Lost+Found

Casa dei Tre Oci è uno dei miei posti del cuore a Venezia. Non solo perché è un palazzo bellissimo in un luogo suggestivo (in Giudecca, praticamente di fronte a San Marco), ma anche perché è uno spazio espositivo che ospita mostre fotografiche molto particolari.

Lì lo scorso anno ho visto Helmut Newton e l’anno prima “Sguardo di donna, da Diane Arbus a Letizia Battaglia – La passione e il coraggio”, una rassegna di fotografe donne con gli allestimenti di Antonio Marras.

L’ultima è stata Lost + Found, dedicata a David LaChapelle.

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Rebirth of Venus, 2009, ©David LaChapelle


LaChapelle è un artista che mi porto dietro da diverso tempo, non mi ricordo nemmeno come l’ho conosciuto ma mi ha colpito da subito il suo modo di ritrarre i divi di Hollywood in uno stile assolutamente personale e riconoscibile, dai colori saturi, eccessivi e stravaganti, un fotografo surreale e dissacrante come non ne avevo mai visti.

È un regista e fotografo statunitense che ha lavorato molto nella moda e nella pubblicità, e il cui primo lavoro, negli Anni Ottanta, gli fu commissionato da Andy Warhol per la rivista Interview.

Negli anni ha fotografato tantissime superstar (tutti volevano essere ritratti da lui), come Michael Jackson (che con The Beatification è esposto alla mostra), Lady Gaga, Naomi Campbell, la famiglia Kardashian (di cui ha realizzato una foto delirante per il biglietto di auguri di Natale di qualche anno fa, anche questa esposta ai Tre Oci), Drew Barrymore, Madonna, Tupac… ma potrei andare avanti all’infinito.

È anche regista di diversi video musicali, tra cui alcuni di Amy Winehouse, Jennifer Lopez, Elton John, Christina Auguilera.

Questa meraviglia ve la ricordate? È sua.

Grazie a un potente mix di sacro e profano racconta, con il suo stile eccessivo e pop, la società dei consumi, la mercificazione del corpo, l’ansia di apparire, l’esposizione mediatica senza tregua dei divi, ma anche la sessualità, la religione, la fede, le cadute e le rinascite.

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The Beatification, 2009, ©David LaChapelle


Ai Tre Oci sono esposte diverse serie fotografiche, opere oniriche e ricchissime di dettagli (a volte davvero gigantesche), tra cui Paradise Lost, The Deluge e After the Deluge (il progetto nato dopo aver visto la Cappella Sistina e i dipinti di Michelangelo) e New World, l’ultimo lavoro dell’artista qui presentato in anteprima mondiale.
Queste ultime fotografie sono state scattate nella foresta pluviale delle Hawaii che descrivono un Paradiso abitato da personaggi colorati, in pace tra loro e in perfetta armonia con la natura.

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News of Joy, 2017 ©David LaChapelle


Una delle mie fotografie preferite è sempre stata questa, Pietà with Courtney Love, che ho avuto la sorpresa di ritrovare ai Tre Oci e che ritrae la cantante in una rivisitazione della morte di  Kurt Cobain, con il corpo del marito tra le braccia come un moderno Gesù morto per overdose.

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Pietà with Courtney Love, 2006 ©David LaChapelle


 

Se vi piace il fucsia, non siete timidi o facilmente impressionabili, avete tempo fino al dieci settembre per visitare la mostra.

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Anche la follia merita i suoi applausi

Quest’anno, rispetto al solito, me la sono particolarmente goduta per quanto riguarda i miei giri dedicati all’arte e alle mostre. Negli ultimi mesi sono stata da: Ai Weiwei a Firenze, David Bowie is a Bologna, Into the Unknown a Londra (dove ho rivisto anche la Tate Modern e il Victoria and Albert Museum), la Biennale a Venezia (con in canna ancora Damien Hirst a Venezia che la varicella mi ha impedito di visitare).

L’ultima è stata una bella scoperta fatta grazie a Sgaialand Magazine e che ho visitato durante un giro sulla sponda bresciana del Lago di Garda, precisamente a Salò.
È il Museo della Follia, una mostra curata da Vittorio Sgarbi che sarà al MuSa fino al 19 novembre.

