Manuale per ragazze rivoluzionarie

Rivoluzioni e montagne russe

Questo post ha avuto una gestazione lunghissima: ci sono ferma da tre mesi.

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Ogni volta che mettevo le mani sulla tastiera cambiavo idea su cosa mettere a fuoco di tutto quello che avrei voluto dire. Allora mi sono interrogata sul perché e l’unica risposta che riesco a darmi è che in questi mesi mi è successo di tutto.

Ho provato a iniziare questo post almeno cinque o sei volte: appena lo riprendevo in mano, quel momento che volevo raccontare era già fuggito, portato via dalla curva successiva della montagna russa in cui mi sento in questo periodo.

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La mia intenzione era quella di recensire Manuale per ragazze rivoluzionarie, di Giulia Blasi, che a gennaio ho ascoltato in maniera vorace su Storytel. Il tema è questo:

Ragazze, non c’è più tempo da perdere: bisogna fare la rivoluzione. 
Viviamo in una società che purtroppo non è ancora paritaria fra i sessi in termini di rispetto, opportunità, trattamento. 
Se nel Novecento sono stati fatti enormi passi avanti per le donne, dagli anni ‘80 in poi il femminismo si è come addormentato, mentre il successo ha continuato a essere per lo più riservato ai maschi e in tv apparivano ballerine svestite e senza voce.
La violenza sulle donne non si è mai fermata e chi denuncia le molestie tuttora corre rischi e prova vergogna.
Ecco perché oggi è giunto il momento che le ragazze di ogni età raccolgano il testimone delle loro nonne e bisnonne per fare una rivoluzione epocale.
In questo saggio profondo ed elettrizzante Giulia Blasi offre consigli concreti per mettere in atto un femminismo pieno di ottimismo e spirito di collaborazione (evviva la sorellanza!) che possa rendere tutti più sereni, rispettosi, appagati e felici. Anche gli uomini.

È un libro, prima di tutto, molto divertente. È anche spiazzante, illuminante, mette le cose bene in ordine e sviscera un argomento dietro l’altro in maniera molto precisa. È sì un manuale sul femminismo, ma per me è stato anche un modo per guardarmi dentro.

Si è inserito in un solco che era già tracciato in me, una di quelle cose che ti piovono addosso al momento giusto e senza preavviso.

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Il giorno del mio compleanno ho scritto su Instagram che il 2019 sarebbe stato l’anno in cui avrei fatto un po’ il cavolo che mi pare, e leggere questo libro mi ha confermato che sì, lo posso fare davvero.
È stata quasi una seduta di terapia, una pacca sulla spalla, una spintarella, una voce amica che mi ha detto: vai, coraggio, esci fuori, tu sei questa cosa qua e non tutti gli strati che ti sei messa addosso per compiacere gli altri.

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Posso combattere per quello in cui credo senza sentirmi sempre in colpa o sbagliata.

Scendere in piazza ogni volta che serve, sia quando la lotta è la mia sia quando non è la mia, ma credo lo stesso nella causa. Parlare ad alta voce di femminismo, sorellanza, patriarcato, mansplaining, anche se la gente mi guarda strano.

Ribattere sempre e senza timidezza a chi fa affermazioni sessiste, da quelle che sembrano più innocue come “mangi come un piranha” o “voi donne siete sempre in ritardo”, a quelle più gravi.

Fermare quelle donne che criticano le altre per come si vestono, quanto pesano, come si truccano, quanti partner hanno avuto (o non hanno avuto), se si sono rifatte o meno.

Tutto questo, anche a costo di sentire gli altri sbuffare, o di risultare stare antipatica, o di lasciare indietro qualche amicizia che non mi capisce più.

Perché essere femminista significa non aver paura di creare disagio negli altri, metterli scomodi, rompere gli equilibri e le convinzioni (e questa è una delle cose più belle e più vere che ci sono nel libro di Giulia).

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Ma per me è significato anche aver raggiunto una consapevolezza più personale, che mi sta ribaltando in questi mesi e che mi fa sentire come se fossi un serpente che fa la muta.

Non faccio più finta di farmi andare bene cose che so benissimo non fanno per me.
Mi è capitato troppe volte di alzarmi la mattina, dopo anni di arrendevolezza, e chiedermi chi cazzo fosse la tizia che vedevo nello specchio.

E quindi ho imparato a rispondere: no, a me questo rapporto fa solo male e ti spiego anche perché. Ma anche a dirmi: sì, proviamo, ho voglia di prendere quel treno anche se non si dovrebbe fare, rispondere subito a quel messaggio anche se strategicamente sarebbe meglio di no, buttarmi nelle situazioni anche quando non c’è dubbio che combinerò un casino.

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E probabilmente per questo sto già sulle palle a molti, e tanti non capiranno, tanti si spaventeranno, tantissimi giudicheranno. Ma non succede così in ogni caso?

In questo percorso non penso di essere diventata più forte, anzi, credo che le mie debolezze adesso siano molto più esposte e scintillanti di prima, ma almeno quello che c’è fuori corrisponde a quello che c’è dentro.

Adesso quando mi guardo allo specchio mi riconosco, nel bene e nel male, con tutte le difficoltà e la fatica del caso, perché oh, non è per niente facile essere se stessi.

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Manuale per ragazze rivoluzionare è su Amazon, oppure su Storytel, in versione audiolibro.

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C'era una volta il West di Sergio Leone - Roberto Donati

Il commiato nostalgico alla frontiera: C’era una volta il West

Non esiste un genere cinematografico che non mi piaccia per partito preso.
Passo senza problemi dal musical ai supereroi, dalla commedia romantica ai film d’exploitation (quelli violenti, via).

Per me è forse più una questione di regista, o di attori. Se mi affeziono, li seguo ovunque vadano (cosa che spesso mi porta a vedere anche delle gran schifezze, ma questo è un altro discorso).

Il genere cinematografico per me è interessante soprattutto come oggetto di studio, più che come preferenza in senso stretto, e così lo è l’autore che dentro quello specifico genere ha immerso le mani, lo ha plasmato, se non addirittura se lo è inventato.
E quindi, non potevo tirarmi indietro di fronte alla monografia di Roberto Donati, edita da Gremese Editore, dedicata a “C’era una volta il West” di Sergio Leone, uno che di genere ne sapeva più di qualcosa .

La scena iniziale di C'era una volta il West

C’era una volta il West

Il film ha compiuto cinquant’anni nel 2018 e, diciamocelo, non invecchia mai.

Basta fare qualche nome di chi ci ha lavorato: le musiche sono di Ennio Morricone, alla sceneggiatura hanno collaborato Dario Argento e Bernardo Bertolucci, tra gli attori ci sono Claudia Cardinale, Henry Fonda, Charles Bronson, Jason Robards e Gabriele Ferzetti.

È considerato il commiato nostalgico del regista non solo a un genere di cinema di cui i suoi film sono un archetipo, il western all’italiana, ma anche a una certa idea di America, di frontiera, di eroi, che stavano lentamente mutando sull’onda del progresso, rappresentato dalle ferrovie e dai treni.

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Prima di C’era una volta il West

Roberto Donati ci accompagna, scavando capitolo dopo capitolo a livelli sempre più profondi di analisi, dentro questo West che sta cambiando nelle mani di Leone.

