici era andata, saggiamente, a vedere il reboot di Charlie’s Angels (quello con Cameron Diaz, Lucy Liu e Drew Barrymore). Io, stolta, e guidata dall’insistenza degli amici e dalla mia passione per gli horror, ho fatto una delle scelte più sbagliate della mia adolescenza.

Fear scream

Non riesco a descrivervi il terrore con cui ho convissuto per molto tempo dopo averlo visto.
 Mi aveva talmente scosso che per anni non ho più guardato un film che avesse una trama minimamente spaventosa, un gradino scricchiolante o una presenza di qualche genere nascosta nel buio. Ancora oggi mi vengono i brividi a ripensarci, dopo almeno quindici anni da quell’infausta domenica pomeriggio.

Scared Kermit

La vita, però, sa sempre come metterti sempre alla prova, e ha voluto che a un certo punto incontrassi F., che di film horror è fanatico. Così, dopo anni (anni) di insistenza, è riuscito a farmi ricominciare a frequentare un genere che, nel profondo del cuore, ho sempre amato.

Qualche weekend fa abbiamo recuperato ben tre film usciti lo scorso anno che possono rientrare nella categoria. Tre storie sovrannaturali abbastanza spaventose, con qualche colpo splatter ben assestato. Eccoli.

Daniel Kaluuya in Get Out

Get Out – Jordan Peele

Questo film, girato da un esordiente a bassissimo budget, ha fatto parecchio parlare di sé fin dalla sua uscita, e io lo seguivo da lontano, in attesa di capire se davvero sarebbe arrivato alla candidatura agli Oscar, come molti avevano pronosticato.
Così è stato, e si è portato a casa ben tre nomination accanto a nomi molto più altisonanti.

La storia è quella di una coppia, lei bianca, lui di colore, che va a trovare per la prima volta la famiglia di lei nella loro tenuta in campagna, isolata da tutto. Come hanno detto tanti prima di me, è un Indovina chi viene a cena con deriva horror. Un film che in maniera molto intelligente e non scontata racconta come ancora il problema del razzismo sia radicato nella cultura americana.

Sul finale diventa quasi Black Mirror. Anzi, le somiglianze con una puntata in particolare dell’ultima stagione sono (causalmente) incredibili. Ah, il protagonista Daniel Kaluuya è anche comparso in una puntata della serie, Fifteen Million Merits.

James McAvoy in Split


Split – M. Night Shyamalan

James McAvoy, il protagonista, lo ricorderete come il giovane Professor X nella saga degli X Men. Il regista, invece, è quello di Il Sesto senso e Unbreakable.

Il film si basa sulla storia vera di un criminale, Billy Milligan, il cui caso è stato importante anche per la psichiatria moderna, perché dentro di lui albergavano ben 24 personalità diverse. La storia di Milligan è incredibile: date anche solo un occhio alla sua pagina su Wikipedia.

Split prende spunto in particolare dal rapimento di tre studentesse da parte di Milligan, romanzando abbondantemente la vicenda, soprattutto nel finale, che vira in maniera brutale nell’horror.
Il film in sé non è un capolavoro, ma si regge tutto sulle spalle di un incredibile McAvoy, che cambia da una personalità all’altra solo alzando un sopracciglio, e ti tiene aggrappato alla sedia in costante apprensione per quello che succederà il minuto dopo.
Guardatelo in lingua originale, perché l’attore scozzese passa dal British allo Yankee senza fare una piega.

Ah, e c’è uno spiazzante cameo nel finale che non c’entra assolutamente nulla. Anche se si dice che potrebbe c’entrare parecchio (leggete cosa ne ha detto l’Atlantic solo dopo aver visto il film).

Jennifer Lawrence in Mother!
Mother! – Darren Aronofksky
Ce l’ho fatta: sono riuscita a recuperare uno dei tanti film che avrei voluto vedere al Festival del Cinema di Venezia.
Prima di tutto, non avevo capito nulla della trama. Jennifer Lawrence e Javier Bardem sono una coppia innamorata che vive in una casa in mezzo al nulla. Lei ha impegnato anima e corpo a ristrutturarla per lui, che l’aveva quasi persa in un incendio. A un certo punto iniziano ad arrivare ospiti inattesi che si piazzeranno in casa, distruggendo del tutto l’armonia familiare. Lui è magnanimo, lei sempre più esasperata e incredula.

