Freddie Mercury

Storia di un tatuaggio

Il mio primo amore sono stati i Beatles.

The Beatles

Dall’adolescenza in poi, li ho sempre avuti accanto, in sottofondo o come colonna sonora portante, li ho cercati per sentirmi a casa, per rassicurarmi, per tranquillizzarmi. Anche con le loro canzoni più dure, più graffiate, più lennoniane.
Ero così fedele che per anni non ho voluto ascoltare i Rolling Stones perché mi sembrava di tradirli.

Ho scalato tutti i gradini per conoscerli sempre meglio, dai primi, timidi passi con il Greatest Hits che avevo comprato da piccola, agli album veri, le registrazioni, i libri, i gadget, l’Anthology, i concerti di Paul McCartney in cui mi sono emozionata come mai nella vita, i concerti delle cover band e l’apice di tutto: il viaggio a Liverpool solo per vedere i luoghi dove sono cresciuti.

Questo viaggio che non tutti avrebbero accettato è stata la creatura mia e di un mio ex fidanzato.
Insieme siamo stati, prima e sopra molte altre cose, soprattutto dei fan.
Una volta mi disse: “se ci lasceremo, come farò con i Beatles?”.

Quando gli chiedevano se preferisse Lennon o McCartney, rispondeva, ridendo, che era come se gli chiedessero se preferiva la mamma o il papà.

Io invece da piccola dicevo sempre Paul, ma crescendo il mio cuore è diventato di George Harrison.

(E comunque lo so che lui preferisce Lennon).

Dopo i Beatles è arrivato David Bowie, uno che una bambina non può capire, uno che scrive testi difficili, che è stato centinaia di persone diverse.

Bowie's Thin White Duke

Mica come i Beatles, che si sono trasformati sempre in qualcosa di comprensibile: sono stati pettinati, spettinati, psichedelici, lisergici, barbuti, ma sempre, a loro modo, ordinati.

Bowie no, e la prima volta che l’ho guardato dritto negli occhi ho avuto un brivido.
David Bowie è uno che ti fa arrossire e abbassare lo sguardo.
David Bowie è sensuale, è erotico, una cosa che di certo i Beatles non sono mai stati.

David Bowie non ti dà certezze, ti riempie di dubbi. Torno da lui quando ho bisogno di pensare, di riflettere, di sentirmi male per poi sentirmi meglio.

Bowie è una parte di me che sta acquattata in un angolo e ogni tanto vorrebbe venire fuori, uscire dalle righe, sparigliare le carte, fare la rockstar, è quell’irrequietezza che ho sempre nella pancia da che ho memoria, che non so da dove venga ma si anima e si nutre di David Bowie.

Poi è successa una cosa, qualche anno fa.
È comparsa online la registrazione delle linee vocali di Under Pressure, la canzone che David Bowie ha registrato insieme ai Queen.

Freddie Mercury e David Bowie

I Queen li ho sempre ascoltati senza attenzione, con la punta dell’orecchio.
Conoscevo, come tutti, quelle loro canzoni incredibilmente famose, che mi sembravano anche assurdamente semplici.
Avevo un amico che li alternava tra i suoi preferiti ai Metallica, forse perché cantava e suonava la chitarra elettrica, e poi è omosessuale, e io da stupida pensavo che fosse per quello che era così fissato con Freddie Mercury.

Quando ho sentito per la prima volta la registrazione delle linee vocali di Under Pressure mi è sembrato che quei due si incastrassero alla perfezione.
C’è Bowie che prepara il terreno, inonda lo spazio con una voce che si insinua dappertutto e riempie ogni crepa fino quasi a farla esplodere.

È un trampolino dove la voce di Freddie Mercury si lancia; prima si prepara in un angolo, fa dei piccoli passi, bussa alla porta e poi, all’improvviso, spalanca le finestre, spicca il volo e strazia il cielo.