Devo ammettere che il nome di Sgarbi mi aveva inizialmente indisposta, ma solo per un pregiudizio dato dalla sua facciata pubblica e televisiva, che nulla c’entra con le sue reali capacità di curatore.

La mostra comunica fin da subito qual è il suo scopo: parlare della malattia mentale senza pregiudizio, ma semplicemente descrivendola, mostrando i volti e le opere di chi soffre di disturbi psichiatrici.

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Negli spazi dell’esposizione si alternano opere di artisti che hanno sofferto di disturbi psichiatrici che hanno influenzato in maniera più o meno evidente la loro produzione artistica: da Francis Bacon a Antonio Ligabue a Francisco Goya, tra quelli più conosciuti.
Ma non solo, ci sono oggetti, filmati e reportage fotografici di manicomi e ospedali psichiatrici.

Gli unici giudizi che è impossibile non dare sono quelli rivolti non tanto ai pazienti quanto ai loro aguzzini, in particolare in due momenti della mostra

Il primo è alla visione dell’inchiesta del Senato del 2011 sugli OPG (Dove vive l’uomo?), gli ospedali psichiatrici giudiziari italiani, in cui ci vengono raccontate, senza troppi filtri, le condizioni letteralmente disumane in cui vengono trattenuti i pazienti, che di fatto sono dei carcerati, rinchiusi fino a data da destinarsi.
Una storia di sofferenza e abbandono molto spesso sconosciuta, e che secondo me è una delle cose più importanti su cui soffermarsi in questa mostra.

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C’è poi la stanza de “I pazzi politici” in cui ci raccontano del trattamento riservato a chi veniva considerato un malato psichico dai regimi totalitari (che era solo un altro modo per imprigionare i nemici) e qui vedrete esposto, in anteprima mondiale, un dipinto di Adolf Hitler. Non è tanto quello che viene rappresentato che mi ha fatto rabbrividire (è una stanza marrone piuttosto brutta con due persone sedute) quanto il pensiero del suo autore, che in giovane età diceva che avrebbe voluto essere ricordato per il suo talento artistico.

Bellissima, invece, l’installazione La stanza della griglia, una parete composta da ritratti di pazienti psichiatrici ritrovati nelle cartelle cliniche di alcuni ex manicomi, che possono essere illuminate o spente con un tasto direttamente da chi visita la mostra.
Di fronte, una mummia dello sfortunato Bill Evans accasciata sopra a un pianoforte, come se il musicista fosse morto suonando. La scultura è di Cesare Inzerillo.

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Molte altre sono le opere e le storie che racconta il Museo della Follia e che valgono la pena di essere scoperte. Avrei la tentazione di raccontarvi quello che c’è in ogni stanza del percorso, ma penso che valga la pena scoprirla direttamente dal vivo, con il carico di emozioni, stupore e perplessità e le domande che vi porterete dietro una volta usciti.
Ve la consiglio perché, e qui cito una frase di Basaglia che campeggia su una parete della mostra, “in noi la follia esiste ed è presente come la ragione”.

 

Le foto, tranne quella di copertina che è mia, sono prese dal sito de Il Museo della Follia.

Il mio rapporto con l’arte contemporanea

Il mio amore per Venezia è nato relativamente tardi, e fino a pochi anni la snobbavo anche un po’.
Poi, come spesso mi accade, è scattato qualcosa ed ho iniziato a fare entrare piano piano Venezia nelle mie abitudini, a sentirne la mancanza, a organizzarmi per cercare di tornarci almeno un paio di volte l’anno.

A Venezia ci sono due delle mie cose preferite, la Biennale arte e il Festival del Cinema.

Dal Festival torno sempre con gli occhi a cuore, pensando a quando qualcuno si deciderà a farmi fare un film e finalmente sarò io quella che scende dalla barca per fare la passerella lungo il molo (ancora mi chiedo perché James Franco l’anno scorso non mi abbia portata via con lui).

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Con l’arte contemporanea, invece, ho un rapporto un po’ meno immediato: ci conosciamo, ormai ci frequentiamo da tanti anni, non parliamo esattamente la stessa lingua ma ci capiamo abbastanza bene. Per questo vado alla Biennale con entusiasmo, ma sempre con i piedi di piombo.

Quest’anno, mentre giravamo per i Padiglioni, è sorto l’eterno dilemma che affligge gli appassionati: “l’arte va spiegata o l’arte va solo vissuta?”.