Non sono una fan di Aronofsky: Black Swan non mi era piaciuto e mi innervosiscono parecchio i film in cui non trovo subito una logica nella trama.

Però.

Dopo aver passato la prima metà del film a sbuffare per la lentezza della storia e a insultare la povera Lawrence per il suo aplomb insensato di fronte a lampadine che esplodono sangue e cuori che scappano nello scarico del water, ho finalmente capito di cosa si stava parlando e mi sono detta: wow, interessante.

Non voglio svelare nulla, sappiate solo che è un film allegorico e potente, incomprensibile fino a un certo punto ma assolutamente chiaro e devastante nel momento in cui raggiunge il climax. Certo, è una storia tutt’altro che immediata, di quelle che ti si chiariscono solo alla fine, e ti costringe a ripercorrere quello che hai visto con occhi diversi.

Io ho poi letto qualche approfondimento per completare il quadro e vi lascio un paio di articoli per quando l’avrete finito (o prima, se non ve ne frega nulla della sorpresa). Mi raccomando, poi tornate qui e raccontatemi cosa ne pensate.

Spieghiamo Madre! e il suo finale (con l’approvazione di Darren Aronofsky)
Aronofsky spiega il significato di “Mother!”

 

Nina Simone negli anni cinquanta. - Tom Copi, Michael Ochs

Cinque documentari da vedere su Netflix

Non mi soffermo quasi mai sulla categoria “documentari” di Netflix, ma è forse una di quelle più complete e varie: si trovano biografie di cantanti, scrittori, sportivi, comici, inchieste giornalistiche, storie di grandi chef, di vite eticamente corrette e attivismo, di design, musica, personalità storiche e politiche.
Ecco alcuni dei miei preferiti.

What happened, Miss Simone?
What happened, Miss Simone?
Nina Simone non è stata solo una delle cantanti e pianiste soul più straordinarie della Storia, ma anche un’attivista per i diritti civili che ha marciato con Martin Luther King e Malcolm X, una donna dalla vita privata molto complicata a causa del disturbo bipolare di cui soffriva, sfruttata e picchiata dal suo compagno e manager.

Il documentario racconta con onestà la vita di una musicista gigantesca e fragile attraverso interviste, concerti e filmati di repertorio, e il contributo della figlia Lisa Simone Kelly, di amici e collaboratori della cantante.

Hot girls wanted: turned on

Hot girls wanted: turned on
Questa serie-documentario racconta il rapporto tra sesso e tecnologia da un punto di vista femminile, e di come l’uso di internet e dei social network abbia cambiato le relazioni tra le persone in maniera profonda.

Si parla di pornografia attraverso le storie di fotografe, registe, attrici e “reclutatrici” nel settore del porno, e delle difficoltà (e pericoli) di un’industria dominata dal punto di vista maschile.
O di come strumenti come Tinder permettano di incontrare persone nuove, che da un giorno all’altro si possono cambiare e sostituire come un vestito.

Dovresti venire in privato” racconta l’amicizia tra una cam-girl e uno dei suoi fan più fedeli, un ragazzo che non ha mai avuto una vera relazione e che confonde il loro rapporto con qualcosa di più romantico.

L’ultima puntata, “Continua a riprendere”, parla di adolescenti e dell’utilizzo morboso e incontrollato di Periscope, un’app per la condivisione di video, ed è un vero pugno nello stomaco.

Life, Animated

Life, Animated
Siamo negli Anni Novanta: Owen è un bambino che, dopo i primi tranquilli tre anni di vita, all’improvviso smette di parlare, e regredisce nelle capacità fisiche e motorie. La diagnosi di autismo colpisce la famiglia che si trova completamente spiazzata e inerme per anni, senza sapere cosa fare.