La cosa che mi ha colpito subito di questo volume è che dà l’idea che l’autore avesse talmente tante cose da dire da usare ogni spazio a disposizione nella pagina per aggiungere qualche considerazione: ogni nota, ogni didascalia alle immagini e riquadro di approfondimento è da spulciare per scovare ulteriori riflessioni sul film.

Ci racconta anche cosa c’è stato prima e cosa ci sarà dopo questo film, e lo sguardo che posa su questo lavoro è personale e appassionato, ma non acritico, nei confronti di un autore che conosce come le sue tasche (o la sua fondina).

L’introduzione è il diario di lui bambino che scopre il cinema di Leone.
Inizia già qui a parlare della Trilogia del dollaro, composta da Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto e il cattivo, necessari per capire la seconda trilogia di cui fa parte C’era una volta il West, quella definita “del tempo” o “della nostalgia”.

Questi primi tre film anticipano i temi della seconda trilogia, che lì però verranno trasformati e trasfigurati.

Donati descrive i duelli della Trilogia del dollaro come dei cartoni animati, la morte come quella nei giochi dei bambini che mimano la pistola con le dita e si rialzano un minuto dopo essere stati colpiti, e una struttura alla guardia e ladri in cui tutti vogliono essere i ladri.

Nel prologo, invece, leggiamo com’e nato il regista che conosciamo attraverso le influenze non solo del tempo in cui è cresciuto (gli Anni Trenta, il fascismo), ma anche del padre, regista di melodrammi.
Dopo una carrellata sui suoi primi film, di genere cosiddetto peplum, (colossal “storici” italiani nati negli Anni Cinquanta), entriamo nel vivo del racconto e dell’analisi di C’era una volta il West. 
Saliamo a cavallo, dunque.

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La poetica di Sergio Leone

Il marchio stilistico del regista è ben impresso nella mente di chi conosce i suoi film, come le simmetrie nelle inquadrature di Kubrick, la “faccia Spielberg” o il profilo di Hitchcock: quando i tempi di certe scene sono dilatatissimi e i primi piani strettissimi sui volti dei protagonisti, quello lì è Sergio Leone.

Il suo universo è quasi sempre un mondo arcaico che deve piegarsi all’avanzare del progresso, a cui l’uomo guarda, generalmente, con sfiducia.
Un mondo in cui il tempo scorre inesorabile e viene enfatizzato proprio dalle lunghe scene e dai lunghi silenzi dei suoi protagonisti.
Gli eroi sono individui cinici, il dollaro è più potente della colt, lo spazio è gigantesco ma allo stesso tempo claustrofobico e, ad aleggiare sopra tutto e ad accompagnare per mano ognuno dei personaggi, o forse, il personaggio principale, c’è sempre la Morte.
Per capire Sergio Leone basta forse solo questa frase estratta dal prologo del libro:

“(…) all’inizio di ogni film di Leone scatta, quasi automaticamente, anche il conto alla rovescia e la banale scritta “fine” porta con sé, inavvertite perché nascoste tra le righe, la tragedia e l’implacabile angoscia da fine dei tempi. (…) durante i suoi film si respira letteralmente aria di morte (…)” (pp. 43-44)

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Di cosa parliamo quando parliamo di West

La parte più consistente e approfondita di questo volume riguarda l’analisi delle scene chiave del film, sviscerate sulla base dei grandi temi che percorrono la narrazione (tra gli altri, quello dei ritorni, l’assenza, il silenzio, la ferrovia, il paesaggio, l’acqua, e, naturalmente, la morte).

Molto interessante, in particolare, il paragrafo L’arrivo di un treno alla stazione di Flagstone, forse il momento più simbolico del film, in cui compare il personaggio di Claudia Cardinale, l’ex prostituta Jill.
Non seguiamo, infatti, solo il suo arrivo in città, ma, simbolicamente, la sua, e la nostra, presa di consapevolezza di quello che è (ed era) il West. 
Un West che, né glorioso, né tantomeno eroico, è piuttosto:

“ (…) polveroso come d’abitudine, ma l’ampia prospettiva fotografica ne rivela la conformazione cantieristica: un West alacre e fremente, abitato e pieno di attività, ormai quasi urbano, ricco di mezzi di trasporto (…) da “sentiero selvaggio” qual è stato, sta ora iniziando a civilizzarsi.” (p. 92)

E ancora:

“(…) chiuso in se stesso e dominato dal sudore, dalla fatica e di nuovo dalla paura (…)” (p. 93).

Un West dove i personaggi stessi simboleggiano quello che è stata e quello che l’America sta diventando. Da una parte chi segue il progresso, dall’altra chi è ancorato a vecchi schemi ormai passati, e quindi destinato a estinguersi. L’ironia dei precedenti film qui diventa ancora più tagliente, le frasi pesano come macigni e non lasciano spazio ad alcuna resa dei conti.

Di questo libro non vanno saltati nemmeno Ricordi e testimonianze ed Estratti Critici, in appendice alla sezione Materiali.
Qui, per esempio, scopriamo che Bertolucci ha scritto la scena della famiglia McBain che aspetta l’arrivo di Jill, poco prima di essere trucidata, e la scelta, fortissima, di interrompere il rassicurante frinire delle cicale come presagio della tragedia. O, ancora, sempre sua l’idea (e l’insistenza per farlo accettare) di mettere al centro della storia, per la prima volta, una donna.

È nell’estratto del critico Enrico Giacovelli che, invece, leggiamo della scelta inconsueta da parte di Leone di scritturare Henry Fonda, buono per antonomasia, per interpretare il killer sadico (e aggiungo io, a cui il regista disse di tirarsi via i baffi, le basette e le lenti a contatto che si era messo il primo giorno di riprese per nascondere i suoi occhi chiari, secondo la sua idea di come doveva essere un cattivo).

Insomma, 128 pagine che però sembrano il doppio. È questo quello che succede, quando si ama tanto una materia: non si smetterebbe mai di parlarne.

C’era una volta il West di Sergio Leone, di Roberto Donati è disponibile sul sito di Gremese e anche su Amazon.

Creiamo cultura insieme di Irene Facheris

Dare consigli è inutile

È un periodo curioso.

Da una parte mi trovo spesso nella situazione in cui le persone mi chiamano, mi scrivono, mi chiedono di fare due chiacchiere perché vogliono la mia opinione su qualcosa. Che riguardi il lavoro, un rapporto che non funziona, una questione di principio, sentono di potersi fidare del mio giudizio.

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Dall’altra mi trovo io, invece, a chiedere ossessivamente l’opinione degli altri su una faccenda sentimentale.
È una cosa che sulla mia pelle mi sembra intricatissima, ma che, se me la raccontasse un altro, so che l’avrei chiusa nel tempo di finire una sigaretta.

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Ma la verità è che ho scoperto da poco che chiedere consigli è umano, darne è inutile.

Sembra una contraddizione in termini, ma è una delle più importanti lezioni che ho imparato da un piccolo manuale che ho comprato poco tempo fa.
Il libro è “Creiamo cultura insieme – 10 cose da sapere prima di iniziare una discussione” di Irene Facheris, la formatrice di Parità in Pillole che avevo citato tra i profili YouTube da seguire (e che ho visto dal vivo qualche tempo fa).