A me di solito succede così: se un’opera mi piace al primo impatto e mi emoziona, non ho la necessità di leggere cosa significhi per l’artista perché  mi è sufficiente così.

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Se, invece, un’opera mi fa schifo, anche se mi spiegate che ha un altissimo significato sociopolitico, di protesta, di ribellione o che so io, continuerà facilmente a farmi schifo.

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Poi c’è una terza via, quella in cui l’opera che non mi colpisce il cuore ma la testa, perché è proprio il suo significato è immediatamente visibile e potente.

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Vi faccio qualche esempio preso proprio dall’ultima Biennale.

1. L’opera mi emoziona e non mi serve che me la spieghi.

– Il padiglione della Russia
(opere di Grisha Bruskin, Sasha Pirogova e il duo Recycle Group)
Il tema non è nuovo e la rappresentazione non è neanche troppo originale (qui si parla di lotta contro i regimi, dittatura e corruzione, e a un certo punto usano la metafora dei gironi danteschi).
Però, una volta entrati nella sala centrale, semibuia, ci si ritrova circondati da proiezioni inquietanti che illuminano delle sculture altrettanto spaventose, e una voce profonda parla in russo in maniera piuttosto angosciante (e che per la mia conoscenza della lingua può aver anche elencato gli ingredienti per la torta di mele).

La casa in cui piove dentro
(Vajiko Chachkhiani – Living dog among dead lions)

Nel padiglione della Georgia e dell’Armenia c’è una capanna di legno abbandonata in cui puoi sbirciare dalle finestre e vedere al suo interno una stanza completamente arredata in cui piove in continuazione.
L’odore del legno bagnato, l’effetto straniante di vedere piovere solo all’interno e non fuori, il pensiero di cosa sarà dell’opera alla fine della Biennale dopo tutta quell’acqua: queste cose mi sono bastate per apprezzarla.

 

Il cavallo gigante dell’Argentina
(Claudia Fontes, The horse problem)
C’è un cavallo bianco imbizzarrito, gigantesco, che si sta per scagliare contro una ragazza che tenta di difendersi, mentre un altro ragazzo è accovacciato a terra. Il cavallo è di sicuro simbolo di qualcosa, i due ragazzi anche, ma la scultura è talmente maestosa e imponente che ti lascia a bocca aperta anche se non ne conosci il significato.

cavallo         Proprio come lei.


– L’omino che con un solo gesto fa un gran casino

(Liliana Porter, El hombre con el hacha y otras situaciones breves)
C’è un omino piccolissimo con in mano un’ascia, e da lì parte una lunghissima e dettagliata catena di distruzione (di una stanza sola o del mondo intero?).

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– Un muro di gomitoli colorati
(Sheila Hicks, Escalade Beyond Chromatic Lands)
Una parete ricoperta di giganteschi gomitoli di lana colorata. Che altro dirvi, se non che mi ci sarei buttata sopra?
E, poi, lei non è adorabile?

 

– Il delirio nel padiglione della Corea
Qui non ho nulla da aggiungere.



2. L’opera che mi fa schifo anche se me la spieghi

Il padiglione ammuffito di Israele
(Gal Weinsten, Sun stand still)
Muffa, dappertutto, e poi fondi di caffè e paglietta metallica. Di quest’opera mi rimarrà solo il suo odore insostenibile.

israeleDa: Art a part of culture

I Cristi ammuffiti nel padiglione italiano
(Roberto Cuoghi, Imitazione di Cristo)
Altra muffa, altra puzza, un corridoio di plastica gonfiabile che sembra quello dei film horror in cui è scoppiata un’epidemia di un virus sconosciuto e tutti vanno messi in quarantena.
Critici impazziti per quest’opera che a me non è arrivata. Tranne al naso.

italiaDa: Artribune

La grata coi sassi nel padiglione brasiliano
(Cinthia Marcelle, Chão de caça)
Una grata per terra con qualche sasso incastrato e oggetti sparsi nelle varie stanze, tra cui dei tubi e una televisione. Anche qui, critici impazziti e io boh.