È il padre che un giorno trova la chiave per comunicare con lui tramite i film della Disney, che il bambino guarda in continuazione e conosce a memoria.
Owen ricomincia a parlare attraverso le frasi dei suoi personaggi preferiti, che non sono i protagonisti, ma quelli da lui definiti gli “ausiliari” (il primo è stato Jago, il pappagallo di Aladdin). Questi diventeranno la sua rete di protezione, e da loro imparerà piano piano un linguaggio per esprimere le sue emozioni.
Anni dopo, Owen è riuscito a prendere il diploma e ad andare a vivere da solo, a trovarsi un lavoro e a vivere una vita normale.

Life, animated, candidato agli Oscar del 2017, è un racconto delicato ed emozionante, che non scade mai nella ricerca della lacrima facile.

i-am-your-father

I am your father

Agli occhi del pubblico, le star della Saga di Star Wars sono tre: Harrison Ford, Carrie Fisher e Mark Hamill. Ma il primo personaggio che viene in mente pensando ai film di George Lucas è sempre Dart Vader.

Eppure, se vi chiedessi chi è l’attore che lo ha interpretato, quanti di voi saprebbero la risposta?

I am your father racconta la storia dello sfortunato David Prowse, l’attore che ha dato il corpo (ma non la voce, né il volto) al cattivo per antonomasia. Scelto per la sua fisicità imponente (è alto quasi due metri e, da giovane, era un appassionato di culturismo), al cinema aveva già interpretato Frankenstein.

Fu su di lui che venne modellato Dart Vader, ma sempre ridoppiato, mai coinvolto negli sviluppi della storia del suo personaggio, spesso sostituito dai suoi stunt-man e, soprattutto, non era sua la faccia nella famosa scena della morte.
E, probabilmente per un gigantesco equivoco, fu anche bannato dalla Lucasfilm e da tutti gli eventi ufficiali, .

Due registi spagnoli hanno cercato di ridare all’attore, ormai anziano, la gloria che merita.

Casting JonBenet

Casting JonBenet
I casi irrisolti di cronaca nera sono il mio guilty pleasure. Quando ho visto il documentario Amanda Knox, sempre su Netflix, ne ho discusso per giorni.

Conoscevo da tempo il caso della piccola JonBenet Ramsey, una reginetta di bellezza americana morta quando aveva solo sei anni.
Fu trovata strangolata nella cantina della casa dei genitori in Colorado, il giorno di Santo Stefano del 1996, e non si è mai scoperto chi fosse l’assassino.

Il caso, all’epoca, è stato oggetto di un grande scalpore mediatico e ha dato luogo alle teorie più variegate, dalla madre che avrebbe falsificato la lettera di riscatto trovata in casa, al sospetto ricaduto sul fratellino maggiore (che all’epoca aveva solo dieci anni), all’incarcerazione di un pedofilo che avrebbe confessato l’omicidio, ma forse solo per mitomania.

Tutti questi aspetti emergono nel documentario girato durante un immaginario casting per un film sul caso di JonBenet. La storia si compone in maniera originale attraverso le interviste alle persone del luogo che si presentano alle audizioni. Ognuno dà la sua opinione sull’omicidio, filtrata dalle esperienze personali, dalla conoscenza della famiglia, ma anche da traumi vissuti in prima persona.

In copertina: Nina Simone negli anni cinquanta. – Tom Copi, Michael Ochs Archives/Getty Images

Ciak cinema

Altri sei profili Instagram per amanti del cinema

Quest’estate, disperata come sempre per il solo fatto che fosse estate, ho scritto un post per tutti gli amanti del cinema che in quel periodo soffrivano con me per la mancanza di una programmazione decente in sala: Nove profili Instagram per amanti del cinema.

Nel frattempo la programmazione è ripartita, ho ricominciato a frequentare i cinema, ma soffro per il motivo complementare e opposto: i troppi film che escono in contemporanea.
Per non pensare allora al fatto che ne vedrò solo la metà di quelli che vorrei, ho preparato la seconda lista di profili Instagram per appassionati. Enjoy.

Accidentally Wes Anderson
Ecco, per caso, compare Wes Anderson, in un vagone di un treno, una villa antica, l’atrio di un hotel. Questo bellissimo account raccoglie tutti i luoghi del mondo (e le loro incredibili storie) che sembrano usciti da un film del regista e illuminati dalla sua fotografia dai colori pastello.