Poche cose come aver letto questo libro hanno cambiato la mia percezione sul modo che abbiamo di comportarci con gli altri, e su come, pensando di far bene, quasi tutti inciampiamo in errori involontari che rischiano di fare peggio.

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Non temete, c’è una speranza per tutti.

Quando si discute di relazioni di qualsiasi tipo, da quelle amorose a quelle d’amicizia, familiari e lavorative, si apre il buco nero delle opinioni.

È il luogo in cui vale tutto, ognuno la pensa in un modo diverso, ha una strategia, una cosa che secondo lui “devi fare” o “non devi proprio fare”. È il regno dell’incertezza.

All’opposto, Irene, durante la presentazione a cui ho partecipato, ha esordito dicendo una cosa con una fermezza e una sicurezza che mi hanno colpita: “questo metodo per gestire le discussioni funziona senza dubbio. Provatelo, e poi ditemi”.

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E nel suo libro ci spiega che no, il confronto con l’altro non è il Far West delle buone intenzioni, ma ci sono delle tecniche che si possono adottare e che sono davvero efficaci per migliorare le discussioni e il confronto con gli altri.

Ad esempio, c’è una cosa che ci impedisce nella maggior parte dei casi di affrontare serenamente le discussioni, ed è non discernere tra concetti molto diversi tra loro: capire, comprendere e condividere le azioni dell’altro.
Se impariamo a distinguerli, avremmo gli strumenti per parlare con chiunque senza alterarci, anche se non condividiamo le sue idee e le sue azioni (sì, anche con quello lì che vi è venuto in mente adesso e che considerate il più stronzo di tutti).

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Una volta capito questo, abbiamo un’altra massima da affrontare: “Non si possono giudicare le emozioni e i bisogni degli altri, piuttosto i comportamenti che ne conseguono”.

Voi direte che questo lo sapete bene, ma continuate a leggere.

Quante volte avete detto “non dovresti essere triste” o “non ti dovresti arrabbiare così tanto”, o ancora, in positivo, “sei stato bravo a reagire così”, o “a me è successa la stessa cosa, quindi ti capisco”? Ecco, questo è il tranello in cui cadiamo tutti, quando vogliamo aiutare l’altro, e spostiamo il focus da lui a noi, giudicandone le emozioni e i bisogni secondo le nostre categorie, senza aiutarlo davvero.

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Eh, lo so.

Irene descrive una serie di comportamenti che ci vengono naturali quando una persona ha un problema e si rivolge a noi per un consiglio: rassicurare, interpretare, giudicare… e che dovremmo imparare ad abbandonare per l’unico vero ascolto che è utile per l’altro: quello empatico/comprensivo.

Questo ascolto parte da un esercizio: spostare le cose che pensiamo, e che nella nostra testa sembrano chiarissime, su carta, e poi rileggerle, ascoltandoci. In tutti questi passaggi il nostro pensiero, inevitabilmente, subirà delle modifiche, ma non sarà ancora abbastanza chiaro.
L’ultimo passaggio che ci serve è nel confronto con l’altro.
L’altro, che dovrebbe non fare altro che ripetere esattamente quello che gli raccontiamo noi.

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Sembra strano, ma sentite qui:
“la riformulazione serve all’ascoltato per ascoltare se stesso attraverso un’altra voce che ripeta esattamente quello che ha detto, permettendogli di creare uno spazio fra sé e il proprio racconto affinché possa comprendere se è proprio il suo, produrre eventualmente un’ulteriore elaborazione, rimettersi in movimento (…) e continuare ad approfondire (…)” (Irene Facheris, Creiamo cultura insieme, pag. 94).

Quando qualcuno ci chiede un consiglio, insomma, dobbiamo imparare a ripetergli a voce alta quello che ci ha detto e che ha fatto, non le motivazioni e le emozioni che crediamo di interpretare dietro i suoi gesti, e accompagnarlo senza metterci mai in mezzo con il nostro vissuto emotivo, chiedendogli solo di spiegarci come si sente in quel momento, senza anticipare una soluzione.

Difficile, non è vero?
È però l’unica via perché l’altro si senta davvero messo al centro e compreso, ed è una rivoluzione che, sono convinta, può portare solo del bene.

Io vi consiglio di leggere il libro di Irene anche solo per riflettere sulla strada che avete percorso finora, senza giudicarvi o giudicare gli altri, ma prendendolo come un punto di partenza per (e lo dico senza retorica) diventare ascoltatori e persone migliori.

E poi magari tornate da me che ho tante cose da raccontarvi.

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La fine dell'estate

Quest’estate deve finirla.

Quest’anno non sono andata esattamente in ferie.
I grossi cambiamenti, di vita e lavorativi, che mi hanno investita (sì, investita, proprio come una macchina in corsa), mi hanno fatto vivere l’estate come un lungo part time in cui un attimo prima sto lavorando e un attimo dopo mi ritrovo sul lettino a prendere il sole.
È un po’ sfiancante, ma temo di dovermici adattare.

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Nel frattempo, però, torno al Festival del Cinema di Venezia dopo averlo saltato per un anno (e aver rosicato parecchio), e per la prima volta sarò lì alla cerimonia di apertura.
E questo mi basta per arrivare col sorriso alla fine di questa lunghiiiiiiissima estate.

Per tutti voi per cui la parola “ferie” ha ancora un significato, forse questi sono gli ultimi giorni, forse siete appena rientrati, e giustamente siete un po’ tristi.
E io, che sono buona e altruista, vi consiglio un po’ di cose da vedere, ascoltare, leggere per scivolare di nuovo nella routine lavorativa.
Partiamo.

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LIBRI

Parlarne tra amici – Sally Roonei

Mi colpisce sempre molto quando ragazzi così giovani riescono a scrivere dei romanzi con una lucidità e una profondità che mi risulta strano associare a un ventenne (e anche a me, a dire il vero).
Questa storia è una lunga riflessione sulle relazioni che va a beneficio di tutti, a prescindere dal proprio orientamento sessuale ed età. E la Roonei ha una scrittura pienissima, vivida, che sembra quasi di essere lì con loro.

Divorare il cielo – Paolo Giordano

Dopo tanti anni di acquisti su Amazon (e profili di Instagram di book blogger), questo consiglio mi è arrivato da una libraia: È stata lei che mi ha detto che  i due protagonisti, Teresa e Bern, sono degli altri numeri primi, proprio come quelli del primo libro di Giordano, e che per chi è nato negli Anni Ottanta riesce a rivedere in quella storia (seppure assurda) la propria storia.
E in effetti è così.

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FILM

I, Tonya

Il film sulla pattinatrice Tonya Harding è entrato subito tra i miei film preferiti dell’anno. Ho iniziato a sentirne parlare molti mesi prima, e all’inizio non mi aveva convinta, poi, man mano che passavano i mesi, mi ha incuriosita sempre di più, finché ho visto il trailer, e la violenza dei dialoghi tra i protagonisti con Goodbye stranger in sottofondo mi ha dato il colpo di grazia.