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Da: Artforum


3. L’opera in cui è il significato che conta

– Il Padiglione della Francia
(Xavier Veilhan, Studio Venezia)
Sono entrata e ho detto: adesso mi fermo qui.
Il padiglione è stato concepito come uno studio di registrazione completamente fatto di legno chiaro, con strumenti in ogni angolo.
Qui dentro, musicisti di tutto il mondo e di generi diversi comporranno musica durante tutta la durata della Biennale.
Il profumo di legno e la luce morbida di questo Padiglione mi hanno fatto subito dimenticare la muffa di prima.

Il Padiglione della Tunisia
(The absence of paths)
Qui ci siamo messi in coda per fare il nostro Universal Travel Document dell’immaginaria Repubblica di Freesa. Quando l’abbiamo firmato, gli addetti ci ha chiesto di indicare come zona di provenienza un punto a nostra scelta in una cartina geografica in cui i continenti sono tutti uniti, senza confini.
L’opera è dedicata ai rifugiati, i migranti, ai richiedenti asilo, a chi si sposta nel mondo contro la sua volontà per cercare un futuro migliore.

passaporto 2.jpgIl mio nuovo passaporto.

 

Altri video o foto delle opere della Biennale le trovate nel mio profilo Instagram.
E se ci siete stati o ci andrete, sono curiosa di sentire anche le vostre opinioni.

 

Londra per sci-fi geek

Londra è bellissima, sempre, e ogni volta che ci torno è come se visitassi una città diversa.

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Di lei amo tante cose.
La metropolitana perché è semplice, pacata e familiare: scendi a una qualsiasi fermata e hai la città ai tuoi piedi.
I suoi mezzi di trasporto, perché non mi passerà mai la sorpresa di vedere gli autobus a due piani e le persone che guidano a destra.
Gli infiniti ristoranti di tutte le etnie, anche quelle cucine che nemmeno sapevo facessero una categoria di cucina a sé.
Lo spirito British delle sue casette di mattoni con i cancelletti di ferro e delle sue cabine telefoniche rosse che resistono stoicamente.

Questa volta è stata la Londra dei musei e delle gallerie a rapirmi il cuore.
In 48 ore ho visitato la Tate Modern, il Victoria and Albert Museum e, soprattutto, la mostra Into the Unknown, a Journey through Science Fiction, al Barbican Center.

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Di questa esposizione avevo letto qualcosa già da un po’ e mi aveva attratto il fatto che ci sarebbe stata un’installazione ispirata a una puntata di Black Mirror, anche se non una delle mie preferite (Fifteen Million Merits).

Into the Unknown è dedicata, appunto, alla fantascienza, e a come l’uomo l’ha interpretata nella letteratura, il design, il cinema e l’arte attraverso i secoli, in relazione alla sua conoscenza del mondo, dell’universo e dell’uomo stesso.

La prima tappa del percorso (Extraordinary Voyages) è rappresentata dalla fantascienza à la Jules Vernes e i viaggi di Gulliver: lo sconosciuto e il fantastico si annidano negli angoli ancora inesplorati della Terra, negli abissi marini, arriva dal passato, e prende la forma di un dinosauro o un gigantesco cetaceo.

Successivamente l’uomo inizia a guardare in su e la paura si trasferisce sulla luna e nello spazio (Space Odysseys), e a tutte le spaventose conseguenze di un viaggio fin lassù, presagendo attacchi di alieni spaventosi e creature siderali.

Infine, in conseguenza alle scoperte della tecnologia, della genetica e della medicina, l’umanità inizia ad avere paura di sé stessa e la fantascienza si trasferisce nella società (Brave New Worlds) e dentro all’uomo stesso (Final Frontiers), che costruisce robot antropomorfi o modifica geneticamente il suo stesso corpo e mente, diventando supereroe e mostro, Iron Man e Frankenstein.

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Il percorso della mostra si snoda tra stampe bellissime dell’Ottocento, libri e fumetti, spezzoni di film di ogni epoca proiettati su grandi monitor che intervallano teche piene oggetti di scena originali, installazioni e videogiochi interattivi.

Un viaggio molto interessante e adatto a veri nerd del cinema di genere: io, orgogliosa rappresentante della categoria, mi sono emozionata davanti a elmetti originali degli Anni Settanta di Darth Vader e degli Stormtrooper, maschere e tute da astronauta usati nel primo Alien, in Star Trek e Interstellar, oggetti di scena di Existenz, Inception, sceneggiature originali di Kubrick.

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C’è anche un’installazione interattiva dedicata a The Martian, in cui è possibile ricostruire una scena del film da un centro di controllo in miniatura.