 

 

Mario Oscar Gabriele
Un piccolo account di un illustratore che ama parecchio i film Disney, e trasforma gli attori in personaggi che sembrano usciti da Mulan o dai fumetti di Paperino.

 

 

Shelf Heroes
Una fanzine indipendente (quella che si è inventata Ticket PLZ, profilo di cui avevo parlato nello scorso post) di illustrazione dedicata al cinema. Ogni artista coinvolto illustra un film che inizia con la lettera dell’alfabeto dell’edizione in corso del magazine.

 

 

The Smallest Boy
Questo artista realizza piccole miniature di carta tagliate al laser e poi montate a mano che ricreano i classici del cinema. Hitchcock e Kubrick sono i suoi i preferiti.

 

 

Script to screen
Questo è forse il mio account preferito del momento. Chi lo gestisce ha montato dei brevi video di numerose scene di film con la sceneggiatura corrispondente che scorre in basso.
Per aspiranti sceneggiatori o malati di mente come me.

 

 

Phil Grishayev
Phil, un produttore di Los Angeles, fa una cosa che tutti i fanatici di cinema prima o poi vorrebbero fare: ritorna sui luoghi dove sono state girate le scene dei suoi preferiti e si fa fotografare all’incirca come i protagonisti. La riuscita delle foto non è meravigliosa, ma il profilo è divertente ed è una buona mappa per organizzare tour a tema.

 

 

Nella prossima puntata, vi elencherò i miei account preferiti di attori e registi (qualcuno più gossipparo, qualche altro, invece, per il talento nel fare le foto).

Un menu a base di film e serie tv

Da film e serie tv al cibo: ecco una scorpacciata di titoli

 

Come sarebbe una cena con i migliori piatti veneti a tema cinema e tv? Il menu ve lo abbiamo preparato noi: dagli antipasti fino al dopo cena, ecco come abbinare ogni portata a un film o una serie tv.

Pronti a mettervi a tavola con noi?

STREET FOOD
Quella di “mangiare per strada” è ormai diventata una moda, che in Veneto affonda le sue radici nella tradizione culinaria della regione. Che cosa guardare se vi viene voglia di un’ottima frittura o di un succulento hamburger?

Film

Il Big Kahuna Burger di Quentin Tarantino è un hamburger ormai mitico, preparato nella catena di fast food di ispirazione hawaiana che compare in alcuni film del re dello splatter. Il più famoso è quello che Jules (Samuel L. Jackson) addenta in Pulp Fiction.
Talmente famoso che qualcuno ne ha anche copiato la ricetta.

Serie Tv
Quale fast food è più famoso di Los Pollo Hermanos di Breaking Bad? D’accordo, era solo una copertura per il proprietario Gus Fring per il riciclaggio di denaro, ma chi non avrebbe voluto assaggiare quelle succulente alette di pollo fritte?
Se invece preferite una bella frittura di pesce, potete farvi una maratona di Gomorra, dove la trovate in una delle scene simbolo della prima stagione, resa celebre anche dal gruppo comico napoletano The Jackal.


LA ZUCCA
La zucca è la regina dell’autunno, e su Sgaialand avete l’imbarazzo della scelta delle ricette che la vedono protagonista. Anche se Halloween è già passato, la zucca non può che farci venire in mente una delle feste più americane che ci siano.

Film

Il film migliore da rivedere in questo periodo dell’anno è The Nightmare Before Christmas, capolavoro di animazione dark di Tim Burton.
Il protagonista, Jack Skeletron, dal Paese di Halloween viene catapultato nel mondo reale e decide di sostituire Babbo Natale con effetti disastrosi, ed è un personaggio ormai mitico.
La sua Ballata delle Zucche è un classico di Halloween.

Serie Tv
La serie tv di cui i fan aspettavano la seconda stagione da più di un anno è Stranger Things, un cult per gli amanti del cinema e delle atmosfere degli Anni Ottanta.
Siamo nel 1984 e la città di Hawkins sembra essere uscita dalla minaccia del Sottosopra (una dimensione parallela e malefica del mondo reale, dove nella prima stagione era scomparso Will, uno dei ragazzini protagonisti). Ma a un anno dalla sparizione, ricominciano degli eventi inspiegabili, come una strana malattia che sta distruggendo tutte le zucche.