Dogman

Volete leggere per l’ennesima volta di quanto commovente è stato il discorso di Marcello Fonte a Cannes? O quanto Edoardo Pesce sia un camaleonte e di come si è trasformato per diventare il tremendo Simoncino?
No, queste cose le sapete già tutti. Io vi dico solo che, se non avete mai visto un film di Garrone, è il caso che iniziate. Perché i film di Garrone sono la vita.

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SERIE TV

Atlanta

Io Donald Glover manco sapevo chi fosse. Poi è uscito il video di “This is America” e ho scoperto che ha uno pseudonimo come rapper e si fa chiamare Childish Gambino e spacca e fa parlare un sacco di sé.

Allora ho deciso di recuperare Atlanta, dove lui fa tutto: l’ha inventata, ci ha messo i soldi, e pure la faccia.
La trama è semplice: due cugini spiantati cercano di farsi strada nella scena musicale rap di Atlanta. È una commedia, è molto divertente, è scritta benissimo e Glover, beh, fatemi sapere com’è Glover.

The Handmaid’s Tale

Che dire, questa per me è LA serie, dell’anno, forse della vita.
È arrivata al momento giusto con l’argomento giusto, è tagliente, fredda, ti strappa le viscere e ti costringere a riflettere sul mondo in cui viviamo e sui suoi pericoli.
La seconda stagione non perde un colpo, e non cala per nulla di qualità rispetto alla prima.
Avevo già fatto qualche riflessione sul Racconto dell’Ancella versione televisiva, adesso attendo di leggere il libro della Atwood.

 

E, per concludere, una manciata di dischi a vostro uso e consumo che ho ascoltato tantissimo negli ultimi mesi.

Questi non ve li spiego, perché tanti manco sono di quest’anno, anzi, ce n’è uno che ha quasi trent’anni.

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Buona fine estate a tutti e ci rivediamo col fresco.

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Lista dei desideri parte 2: libri

Se avete già riempito il carrello con i regali più giusti per gli appassionati di serie tv, prima di fare l’ordine prendete carta e penna e aggiungete qualche libro.

Adoro i tomi fotografici e i fumetti, e per la mia lista ne ho scelti diversi. Ma c’è anche un romanzo, una riedizione illustrata di una saga che amo da più di un decennio, e un libro per tornare adolescenti incazzati.
Pronti?

Star Wars Costumes: The Original Trilogy – Brandon Alinger
Visto il periodo, non potevo non infilarci una cosa a tema Star Wars. In attesa di tornare in sala a fare la groupie di Kylo Ren, il primo desiderio in lista riguarda la mia parte preferita della saga: la trilogia originale e i suoi favolosi costumi.

Star Wars Costumes: the original trilogy.


Visualising the Beatles – John Pring, Rob Thomas

Da quanti punti di vista e in quanti modi si può raccontare la storia dei Beatles? Infiniti. Dopo aver visto il dimenticabilissimo documentario in cui la racconta la loro segretaria, mi manca solo questo: i Beatles raccontati in infografiche.

 

OMG Posters: A decade of Rock Art – Mitch Putnam
Ho la compulsione di comprare locandine degli eventi che vado a vedere, soprattutto le mostre, ma anche i concerti. Ecco, se qualcuno mi compra questo librone definitivo dei poster degli ultimi dieci anni di praticamente tutte le band rock esistenti, almeno posso lasciare libera qualche parete di casa.

 


The Wes Anderson Collection – Bad Dads: Art Inspired by the Films of Wes Anderson – Spoke Art Gallery
Come superare un rapporto familiare difficile? Immaginandovi in un film di Wes Anderson. Ho già parlato di questo oggetto del desiderio quando pensavo di riarredare casa come avrebbe fatto il regista.



 Heather, più di tutto. – Matthew Weiner

Questo non è illustrato né fotografico, è un romanzo, un noir che parla dell’incontro di due mondi totalmente all’opposto, uno scintillante e perfetto, l’altro basso e immerso nel degrado, attraverso la figura della bellissima Heather.
Vi svelo il segreto: è scritto da uno degli autori di Mad Men.

Heather, più di tutto - Matthew Weiner

Harry Potter illustrato da Jim Kay
Mi ero persa tutta la bellezza di questo progetto, e ho scoperto da pochissimo questo illustratore che ogni anno riprende in mano un volume di Harry Potter per illustrarlo in maniera incredibile. Quest’anno è arrivato al Prigioniero di Azkaban, che è anche il mio capitolo preferito. Fate voi.

 

Atlante dei luoghi insoliti e curiosi – Alan Horsfield, Travis Elborough
Penso che questo atlante sia il libro perfetto da leggere in queste sere d’inverno, per mettere le crocette su tutti i posti meravigliosi che sarebbe il caso di visitare almeno una volta nella vita. Qui ci sono i luoghi più assurdi, bizzarri, sperduti e dimenticati della Terra. Regioni remote, terre sommerse, labirinti sotterranei e città fantasma: dai, vi serve altro?

Atlante dei luoghi insoliti e curiosi

 

I diari bollenti di Mary Astor – Edward Sorel
Sono appassionata dei profili Instagram che parlano di libri, e questo fumetto è comparso moltissime volte nel mio feed. Racconta “il grande scandalo a luci rosse del 1936” che coinvolse l’attrice Mary Astor e all’epoca uscì su tutti i giornali. L’ex marito, nella causa per l’affidamento della figlia, minacciò di pubblicare i diari della moglie che aveva scovato quando erano ancora sposati, e in cui lei aveva documentato e classificato tutti gli affaire che aveva avuto (con relative misure e commenti sulle prestazioni). In questo romanzo Edward Sorel si finge un disegnatore di tribunale e racconta lo scandalo, ancora attualissimo.

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Colazione d’autore. #bookbreakfast di Petunia Ollister
A proposito di Instagramer che fotografano libri, Petunia Ollister è un’istituzione. Di solito non amo molto le tavole della colazione preparate appositamente per essere fotografate, ma le sue sono bellissime, eleganti e di ispirazione per i prossimi libri da leggere. Spesso ci si scovano anche consigli su oggetti di design o mostre da visitare.



Ti saluta stocazzoEnlarge your pencil – coloring book 


I coloring book hanno rotto le palle e per la maggior parte sono talmente brutti che non mi viene per nulla voglia di provare a rilassarmi in loro compagnia. Ma riuscite a immaginare la soddisfazione di colorare le peggio parolacce che vi vengono in mente, o tutte le categorie del porno? Geniale, a partire dai titoli.

 

P.S. Anche in questo caso, se acquistate dai link che ho inserito nell’articolo, il blog riceverà una piccola commissione.

 

 

 

La biblioteca dei libri non letti

I libri accumulati sugli scaffali, mai aperti o appena sfiorati, lasciati a metà sul comodino, quelli che giacciono lì da anni e a cui prometto periodicamente che prima o poi li leggerò: la mia libreria ne è sommersa, e sono molti di più rispetto a quelli effettivamente letti.

I soldi spesi in libri non sono mai soldi buttati (tranne quando vengono usati per Fabio Volo o Moccia, ma questa è un’altra storia), però mi hanno fatto lo stesso sentire sempre un po’ in colpa, soprattutto quelli abbandonati dopo poche pagine. Del resto, non si dovrebbe giudicare un libro solo dalla copertina, no?