Poi ho scoperto che, nello studio in cui stavano provando, Freddie aveva teso l’orecchio a Bowie che cantava e lui, che non voleva essere secondo a nessuno, si era buttato in quelle note così alte a mo’ di sfida.

Ho deciso in quel momento che volevo capirlo davvero, questo Freddie Mercury che il mio amico tanto amava.
Volevo riascoltarle meglio, quelle canzoni dei Queen che per me erano stati solo dei ritornelli da canticchiare.

freddie-mercury

Ed è allora che è cambiato tutto. Per mesi li ho vivisezionati, ho ascoltato centinaia di volte quella voce che copriva quattro ottave, quella che non poteva stonare neanche se voleva, che mi squarciava il petto ogni volta fino a farmi commuovere.
Che mi faceva venire voglia non di ballare, ma di mangiarmi lo spazio intorno, di farmi crescere le ali, di essere una shooting star, leaping through the sky.

Ho preso una sbandata per gli assoli di chitarra di Brian May: sentivo gli strumenti con la stessa dignità e potenza delle parti vocali, quasi fossero loro stessi un’altra linea di voce.

Ho diviso tutti gli strati di cui erano composti. Ho sentito il glam rock, l’hard rock, il progressive, il pop, i sintetizzatori, la batteria elettrica, il blues, Elvis, gli Zeppelin e l’opera, ho pescato dove andavano a pescare loro per cercare di capirli.

Ho visto decine di registrazioni dei loro live e ho capito, finalmente, chi fossero i Queen.
Ho capito che Freddie Mercury era di un altro mondo, che se lo ami, lo puoi amare solo alla follia, e che è stato fondamentale non solo per le sue scelte sessuali, o perché è stato tra i primi a morire di AIDS, o perché aveva quella giacca gialla lì e faceva quella posa là. Era molto di più: lui era chi cavolo voleva, sempre.

Quando ho deciso di tatuarmi, la me adolescente ha detto subito: Beatles.
Pensavo di dover onorare il primo amore, quello che non si scorda mai, ma dentro di me si era insinuato un tarlo e quel tarlo erano i Queen.

Queen on stage

Sapevo che quando hanno registrato The show must go on Freddie era già malato, che quella canzone l’aveva scritta Brian May mentre vedeva l’amico appassire di giorno in giorno e che era un momento durissimo per tutti e due.
È un pezzo che tocca delle vette quasi oniriche, è tragico ma c’è la promessa dell’eternità.
È una lettera d’amore per un amico, e poi l’amico l’ha cantata come epitaffio della sua vita terrena.
E quando arriva il bridge riesco a immaginarlo, lui, che sul finale alza la testa verso il cielo, e disperde la voce nell’aria, pronto a farsi riprendere dagli altri:

My soul is painted like the wings of butterflies
Fairy tales of yesterday will grow but never die
I can fly my friends.

Eccola. Quella era la cosa che stavo cercando per me.
Ho scelto la parte centrale della strofa, dove stanno le fiabe che non muoiono, ma invecchiano insieme a me.

E così anche le persone che non ci sono più, gli anni che sono sfuggiti, i progetti che non hanno mai preso il volo, i ricordi nelle parole degli altri, le amicizie che sono sfumate negli anni e quelle che restano, i sogni irrealizzabili e quelli che sto realizzando, tutto quello che mi sono lasciata dietro le spalle, ma che mi ha resa la persona che sono adesso.

Ho tradito il primo amore con l’amore dell’età adulta, ma non credo che me ne vorranno male. 
Perché ci sono anche loro, ci sono tutti, dentro quella storia che ho deciso di portarmi addosso e di far invecchiare con me.

Perché voglio andare avanti, e anche quando il trucco si sfalda, tenere sempre addosso il sorriso.

 

Ah, se volete vederlo, il tatuaggio è qui.

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La fine dell'estate

Quest’estate deve finirla.