I PRIMI PIATTI DI PASTA 
Paola Da Re è una padovana emigrata a Los Angeles, dove ha aperto Pasta Sisters, catering d’eccellenza che propone primi piatti e pasta fresca, e fa impazzire anche le star. Come resistere a un piatto di carbonara fumante?

Film
In Big Night, film di Stanley Tucci del 1996, due cuochi italiani emigrati negli Stati Uniti hanno aperto un ristorante in un paesino sulla Costa Est, ma gli affari non vanno bene.
La grande serata del titolo è quella in cui sembra debba arrivare un famoso cantante italiano a cena da loro. Una divertente commedia degli equivoci da recuperare.

Serie Tv
Master of None è un serie tv in cui il genio della comicità Aziz Ansari (già visto in Parks and Recreations) racconta la generazione dei trentenni senza fare sconti a nessuno.
La seconda stagione è girata in gran parte in Italia, ed è un atto d’amore per il nostro Paese, la sua musica, il suo cinema, e la sua cucina (i protagonisti vanno anche a cena all’Osteria Francescana di Massimo Bottura).

L’articolo completo è su Sgaialand Magazine.

A normal heart

Non riguardo volentieri né i film né tantomeno le serie tv che ho già visto, a parte alcune illustri eccezioni (Sherlock e F.R.I.E.N.D.S. su tutti).
È perché ho l’ansia di non avere abbastanza tempo per vedere tutto quello che ho ancora in lista e mi sembra di perdere tempo.

Ma c’è un film che ho trovato adorabile dal primo momento e se lo danno in tv lo rivedo sempre volentieri. È “I ragazzi stanno bene”, il film che mi ha fatto scoprire Mark Ruffalo, che nel giro di un altro paio di pellicole è diventato uno dei miei attori preferiti.

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Sto scrivendo dopo aver visto il chiassoso e pesantissimo Thor Ragnarok, da cui sono uscita confusa e stordita.

Qualcuno conosce già la mia passione per i film Marvel, quindi mi sentivo quasi in dovere di vedere anche questo. 
Questo non mi è piaciuto, mi è sembrata un’accozzaglia di cose confusionarie messe insieme solo per stupire e per esaurire il budget.

Ho aspettato per tutto il film il momento in cui sarebbe comparso il Bruce Banner di Ruffalo, ma è stata una grossa delusione: lo hanno fatto diventare un cretino, impaurito e sbeffeggiato perché non ha nient’altro da offrire alla causa di Thor che sette dottorati del tutto inutili.

Perché mi avete fatto questo?

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Ho sempre pensato che il povero Mark, nel suo essere per niente cool, per niente maudit, fosse un attore sottovalutato da Hollywood.
Eppure, è scrupoloso e di grande talento, tanto da aver dato al suo Hulk (almeno fino a questo schifo di Ragnarok) un’umanità e una profondità tale da averlo reso il più interessante di tutti i supereroi del gruppo, in mezzo a quella giravolta di bicipiti e armature e figaggine sparsa.

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È bravo, ragazzi, è davvero bravo. Dategli qualsiasi ruolo e lui si darà al pubblico con generosità.

Oltre alla saga degli Avengers, riguardatelo in Zodiac, in Shutter Island, in Now You See Me (che è un filmetto senza arte né parte, ma Ruffalo riesce a creare un personaggio oscuro e inaspettato che vale la pena vedere), in Foxcatcher, nel commovente The Normal Heart, ma soprattutto, nel bellissimo Spotlight. Questi sono solo i miei preferiti, ma la sua filmografia è vastissima, nonostante sia quasi sempre tenuto all’ombra di altri più famosi di lui.

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Ogni anno io mi chiedo perché quest’uomo non abbia ancora ricevuto un Oscar. Perché non riescono a farlo uscire definitivamente da questi personaggi spalla e a dargliene uno in primo piano? Perché non riescono a proporgli un ruolo importante e la fama che si meriterebbe?

Qualcuno gli regali una seconda vita, in fondo non sarebbe il primo: pensate a cosa è successo a J.K. Simmons, che è diventato famoso solo a 60 anni dopo il successo di Whiplash.