Qualche giorno fa, però, sono incappata in un bell’articolo su Rivista Studio che si chiama proprio Comprare libri per non leggerli.

L’autrice fa un calcolo approssimativo basandosi sull’aspettativa media di vita, che in questo periodo storico arriva circa a ottant’anni. Chi riesce a leggere un libro a settimana potrebbe arrivare a 4.000 in tutta una vita. Mentre chi, più realisticamente, ne legge uno al mese, si fermerebbe a 920.
A vedere questa cifra ho pensato subito che fossero troppo pochi, e che non ce la farò mai a leggere tutto quello che mi piacerebbe.

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Ma nello stesso tempo questo pezzo mi ha tranquillizzata, perché subito dopo cita Umberto Eco e dice:

Una biblioteca di casa non è solo un luogo in cui si raccolgono libri: è anche un luogo che li legge per conto nostro”.

Quindi io sono sia i libri che ho terminato, ma anche quelli che ho scelto di acquistare e che sono a casa con me, a comporre la mia biblioteca dei non letti.

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Partendo da questo pensiero, ho deciso di spulciare la mia libreria ed elencare tutti quei libri che nell’ultimo paio di anni ho comprato e che hanno avuto due destini: non venire letti o essere mollati a metà. Eccoli.

Abbandonati
– Giulia 1300 e altri racconti di Fabio Bartolomei
– Trilobiti di Breece D’J Pancake
– La stranezza che ho nella testa di Orhan Pamuk
– Prendila così di Joan Didion
– La leggenda del trombettista bianco di Dorothy Baker
– Le notti di Salem di Stephen King.

Ancora intonsi
Il celestiale Bibendum (finito!)
Amica della mia giovinezza di Alice Munro
Non avrete il mio odio di Antoine Leiri
L’uomo nell’armadio di Pietro Grossi
Libertà di Jonathan Franzer (in vorace lettura)
Gli sdraiati di Michele Serra (Sì, M., ce l’ho ancora io!)
To kill a Mockingbird di Harper Lee
Qualcosa di Chiara Gamberale  (finito!)
Una cosa piccola che sta per esplodere di Paolo Cognetti

Passarli in rassegna è stata un’operazione catartica che ha fatto superare i sensi di colpa nei loro confronti (sono convinta che alcuni di loro prima o poi emergeranno dal mucchio e riceveranno da me l’attenzione che si meritano).
Se vi va, scrivetemi i vostri, e magari fondiamo il book club dei non lettori.

Letture complesse

Sono tornata all’Università. O almeno è così che mi sono sentita mentre leggevo (unicamente per diletto) Complex TV di Jason Mittell, librone di circa seicento pagine che recita nel sottotitolo “Teoria e tecnica dello storytelling delle serie tv”, e che ho già citato in questo blog esplicitamente quando ho parlato di Game of Thrones, e implicitamente molte altre.

Avere in mano questo saggio è stato proprio come ritornare ai tomi universitari, al sottolineare a matita e ai miei personali segni grafici che simboleggiano vari gradi di importanza di un concetto: da abbastanza importante fino a questo te lo devi ricordare assolutamente.

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Non lo consiglierei mai come lettura da spiaggia, che è poi la situazione in cui l’ho terminato io.
 Non è stato per nulla facile da gestire, né mentalmente (con quaranta gradi all’ombra avrei forse fatto meglio a comprarmi Cosmopolitan) né fisicamente (i quaranta gradi di cui sopra mi hanno letteralmente sciolto la matita in mano, e metà libro è irrimediabilmente macchiata di verde).

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Complex TV è sicuramente scritto bene e ha un linguaggio piuttosto comprensibile, ma l’argomento è talmente geek che non saprei in quale altro contesto stia bene se non un’aula universitaria.

L’autore non analizza cosa dicono le serie tv, il contesto sociale e politico in cui vengono trasmesse e le relative ricadute, quanto il come lo fanno (appunto, le tecniche di storytelling) a partire dall’analisi dei pilot per arrivare ai finali di stagione, passando per l’importanza degli autori, la costruzione dei personaggi, il rapporto dei fan con le serie (le fandom che tanto mi piacciono) e delle serie con i fan (compreso l’uso di Easter egg e sorprese narrative dedicate ai più attenti).
Grazie a questa lettura ho scoperto, ad esempio, che esiste una categoria di fan che lui definisce “i fan dello spoiler” e che preferisce scoprire a priori quello che succederà per potersi concentrare meglio sulle soluzioni tecniche adottate dagli autori a livello narrativo.

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Un limite che ho trovato in questo volume è la scarsità di esempi, in termini di numero di serie tv di cui l’autore parla in maniera approfondita (ma di questo non fa mistero e anzi lo dichiara fin da subito: lui parla solo di serie che ha visto).
Mittell ha come punto di riferimento principale Lost, di cui fa esempi molto accurati per capitoli interi, parla abbastanza anche di Breaking Bad e di Veronica Mars (di cui descrive il pilot con una precisione estenuante), 24, Alias, i Sopranos e The Wire. Cita di sfuggita anche Mad Men ma solo per parlarne male.

Il fatto che non ne abbia vista praticamente nessuna tranne BB e Mad Men mi ha reso la lettura in molti punti noiosa e faticosa, e a un certo punto ho iniziato a saltare le parti dedicate esclusivamente a Lost, che non riuscivo più a reggere.

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Il capitolo migliore è quello dedicato ai personaggi, e in particolare il paragrafo “Lunghe interazioni con uomini schifosi: gli antieroi delle serie tv”, con la lunga descrizione del personaggio di Walter White, che inizia così (spoiler per chi non ha visto Breaking Bad):
“… la serie comincia con Walt che è un tonto qualsiasi, un insegnante di chimica del liceo, chiaramente allineato al pubblico e meritevole di attaccamento; nella stagione finale, invece, Walt è un delinquente incallito, ha ucciso i suoi rivali, avvelenato un bambino innocente, per portare a termine un piano rischioso ed egoista, e manipolato le persone che sostiene di amare. Come si è arrivati a questa incredibile trasformazione morale?
(Mittel, 2017, pagina 257).

La sua analisi è molto avvincente nel raccontarci perché il personaggio di Cranston sia così convincente e perché rimaniamo allineati a Walter White anche se di stagione in stagione diventa sempre più esecrabile.

A me questa lettura è servita in parte a dare un nome specifico ad alcuni dettagli della narrazione che a furia di guardare le serie tv avevo già iniziato a notare, a migliorare il mio sguardo critico quando ne affronto una nuova, a comprenderne meglio le tecniche e le intenzioni degli autori e degli showrunner.
Ma se voi non siete dei fissati a questi livelli, ecco, non compratelo. Magari ve lo presto e leggete solo le parti sottolineate.

I miei dieci anni di magia

Il 26 giugno 1997 è uscito per la prima volta in Inghilterra il primo libro di una saga che avrebbe modificato per sempre l’immaginario e le fantasie di milioni di persone.