E quindi, vi chiederete, che ne è stato di Black Mirror?
La parte che aspettavo con più curiosità è stata quella che più mi ha deluso (tant’è che inzialmente ci sono passata davanti all’ingresso pensando fosse solo un’anticipazione della mostra).
Lungo tutto il corridoio di accesso al Barbican sono stati montati degli schermi che riproducono, alternandoli e duplicandoli, alcuni frame della puntata montati da dei videomaker, senza aggiungere nulla a quello che avevo già visto.

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Probabilmente sarebbe stato più significativo, claustrofobico e adeguato allo spirito della serie, se avessero ricreato parte del set della puntata, una stanza con le biciclette, da poter provare in prima persona.

Poco male: mettendo da parte questa piccola delusione, la mostra mi ha comunque affascinata e impressionata, quindi, se anche voi siete amanti del genere e avete in programma un viaggio a Londra, ritagliatevi un paio d’ore per vederla.

Into the Unknown: a journey through science fiction
Fino al 1 settembre 2017
Barbican Center
Silk Street, London.
www.barbican.org.uk

 

Nota a margine.

Ero a Londra sabato scorso, la sera dell’ultimo attentato, e mi ricorderò di questo viaggio anche per questo motivo, anche se in un altro quartiere e l’ho vissuto quasi come se fosse successo in un’altra città. Non ho avuto paura perché fortunatamente non ero lì.

Ma dopo questo episodio continuerò comunque a viaggiare e spostarmi con ancora più voglia di imparare e conoscere, perché penso sia l’unica risposta adeguata da dare contro queste tragedie.

Quando il cinema si appende alla parete

C’è chi i film li fa, chi i film li vede, e chi li comunica. Le locandine sono un mezzo che, se un tempo veniva curato come un’opera d’arte e adorato quasi quanto il film stesso, negli ultimi anni spesso viene trascurato.

In questo vuoto che si è creato capita che si infilino graphic designer e illustratori appassionati, che si divertono a rimaneggiare e a ricreare i poster dei loro film preferiti secondo il loro stile.

Un progetto recente in questa direzione è A Movie Poster a day del designer Pete Majarich, che ha sfidato se stesso lo scorso anno e ha ricreato 365 locandine alternative di film famosi, utilizzando un stile minimalista, a volte giocando solo con i font e altre con un unico elemento simbolico del film scelto.

Qui potete vedere il video riassuntivo di tutti i poster realizzati, ma se volete guardarveli con più calma, qui c’è il suo Tumbrl.


Alternative movie posters – Film art from the Underground
è, invece, un progetto di Matthew Chojnacki, scrittore e giornalista che non sopportava più di vedere come film di valore venissero rappresentati da locandine fredde e impersonali, in cui, il più delle volte, venivano solo rappresentati i volti patinati degli attori protagonisti.

Ha deciso allora di chiamare a raccolta cento graphic designer provenienti da tutto il mondo, che hanno reinterpretato, con tecniche diverse, la storia del cinema, realizzando delle locandine molto diverse l’una dall’altra. Da qui è nato un librone del 2013 con tutte le opere realizzate, a cui ha fatto seguito, tre anni dopo, il volume II, dedicato alle artiste femminili. Qui e qui li potete acquistare su Amazon.

 

Cinestesie è, invece, l’idea del regista e sceneggiatore Maurizio Temporin che ha giocato a mischiare registi e film e ad immaginare che cosa sarebbe successo se la stessa storia fosse stata raccontata da un altro.

Che film sarebbe stato The Shining se l’avesse girato Woody Allen, e Wes Anderson come avrebbe interpretato Non aprite quella porta, o Fellini Jurassic Park, o ancora, Hitchcock Mary Poppins?

Il progetto apre a numerose riflessioni sulla storia del cinema e del costume, su come la sensibilità di un unico regista ha saputo creare dei cult che, in mano a qualcun altro, non avrebbero portato alle stesse conseguenze sul costume e sui gusti del pubblico e, a cascata, su tanti altri film girati successivamente e che senza quei cult non sarebbero mai stati realizzati.