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Vi do anche un consiglio che rallegrerà le vostre giornate: seguitelo sul suo profilo Instagram. È tutto il contrario del figone hollywoodiano.
È un papà tenerissimo e ha letteralmente una cotta adolescenziale per la moglie. È molto attivo e schierato a favore di numerose campagne sociali, per cui scende in piazza un giorno sì e l’altro pure.

Ha anche combinato un casino alla prima di Thor Ragnarok, dove si è messo a fare delle stories su Instagram, dimenticandosi però di spegnerle quando è partito il film, e ha fatto sentire in anteprima mondiale i primi dieci minuti del film. Insomma, una figura di merda che avrebbe potuto fare chiunque di noi.

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Ed è questo suo essere così assurdamente normale che mi piace di Ruffalo e che mi fa venire voglia di andarmi a bere una birra con lui e farci due chiacchiere.

Mentre attendo che qualche produttore colga il mio appello e lo scritturi per il ruolo che lo farà vincere l’Oscar, mi consolo sapendo che qualcun altro lo ama come lo amo io e ha fatto questa classifica delle volte in cui Mark Ruffalo è stato troppo adorabile per essere di questo mondo.

Adotta un proiettore

Adotta un proiettore è una campagna di crowdfunding per il Circolo cinematografico di Oderzo (TV), e mi è piaciuta da subito perché per me vedere i film nelle piccole sale acquista un fascino in più, e farei di tutto perché non sparissero.

Qui, uno stralcio dell’intervista che ho fatto al Presidente del circolo.

Adotta un proiettore: la campagna di crowdfunding del circolo Enrico Pizzuti di Oderzo

Adottare” è un verbo che evoca subito parole come affetto, prendersi cura. Ed è proprio con affetto che Paolo Pizzuti, presidente del circolo cinematografico Enrico Pizzuti di Oderzo, ci parla della campagna Adotta un proiettore, messa in piedi per acquistare e montare un nuovo proiettore per la sala del Cinema Turroni che ospita il circolo.
Adotta un proiettore nasce da un’esigenza emersa nel 2015, dopo un importante restauro che ha coinvolto il cinema.

Il rientro in sala dopo il restauro nel 2015 ci ha riservato una bella sorpresa: la stanzetta di proiezione (e quindi il suo proiettore) non c’erano più, relegando il loro ruolo a un piccolo proiettore a soffitto. Il restauro ha allontanato il locale da un’identità prevalentemente cinematografica rendendolo perlopiù una sala polivalente.
La decisione presa in fase di restauro di non passare al digitale, adottando un video proiettore a soffitto, ci vincolato nella scelta dei titoli proposti nelle nostre rassegne: non avendo a disposizione una tecnologia DCP non ci è possibile scegliere i film in uscita, e il campo si restringe a quelli già disponibili in formato DVD o Blu-ray, pertanto cerchiamo di selezionare quelle pellicole che nel cinema comunale di Oderzo non sono mai passate.
Tornando al proiettore, quello attualmente in dotazione è un video proiettore per presentazioni, inadeguato alla fruizione cinematografica: restituisce un’immagine di scarsa luminosità, con un basso contrasto e una scarsa definizione e non ci permette di proiettare film in full HD.

Ed è allora che è nata l’idea del crowdfunding.
La campagna consiste nel coinvolgere più persone possibile a sposare la nostra causa tramite una donazione di qualsiasi importo. Con il sistema del Crowdfunding abbiamo stabilito una cifra (8000 € – che andranno a coprire anche le spese di montaggio) e una data di scadenza (il 30 novembre 2017): se entro questa data non avremo raggiunto l’obiettivo tutte le somme donate verranno restituite ai rispettivi donatori. Promuovere una raccolta fondi come questa ha una doppia funzione, in quanto ci aiuta anche a pubblicizzare l’attività del circolo e a farci conoscere nel territorio.