Hermione

Il mio primo ricordo di Harry Potter risale alle lunghe mattine al liceo, e al mio compagno di classe appassionato di Tolkien, che disegnava a mano e a memoria cartine geografiche di tutto il mondo.
A un certo punto aveva iniziato a leggere durante le ore di lezione, tenendo un libro sotto il banco che, da quello che avevo capito, era un altro fantasy. Ci diceva, con gli occhi rossi pieni di sonno e un entusiasmo febbrile, che passava le notti sveglio fino a tarda notte a leggere come un disperato.
Quel libro, ho scoperto anni dopo, era Harry Potter e la Pietra Filosofale, ma per me all’epoca non significava ancora nulla.

Albus Silente

La smania per i maghi di Hogwarts aveva iniziato a diffondersi tra i miei amici più inquieti, quelli che sognavano di essere altrove, fuggire in luoghi fantastici dove avrebbero potuto diventare chi volevano, quelli che non avevano ancora trovato una loro identità precisa.

Io, ingenuamente, pensavo di essere una persona completa, immune dai turbamenti adolescenziali e già troppo grande per leggere dei libri da bambini.

Piton, Ron, Harry

Il secondo ricordo che ho di Harry Potter sono io che, finalmente convinta a leggerne almeno uno, costringo la mia amica dell’epoca a uscire dal cinema a metà proiezione perché non avevo ancora finito il libro e non volevo sapere come andava a finire. Era appena uscito in Italia il film tratto proprio da “Harry Potter e la Pietra Filosofale”.

Ron Weasley

Il terzo ricordo è il librario della mia città che commenta con l’ennesima mamma che acquista i volumi della saga che quei libri lì non li ha neanche aperti, perché secondo lui non c’è da fidarsi di una che scrive tutto al computer e non a penna.

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Il quarto ricordo è quello di un gruppo di amici volati a Londra appositamente per l’uscita dell’ultimo libro, che passano tutta la notte in coda davanti a una libreria per comprarlo in anteprima, e che poi lo finiscono in tempo di record, senza poter raccontare niente a tutti gli altri che aspettavano l’edizione in italiano.

Questo è quello che c’è stato prima. Poi è scoppiato l’amore.

Harry Potter

La folgorazione è arrivata quando ero già all’università e durante un’estate pigra ho deciso di riprendere in mano i pochi volumi che avevo acquistato, leggiucchiato e abbandonato nel corso degli anni.

Lì, ecco l’inaspettato, l’illuminazione, l’epifania, nella calura insopportabile dell’estate bolognese.
In quei mesi li ho letti tutti e sette d’un fiato, uno dietro l’altro, dimenticandomi degli esami da preparare, del caldo, di tutto.

Quidditch

A quella lettura bulimica ne sono seguite tante altre, a un certo punti sono arrivati anche i film, visti a casa, in differita rispetto alle uscite al cinema, anche quelli d’estate, anche quelli consumati fino a saperli a memoria.

Harry Potter lo amo perché mi ha insegnato molto.

Mi ha insegnato che essere diversi è una cosa di cui andare fieri e non una debolezza.

Hagrid

Che insieme è molto meglio che da soli.

Harry Potter and Hermione

Che bisogna fidarsi, e affidarsi a qualcuno di più esperto e saggio di te che potrebbe darti il consiglio giusto. Che bisogna imparare a farne tesoro e a riutilizzare quel consiglio secondo il tuo modo di essere.

Albus Silente

Che la creatività e la curiosità sono il motore di tutto.

Mappa del Malandrino

Che le paure si devono affrontare di petto e ognuno ha dentro di sé la forza necessaria a sconfiggerle. Che il coraggio è il fedele compagno della creatività e della curiosità.

Neville Paciock

Che anche il più insospettabile ha dentro di sé qualcosa di speciale e non bisogna mai giudicare nessuno al primo sguardo.

Severus Piton

Che rifugiarsi nelle proprie fantasie e nei propri sogni non è una cosa da bambini, ma è la forza che spinge ai grandi cambiamenti e alle grandi azioni.

Albus Silente, Severus Piton

Che la magia esiste, e ce n’è un po’ in ognuno di noi.

Harry Potter boccino Quidditch
Per queste e per altre decine di motivi continuo a rileggere i libri di Harry Potter, che mi accompagnano in ogni spostamento e sono sempre i primi ad essere imballati durante i traslochi. Quindi, all’inizio di questa nuova estate, faccio gli auguri un po’ anche a me e ai miei dieci anni d’amore.

La più odiata

Negli ultimi mesi alcune coincidenze mi hanno permesso di tornare a leggere ai ritmi che avevo quando ancora non lavoravo. Un sogno.

Prima il viaggio a Vilnius in cui mi sono persa nelle pagine di L’arte di essere fragili di Alessandro D’Avenia, poi le due settimane a casa in malattia in cui, tra le altre cose, mi sono regalata le poesie di Rupi Kaur.

Nell’ultimo viaggio a Londra, aiutata anche dai continui spostamenti in metropolitana, ho divorato La più amata di Teresa Ciabatti.

Non mi era mai capitato di sviluppare una passione per un autore prima ancora di leggerne un riga, ma lei è decisamente un personaggio a sé e quando per caso mi sono imbattuta in questa intervista, è scattato un colpo di fulmine immediato.

Le aspettative non sono state deluse: la Ciabatti sa scrivere, e anche parecchio bene.

La storia è la sua (lei stessa dice di aver sputtanato tutta la sua famiglia9, la protagonista è lei, la piccola Teresa, e il suo mondo ruota intorno alla figura imponente del padre, Lorenzo, detto il Professore, primario di chirurgia all’ospedale di Orbetello, potente e pieno di segreti.
La bambina, piccolo satellite impazzito che gli gira intorno alla continua ricerca di una carezza, una parola di tenerezza o una conferma (papà, ma io assomiglio a Marilyn Monroe?), mette in ombra tutti.

Il libro è diviso in tre capitoli, ognuno dedicato a un membro della famiglia (fratello escluso) e la Ciabatti riesce a descriverne i comportamenti e i pensieri con un tratto così scorrevole e chiaro che a un certo punto ti sembra di conoscerli (e li detesti a ogni pagina di più).

Sì, perché questa è la caratteristica dei due personaggi principali, padre e figlia: sono odiosi, insopportabili, incontenibili.

L’una, bambina vanitosa e viziatissima e poi adolescente megalomane che finge una volta a settimana il suicidio per ottenere quello che vuole, è abituata a parlare e a guadagnarsi le amicizie attraverso il linguaggio dei soldi (la dicotomia principale della sua giovinezza è tra i ricchi e i poveri).

L’altro, figura misteriosa e del tutto anaffettiva con i membri della sua famiglia, è un uomo di potere che tutti rispettano perché ha sempre aiutato chi ne aveva bisogno, ma soprattutto perché circondato da politici ed eminenze. 
Un massone, un bugiardo, un simpatizzante fascista ma senza dare troppo nell’occhio: in una parola, un mostro.

Queste due figure così scomode e prevaricatrici riescono a mettere in ombra quelli che sono (o almeno sembrano) i “buoni” della storia, prima di tutti la madre, Francesca, ex anestesista mandata da Roma a lavorare a Orbetello, l’unica che riesce a ingabbiare il Professore, e che negli anni si trasforma da donna indipendente e anticonformista (siamo nella provincia degli Anni Sessanta dove anche un paio di jeans ti fanno additare come strega e comunista) a signora opaca e succube, vittima sacrificale di un marito molto più che ingombrante.