Un altro sforzo di immaginazione, sempre sull’onda del What If? e per certi versi simile a quello precedente, è stato fatto da Peter Stults, illustratore americano che in questo caso si è chiesto come sarebbero stati alcuni film moderni se fossero stati girati in un’altra epoca. Chi li avrebbe girati e quali attori avrebbe scelto?
Anche qui, curiosamente, The Shining viene girato da Woody Allen. I suoi poster sono particolarmente belli e li potete vedere qui.

Infine, un test per veri appassionati e nerd del cinema: le locandine “svuotate” di Madani Bendjellaj, direttore artistico francese che si è divertito a togliere tutti gli elementi principali, i personaggi e i titoli e lasciare solo parte dell’ambientazione.
Quante riuscite a riconoscerne di queste?


Qui trovate le risposte e tutte le altre locandine svuotate.
Se alcuni paesaggi si possono facilmente confondere, altri elementi sono talmente iconici che non servono didascalie per indovinare di che film si tratta, come una certa panchina su cui è impossibile non sappiate chi ci stava seduto.

 

Obrigada

Ho deciso di trovare uno spazio, qui in Al contrario, anche per raccontare i miei viaggi e posti del cuore.

Esattamente un anno fa ho passato un lungo weekend a Lisbona, che faceva parte del mio regalo di laurea per F. Ho scelto la capitale portoghese perché era un luogo che incuriosiva entrambi e che nessuno dei due aveva visitato.

Prima di partire mi aspettavo una città malinconica e indolente, come tutti la descrivono, e come mi era arrivato alle orecchie portato dalle note del fado.
Ma l’atmosfera che abbiamo respirato in quei quattro giorni è stata tutt’altro che malinconica. I portoghesi  sono persone allegre ed estremamente ospitali, dolci e piene di entusiasmo.

Un consiglio prima di partire: la vita a Lisbona non è per nulla cara, mentre i voli per arrivarci sì. Prenotate qualche mese prima, e se volete evitare i low cost scegliete Tap Portugal, la loro compagnia di bandiera.

Noi siamo stati ospiti di Fabi, conosciuta su Airbnb, che mette a disposizione un appartamento che è una vera e propria coccola, nello storico quartiere di PrÍncipe Real, a due passi dalla città vecchia.

Update: purtroppo Fabi deve aver tolto il suo appartamento da Airbnb perché non si trova più, ma sul sito c’è l’imbarazzo della scelta.

La prima cosa che abbiamo imparato in questo viaggio è che a Lisbona ci si perde, e se non vi succede almeno una volta durante il vostro soggiorno non potete dire di averla visitata per davvero.

Lisbona è la città ideale per non darsi una meta precisa, ma concedersi di girovagare. Ogni angolo, ogni stradina, ogni salita vi può riservare una sorpresa.
Qui, comunque, vi lascio qualche ricordo e consiglio a partire dal nostro viaggio.

Baixa e Rossio, i quartieri centrali della città.
La bella Praça do Comércio è l’equivalente di una Piazza San Marco o del Duomo di Milano: se andate a Lisbona non potete non passarci.
Da lì tirate tardi e fare una passeggiata al tramonto sulle rive del Tago, dove spesso si fermano gli artisti di strada. Trovate un bar per l’aperitivo che serva la ginjinha, il tipico liquore alle ciliegie di Lisbona.

In zona la nostra Lonely Planet ci suggeriva un ristorante chiamato Le Petit Bistro, che però abbiamo scoperto dopo un giro a vuoto che è stato sostituito dal Restaurante Isco, un piccolo locale che serve combinazioni diverse di tascas (l’equivalente portoghese delle tapas) soprattutto di pesce, in un ambiente arredato come il pontile di una nave. Si paga poco, si mangia bene, i ragazzi che lo gestiscono sono simpaticissimi: la nostra prima cena ci ha fatto subito innamorare della città, dei portoghesi e della cucina di Lisbona.

Il tram 28
Se pensate a Lisbona, non possono non venirvi in mente subito i suoi famosi tram gialli. Questa sgangherata linea è una delle cose più tipiche e romantiche da fare in città, inerpicandovi per le stradine strette del quartiere Rossio e arrivare nella zona di Alfama, Castello e Graca, forse la parte più suggestiva della città. 
Qui da non perdere ci sono il Miraduro di Santa Luzia, da cui si gode una vista spettacolare sui coloratissimi edifici del quartiere, il castello moresco di Sao Jorge e tutte le vie secondarie dell’Alfana (il posto perfetto dove perdersi).