E proprio delle attività e del rapporto con il territorio del circolo Enrico Pizzuti che abbiamo chiacchierato con Paolo Pizzuti. “Il circolo nasce nel settembre del 1995 con il nome Circolo di cultura cinematografica Pietro Dal Monaco, in onore del vecchio proiezionista; viene formalizzata l’attività di un gruppo di volontari che nei 10 anni precedenti proponeva rassegne d’autore al cinema Turroni di Oderzo. Il circolo è iscritto all’associazione nazionale circoli cinematografici italiani (ANCCI) e conta una media di 200-250 soci iscritti all’anno.
Il consiglio direttivo del circolo cinematografico è attualmente composto da 8 persone accomunate da una grande passione e cultura cinematografica.
Dagli anni Novanta l’attività è andata fino alla chiusura per il restauro del 2007. Da qui ci siamo spostati di anno in anno in luoghi diversi per dare continuità alla proposta culturale, fino a quando la Parrocchia di Oderzo (proprietaria della sala) propone di ritornare all’interno del cinema. Per l’occasione abbiamo cambiato la denominazione del circolo, che ha preso il nome di Enrico Pizzuti, il suo presidente, scomparso nel 2014.
A settembre 2015 il circolo ha aperto ufficialmente la sua nuova stagione con l’evento Torniamo in circolo, una serata di musica, cinema e letture. Da quel momento l’associazione ha abbinato al cinema anche altre proposte culturali, dall’organizzazione di eventi speciali a numerose collaborazioni esterne.

Quali attività proponete?
Nel corso dell’anno presentiamo rassegne d’autore con presentazione e dibattito finale, quando è possibile invitiamo registi o attori. Dal 2015 abbiamo inserito proposte culturali diverse dal cinema, con un’attenzione particolare alla musica: serate di lettura scenica e musica, spezzoni di film con accompagnamento musicale d’orchestra, concerti all’aperto nei giardini del cinema.
Abbiamo creato un festival estivo dal titolo Fuori dal cinema: il nome ha un doppio significato, poiché l’evento si svolge all’aperto nel giardino a lato della sala e non riguarda direttamente il cinema. Dopo il grande successo della prima edizione del 2016, abbiamo replicato con la seconda edizione del 2017, che si è rivelata altrettanto soddisfacente in termini di presenze.
È possibile partecipare a tutte le nostre iniziative sottoscrivendo una tessera annuale al costo di 20 € che dà diritto di ingresso a tutti gli eventi senza ulteriori costi.

Qual è il vostro spettatore-tipo?
Il nostro pubblico è molto vario, dai veri amanti del cinema, ai curiosi che poi si appassionano entrando in un luogo che non è semplicemente un salotto, ma un punto di incontro e di scambio di opinioni. Abbiamo conservato un buon numero di soci trentennali guadagnando un nuovo pubblico – anche giovane – che negli ultimi due anni segue con regolarità le nostre proposte.

Qual è il vostro rapporto con il territorio e la città di Oderzo?
Da quando il circolo Enrico Pizzuti ha riaperto nel 2015 abbiamo stretto diverse collaborazioni con realtà del territorio, come associazioni giovanili e di volontariato, fondazioni culturali, biblioteche, festival locali. L’obiettivo è quello di tenere viva la rete culturale della città stabilendo relazioni virtuose.

Uno dei problemi che da anni affliggono le piccole realtà come il cinema Turroni di Oderzo è il confronto con i multisala e con le nuove forme di cinema casalingo dei servizi di streaming, che portano sempre meno persone al cinema. Abbiamo chiesto a Paolo Pizzuti se anche il loro circolo soffre di questa concorrenza.
Non ci poniamo il problema, poiché il nostro ambiente non è solamente un cinema, ma un luogo in cui si compie un rito, in cui ci si sente a casa e si ritrovano volti familiari. È vero, molte delle nostre proposte sono già disponibili in formato DVD, ma quello che offriamo noi è il valore aggiunto della cultura cinematografica che dà il cineforum. Siamo consapevoli che è una proposta di nicchia, ma incontrare ogni settimana un pubblico nutrito ed entusiasta non può che incentivarci ad andare avanti.