All’apice del crollo c’è l’imposizione alla donna di una cura del sonno, che la porta a dormire per un anno intero (seguita dai migliori esperti in Italia, perché si sa, il Professore può tutto), terapia che avrebbe dovuto curarne la depressione, ma che la porterà invece solo a nuove angosce (sarà successo l’anno del sonno? È dentro a quel buco nero che è precipitato tutto?), con tradimenti dolorosissimi anche con chi le deve, letteralmente, la vita.

Insomma, leggendo La più amata ti trovi per forza di cose a schierarti: per Francesca, per gli infermieri e i medici che come cagnolini ammaestrati vengono sfruttati dal Professore come facchini, operai, autisti, e per il piccolo Gianni, il fratello gemello, che si intravede di sfuggita in qualche pagina e che ti dimentichi che esista per quasi tutto il libro.

Ma poi va a finire che a Teresa vuoi bene, forse la comprendi anche un po’.

La scrittura dell’autrice è irresistibile e le peripezie della famiglia Ciabatti si seguono con voracità di pagina in pagina, quasi come quelle della peggior famiglia di una serie tv (sì, l’ho pensato, e spererei che qualcuno la facesse, c’è già tutto perché funzioni, basta che Stefano Accorsi non lo scopra mai).

Il valore della poesia

Ho sempre fatto fatica ad apprezzare la poesia, soprattutto se ha troppi livelli di significato, se non mi dà risposte immediate e mi costringe a sforzarmi di capirla (sì, lo ammetto, con la poesia sono un po’ pigra).

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Per questo non ne leggo molta, e gli unici libri che ho, in mezzo a una marea di romanzi, sono quelli di Emily Dickinson, che amo proprio per la brevità, la limpidezza e perché racconta l’animo umano e i suoi struggimenti attraverso delle immagini molto semplici e comprensibili: un’ape, un uccellino, il mare, un’alba.

E forse proprio per la comprensibilità della sua scrittura poetica, Rupi Kaur mi è piaciuta subito. Le sue poesie, spesso molto simili a degli haiku, sono delle vere stilettate che vanno dritto al cuore, senza troppi giri di parole.

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Ho comprato d’istinto la sua prima raccolta, Milk and Honey, dopo aver letto la sua storia.

È nata nel Punjab, in India ed è cresciuta in Canada.
Ha 24 anni, è una vera millennial e non per niente la sua attività (e notorietà) passa attraverso Instagram, e lei stessa viene definita una “Instapoet”. Le sue poesie sono perfette per il formato del social network: pochissime parole, spesso accompagnate da suoi disegni, che sembrano quasi degli schizzi, qualcosa in procinto di sbocciare.

Ha iniziato a scrivere rivolgendosi solamente alle ragazze indiane della sua comunità, pensando che solamente loro potessero capirla, ma a un certo punto si è resa conto che il suo era un messaggio universale e comprensibile per tutte le donne, di qualsiasi etnia e a qualsiasi latitudine vivessero.

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La giovane poetessa era già diventata famosa suo malgrado un paio di anni fa, per aver visto rimuovere da Instagram una sua immagine inserita all’interno del progetto fotografico Period, in cui la si vedeva stesa a letto con i pantaloni macchiati di sangue mestruale. Il lavoro era un tentativo di estirpare quello che è ancora per molti un tabù e una cosa sporca.

The hurting, the loving, the breaking, the healing: queste le quattro sezioni della sua prima raccolta di poesie, quattro fasi, quattro momenti della vita ma anche quattro pezzi dell’animo umano.

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La relazione, con gli uomini, le altre donne, con il padre, la madre, è al centro di tutto, ed è fonte, in parti uguali, di gioia e dolore.
In tutti i rapporti il confine tra amore e attaccamento è spesso molto labile, come quello tra volontà e costrizione.
La Kaur racconta di relazioni che possono togliere tutto e lasciarti completamente indifeso, ma anche di altri che portano a una fusione di due anime è talmente perfetta da non aver bisogno di troppe parole o spiegazioni.

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La parte più importante del suo lavoro è quella in cui parla di vere e proprie violenze e abusi sul corpo delle donne (lei stessa ne ha subiti quand’era ancora bambina), grazie ai quali, racconta lei stessa, viene continuamente contattata da ragazze che hanno subito forme di violenza e riescono a trovare il coraggio di far sentire la propria voce e di trovare conforto e rassicurazione nelle sue parole.

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Per questo penso che valga la pena leggerla, perché le sue sono parole piene di speranza ma anche di forza, la poesia diventa potente come un’arma, e a prescindere dalla storia personale di ognuna, ci si riconoscere molto facilmente in quello che scrive.

Vi lascio con un’intervista fatta dal portale Freeda quando Rupi Kaur è venuta in Italia per il tour di presentazione del libro.

Potete acquistare Milk and honey di Rupi Kaur su Amazon.

Immagini tratte dal sito di Rupi Kaur.

L’arte di essere fragili

C’era un periodo in cui tra i compiti di italiano assegnati per le vacanze c’era anche la lettura di qualche libro, alcuni obbligatori, altri a scelta.
Nell’estate tra la quarta e la quinta ginnasio, in ansia per chissà cosa dovessi dimostrare e a chi, avevo preso in mano Madame Bovary.
Mi annoiava da morire e l’ho abbandonato a metà, sentendomi frustrata e anche un po’ scema.

Ecco, leggendo L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita, l’ultimo libro di Alessandro D’Avenia, ho pensato che se all’epoca avessi avuto lui come insegnante, non mi sarei mai sentita in colpa per non riuscire a leggere Madame Bovary a quattordici anni. Anzi, forse non lo avrei neanche scelto come libro per l’estate.

Mentre avevo in mano quel volume in cui ci spiega come Leopardi può salvarci la vita (sì, proprio quel Leopardi che a scuola hanno liquidato velocemente e con poco interesse come un gobbo triste che contagiava tutto l’universo con il suo pessimismo) mi sono sentita improvvisamente di nuovo una quindicenne.

Anzi, no, mi sono ricordata com’ero all’epoca, ho capito che la giovinezza è un lontano ricordo, il pensiero mi ha tutto sommato consolata, e mi sono chiesta se adesso sarei una persona diversa se avessi incontrato prima le parole di D’Avenia.
Il suo saggio, infatti, scoperto in età adulta, mi è piaciuto soprattutto per il suo rileggere Leopardi in un’ottica completamente nuova, quella di un poeta dell’energia, della lotta, della speranza, del rapimento, dell’amicizia, della bellezza e dell’ispirazione.
Ma credo che sulla me adolescente avrebbe fatto colpo in maniera ancora più profonda.

Il saggio di questo scrittore e insegnante quarantenne mi ha stupita parecchio proprio per come descrive il rapporto che ha con i suoi studenti e le reazioni che le sue parole suscitano in loro. Non solo perché li porta ad amare la letteratura, che sarebbe di per sé già un traguardo, ma anche perché riesce spesso a far sbocciare in loro delle vere e proprie gemme che fanno fiorire dei cambiamenti importanti nelle loro vite.