Durante il nostro giro in questi quartieri siamo andati a caccia degli azulejos, le tipiche piastrelle di ceramica smaltate e colorate che ricoprono molti edifici in città.
Io, in particolare, aspettavo da mesi di venire a Lisbona per vedere finalmente il negozio dei Surrealejos, gli azulejos surreali di Luca Colapietro, ragazzo pugliese che si è inventato questo progetto e ha aperto qui un piccolo negozio un po’ defilato dove vende le sue meravigliose creazioni.

In questa zona abbiamo scovato anche un bel ristorante in un palazzo storico, il The Decadente, che serve cucina portoghese rivisitata, gestito da ragazzi giovani e amanti della birra artigianale. Un po’ hipster, in effetti, ma molto bello e non troppo caro.

Qui c’è anche uno dei locali più surreali in cui siamo incappati durante il viaggio, il Pavilhão Chines, al numero 89 di Rua Dom Pedro V. Un luogo fuori dal tempo, quasi liberty nell’arredamento, e caratterizzato da grandissime vetrine con dentro di tutto: oggetti completamente assurdi e kitsch come foste in un fumoso mercatino delle pulci, reperti che vanno dagli anni Venti agli anni Ottanta.

Bairro Alto

Cais do Sodré, ex quartiere a luci rosse della città, è stato ormai riconvertito, ma ha mantenuto uno spirito anticonformista e di marginalità.
La strada da vedere è Rua Nova do Carvalho, che riconoscerete subito perché è stata dipinta di rosa.
Qui ormai le prostitute non ci sono più, ma si alternano locali dove ascoltare musica dal vivo o dj set e dove bere un cocktail in un’atmosfera molto particolare.

Noi siamo stati al Pensão Amor, un’ex casa di tolleranza ora diventata un particolarissimo spazio artistico, in cui c’è anche una libreria di testi erotici e una boutique di vestiti vintage. I cocktail sono spaventosamente costosi, ma il locale è da vedere.

Anche il Bar da Velha Senhora, nello stesso palazzo, merita una visita: è un locale di burlesque che sembra fermo ai primi del Novecento, dove potete assistere a esibizioni di fado, cabaret e bere drink dai nomi a dir poco evocativi.

Sempre nel quartiere di Bairro Alto, c’è anche Pharmacia, il ristorante che è diventato uno dei nostri posti del cuore. Ci siamo passati per due sere di fila prima di trovare un tavolo, però ne è valsa la pena. 
È un locale assolutamente bizzarro arredato esattamente come un’antica farmacia (persino alcune portate sono servite in ampolle e provette d’epoca). Andateci non solo per la particolarità dell’arredamento, ma anche perché si mangia molto bene (anche se, l’avrete capito, mangiare male a Lisbona è praticamente impossibile).

Belém
Purtroppo il giorno in cui abbiamo deciso di visitare questo quartiere siamo stati sorpresi da una tempesta che ci ha notevolmente limitato gli spostamenti. 
Perciò del quartiere di Belém non vi posso raccontare di una bella passeggiata lungo il fiume o la sua magnifica torre, o ancora del fiabesco monastero, ma solo tre cose:

– Il Museu Coleção Berardo, quasi sconosciuto rispetto ai suoi cugini più famosi come la Tate Gallery, ma tappa immancabile per gli amanti della pop art, del surrealismo, di dadaismo e altri movimenti del secolo scorso, e che vanta opere datate fino al 2010: una collezione incredibile che contiene il meglio dell’arte moderna e contemporanea;

– l’antica Confeitaria de Belém, la pasticceria dove sono stati inventati i pastéis de nata, i dolci tipici di Lisbona, formati da un guscio di pasta sfoglia farcito con una crema cotta a base di panna e uova di cui mi sarei nutrita per tutta la vacanza. Si dice che questa pasticceria ne sforni 15mila al giorno;

– il Pão Pão Queijo Queijo, una specie di fast food artigianale con un menu fornitissimo, dove si mangiano insieme ai lisbonesi falafel, panini farciti di tutti i tipi, patatine fritte giganti.

A Lisbona ho lasciato un pezzo di cuore, e ci tornerei subito anche solo per tre cose che non abbiamo fatto: sentire un concerto di fado, andare al mare e visitare il palazzo di Sintra.

Per finire, vi lascio la mappa del nostro viaggio.