Quali sono le prossime attività e rassegne che avete in programma?
Il 21 ottobre apriremo la stagione con una serata inaugurale dove un’ensemble multietnica farà da colonna sonora a una serie di spezzoni di film a tema.
Il 27 ottobre avrà inizio la rassegna autunnale Cose di questo mondo, una serie di film le cui trame sono accomunate dall’assurdità e imprevedibilità della vita e e degli individui coinvolti.
L’anno prossimo, dedicheremo il mese di febbraio a quattro eventi speciali, anche questi in fase di organizzazione, mentre marzo e aprile saranno dedicati alla seconda rassegna, di nuovo composta da sei film.
Visto il successo dello scorso anno riproporremo il corso di linguaggio cinematografico Effetto cinema, che l’anno scorso ha visto la partecipazione di ben 30 iscritti.
La stagione poi si chiuderà a giugno e luglio con la terza edizione di Fuori dal cinema per la quale abbiamo già qualche idea.

E, visto che i membri del circolo Enrico Pizzuti sono stati alla Mostra del Cinema di Venezia, abbiamo salutato Paolo Pizzuti chiedendogli quali film della nuova stagione valga la pena di vedere.
Andiamo alla Biennale cinema di Venezia ogni anno, è un appuntamento imprescindibile per noi. Tra i film visti recentemente ci sentiamo di consigliare l’ultimo film di Andrea Segre “L’ordine delle cose”, che abbiamo messo in rassegna il 3 novembre e “Tutto quello che vuoi” di Francesco Bruni, due opere italiane che nelle sale hanno lasciato il segno.
La nostra rassegna del 27 ottobre sarà aperta dal film belga “Kings of the Belgians”, presentato alla Biennale Cinema 2016, un’opera divertente e intelligente che ha riscosso un ottimo successo a Venezia, ma è stata poco considerata dalle sale italiane.

Per contribuire alla campagna Adotta un proiettore è possibile fare una donazione con carta di credito tramite PayPal o con bonifico bancario direttamente sul conto del circolo (IBAN IT10W0890461860014000003027). Tutte le informazioni si possono trovare nell’area dedicata del sito del circolo.

Aspettando Blade Runner 2049

Quand’ero piccola la Disney faceva uscire un film all’anno durante le feste di Natale, ed ero forse più emozionata per quello che per i pacchetti che avrei trovato sotto l’albero.

Negli ultimi anni il mio regalo di Natale è diventato il nuovo episodio di Star Wars, ma quest’anno c’è un’uscita che lo ha superato nel mio cuore per livello di agitazione adolescenziale: Blade Runner 2049.

Nel momento in cui scrivo mancano poche ore prima che io vada a vederlo al cinema, immaginatevi come sto.

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Sono una fan di Blade Runner piuttosto recente  ma perdutamente innamorata.
Il che non è strano, visto che il fantastico e la fantascienza, da qualunque angolazione li prenda, mi hanno sempre appassionata.
Ne ho parlato diverse volte anche qui (di mostre che ho visto, serie tv del mio cuore, storie di maghi).

Di Blade Runner sono indimenticabili le atmosfere cupe, il futuro senza speranza su cui piove senza sosta, i temi filosofici e il grande interrogativo finale a cui non è mai stata data una risposta univoca.

Ma la vera una cosa che mi fa impazzire di questo film è la presenza di Harrison Ford. Se mi dicessero che posso scegliere un unico attore da incontrare una volta nella vita, vi direi lui.

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Diciamoci la verità: in pochi possono dire di essere stati in una sola vita Han Solo, Indiana Jones e Rick Deckard.

E come fare a non perdere la tramontana dietro a quei tre?
Sono i classici tipi che ti fanno incazzare tanto quanto ti fanno girare la testa.

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Siccome mi sono convinta che dietro alla creazione di personaggi del genere deve esserci una personalità altrettanto unica, ne ho cercato le prove. E sì, ho avuto la conferma di che razza di canaglia è ancora quest’uomo.

Così posso mostrarlo anche a voi, celebrando il ritorno di Deckard con alcune interviste sue e di Ryan Gosling per promuovere Balde Runner 2049 in cui si capisce che non è per niente facile avere a che fare con lui.

Il povero Ryan vi dice com’è lavorare con lui.

Un altro attestato di stima.

Poi, all’improvviso, nasce la bromance.

Gosling è chiaramente innamorato di lui.

E ha tutte le ragioni per esserlo.