Ci racconta infatti che molti ragazzi gli scrivono anche solo dopo aver letto i suoi libri, anche in situazioni di profondo e, in alcuni casi, estremo dolore.
Nelle sue pagine troviamo, tra le altre, una lettera di una ragazza autolesionista, un’altra con una malattia congenita al cuore che non sa ancora per quanto sopravviverà, una ragazza ricoverata in ospedale per una grave forma di anoressia che gli scrive poco prima di morire.
Una delle storie più commoventi è quella di una ragazza che meditava il suicidio, e che gli racconta che fino a quel momento aveva trovato come unico conforto la lettura proprio di Leopardi.

Da tutte queste storie nasce spontanea una domanda.
La letteratura ha davvero (ancora) il potere di guarire un animo tormentato
come quello di un adolescente? Può davvero aprire una breccia dentro quella terra di mezzo che nessuno sembra capire e che oggi è anche (sì, lo dirò come una qualsiasi colonnina destra di Repubblica) complicata dall’accesso continuo e costante a internet?
Sembrerebbe di sì, o per lo meno, questo è quello che ci dice questo autore cresciuto con la spinta verso l’infinito.
Sono convinta che sui ragazzi abbia molta influenza lui stesso come persona e che molti studenti siano stati ispirati dall’averlo conosciuto dal vivo, ma lui ci parla appunto di ragazzi che gli scrivono per ringraziarlo perché ha realmente e concretamente cambiato loro la vita, soltanto attraverso i suoi libri.
Qualcuno riesce a parlare ai genitori dei suoi disagi profondi per la prima volta nella sua vita, una ragazza inizia a donare il sangue, qualcuno a dedicarsi agli altri attraverso il volontariato.
Insomma, non stiamo parlando di cose piccole, ma di grandi atti d’amore nei confronti di se stessi e del prossimo. E dici poco.

La gioventù raccontata da questo autore è, in fondo, non molto lontana da quella che si riflette negli occhi di Hannah Baker, solo che in questo fortunato caso ha un confronto con un insegnante, con un adulto, che non tratta gli adolescenti come una categoria fissa, immutabile e senza distinzioni. Non li vede come un esercito di automi attaccati al telefono, sempre in conflitto con gli adulti e incomprensibili. No, parla a loro, ed è questa la grande differenza, come delle persone, li comprende nel senso vero e più ampio del termine, e non li giudica mai.

Ed è qui che allora, all’improvviso, intere classi di studenti iniziano a fidarsi, si appassionano, capiscono l’importanza di quello che viene chiesto loro e cosa possono dare in cambio. E anche che esiste una soluzione ai loro tormenti, non perché semplicemente “passerà”, ma perché c’è davvero un modo per cambiare la prospettiva sulle cose, lo sguardo sul mondo e su se stessi.

A un certo punto del libro l’autore dice:
Sogno una scuola, Giacomo, che si occupi della felicità degli individui; e non intendo un luogo di ricreazione e di complicità tra docenti e alunni, ma uno spazio in cui ognuno trovi dono che ha da fare al mondo e cominci a lottare per realizzarlo, in cui ciascuno trovi un’ispirazione che abbia la forza di una passione profonda, che gli dia energia per nutrirsi di ogni ostacolo. Sogno una scuola di rapimenti, una scuola come bottega di vocazioni da coltivare, mettere alla prova e riparare. (…)
Sono le cose inutili, come i sogni, come la letteratura, che dobbiamo salvare, soprattutto a scuola. (…)
Sogno una scuola in cui la letteratura valga più della storia della letteratura, leggere più di dover leggere, la parola più del programma.

Insomma, credo proprio che se avessi avuto lui come professore di italiano al liceo, o se, semplicemente, avesse pubblicato il suo primo libro qualche anno prima, tante cose vissute in quegli anni e anche in quelli successivi sarebbero decisamente state diverse.

*Alessandro D’Avenia, “L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita” Mondadori, 2016, pagine 187-188

Quando il cinema si appende alla parete

C’è chi i film li fa, chi i film li vede, e chi li comunica. Le locandine sono un mezzo che, se un tempo veniva curato come un’opera d’arte e adorato quasi quanto il film stesso, negli ultimi anni spesso viene trascurato.

In questo vuoto che si è creato capita che si infilino graphic designer e illustratori appassionati, che si divertono a rimaneggiare e a ricreare i poster dei loro film preferiti secondo il loro stile.

Un progetto recente in questa direzione è A Movie Poster a day del designer Pete Majarich, che ha sfidato se stesso lo scorso anno e ha ricreato 365 locandine alternative di film famosi, utilizzando un stile minimalista, a volte giocando solo con i font e altre con un unico elemento simbolico del film scelto.

Qui potete vedere il video riassuntivo di tutti i poster realizzati, ma se volete guardarveli con più calma, qui c’è il suo Tumbrl.


Alternative movie posters – Film art from the Underground
è, invece, un progetto di Matthew Chojnacki, scrittore e giornalista che non sopportava più di vedere come film di valore venissero rappresentati da locandine fredde e impersonali, in cui, il più delle volte, venivano solo rappresentati i volti patinati degli attori protagonisti.

Ha deciso allora di chiamare a raccolta cento graphic designer provenienti da tutto il mondo, che hanno reinterpretato, con tecniche diverse, la storia del cinema, realizzando delle locandine molto diverse l’una dall’altra. Da qui è nato un librone del 2013 con tutte le opere realizzate, a cui ha fatto seguito, tre anni dopo, il volume II, dedicato alle artiste femminili. Qui e qui li potete acquistare su Amazon.

 

Cinestesie è, invece, l’idea del regista e sceneggiatore Maurizio Temporin che ha giocato a mischiare registi e film e ad immaginare che cosa sarebbe successo se la stessa storia fosse stata raccontata da un altro.

Che film sarebbe stato The Shining se l’avesse girato Woody Allen, e Wes Anderson come avrebbe interpretato Non aprite quella porta, o Fellini Jurassic Park, o ancora, Hitchcock Mary Poppins?

Il progetto apre a numerose riflessioni sulla storia del cinema e del costume, su come la sensibilità di un unico regista ha saputo creare dei cult che, in mano a qualcun altro, non avrebbero portato alle stesse conseguenze sul costume e sui gusti del pubblico e, a cascata, su tanti altri film girati successivamente e che senza quei cult non sarebbero mai stati realizzati.

Un altro sforzo di immaginazione, sempre sull’onda del What If? e per certi versi simile a quello precedente, è stato fatto da Peter Stults, illustratore americano che in questo caso si è chiesto come sarebbero stati alcuni film moderni se fossero stati girati in un’altra epoca. Chi li avrebbe girati e quali attori avrebbe scelto?
Anche qui, curiosamente, The Shining viene girato da Woody Allen. I suoi poster sono particolarmente belli e li potete vedere qui.

Infine, un test per veri appassionati e nerd del cinema: le locandine “svuotate” di Madani Bendjellaj, direttore artistico francese che si è divertito a togliere tutti gli elementi principali, i personaggi e i titoli e lasciare solo parte dell’ambientazione.
Quante riuscite a riconoscerne di queste?


Qui trovate le risposte e tutte le altre locandine svuotate.
Se alcuni paesaggi si possono facilmente confondere, altri elementi sono talmente iconici che non servono didascalie per indovinare di che film si tratta, come una certa panchina su cui è impossibile non sappiate chi ci stava seduto.