Quest’anno non sono andata esattamente in ferie.
I grossi cambiamenti, di vita e lavorativi, che mi hanno investita (sì, investita, proprio come una macchina in corsa), mi hanno fatto vivere l’estate come un lungo part time in cui un attimo prima sto lavorando e un attimo dopo mi ritrovo sul lettino a prendere il sole.
È un po’ sfiancante, ma temo di dovermici adattare.

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Nel frattempo, però, torno al Festival del Cinema di Venezia dopo averlo saltato per un anno (e aver rosicato parecchio), e per la prima volta sarò lì alla cerimonia di apertura.
E questo mi basta per arrivare col sorriso alla fine di questa lunghiiiiiiissima estate.

Per tutti voi per cui la parola “ferie” ha ancora un significato, forse questi sono gli ultimi giorni, forse siete appena rientrati, e giustamente siete un po’ tristi.
E io, che sono buona e altruista, vi consiglio un po’ di cose da vedere, ascoltare, leggere per scivolare di nuovo nella routine lavorativa.
Partiamo.

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LIBRI

Parlarne tra amici – Sally Roonei

Mi colpisce sempre molto quando ragazzi così giovani riescono a scrivere dei romanzi con una lucidità e una profondità che mi risulta strano associare a un ventenne (e anche a me, a dire il vero).
Questa storia è una lunga riflessione sulle relazioni che va a beneficio di tutti, a prescindere dal proprio orientamento sessuale ed età. E la Roonei ha una scrittura pienissima, vivida, che sembra quasi di essere lì con loro.

Divorare il cielo – Paolo Giordano

Dopo tanti anni di acquisti su Amazon (e profili di Instagram di book blogger), questo consiglio mi è arrivato da una libraia: È stata lei che mi ha detto che  i due protagonisti, Teresa e Bern, sono degli altri numeri primi, proprio come quelli del primo libro di Giordano, e che per chi è nato negli Anni Ottanta riesce a rivedere in quella storia (seppure assurda) la propria storia.
E in effetti è così.

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FILM

I, Tonya

Il film sulla pattinatrice Tonya Harding è entrato subito tra i miei film preferiti dell’anno. Ho iniziato a sentirne parlare molti mesi prima, e all’inizio non mi aveva convinta, poi, man mano che passavano i mesi, mi ha incuriosita sempre di più, finché ho visto il trailer, e la violenza dei dialoghi tra i protagonisti con Goodbye stranger in sottofondo mi ha dato il colpo di grazia.

Dogman

Volete leggere per l’ennesima volta di quanto commovente è stato il discorso di Marcello Fonte a Cannes? O quanto Edoardo Pesce sia un camaleonte e di come si è trasformato per diventare il tremendo Simoncino?
No, queste cose le sapete già tutti. Io vi dico solo che, se non avete mai visto un film di Garrone, è il caso che iniziate. Perché i film di Garrone sono la vita.

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SERIE TV

Atlanta

Io Donald Glover manco sapevo chi fosse. Poi è uscito il video di “This is America” e ho scoperto che ha uno pseudonimo come rapper e si fa chiamare Childish Gambino e spacca e fa parlare un sacco di sé.

Allora ho deciso di recuperare Atlanta, dove lui fa tutto: l’ha inventata, ci ha messo i soldi, e pure la faccia.
La trama è semplice: due cugini spiantati cercano di farsi strada nella scena musicale rap di Atlanta. È una commedia, è molto divertente, è scritta benissimo e Glover, beh, fatemi sapere com’è Glover.

The Handmaid’s Tale

Che dire, questa per me è LA serie, dell’anno, forse della vita.
È arrivata al momento giusto con l’argomento giusto, è tagliente, fredda, ti strappa le viscere e ti costringere a riflettere sul mondo in cui viviamo e sui suoi pericoli.
La seconda stagione non perde un colpo, e non cala per nulla di qualità rispetto alla prima.
Avevo già fatto qualche riflessione sul Racconto dell’Ancella versione televisiva, adesso attendo di leggere il libro della Atwood.

 

E, per concludere, una manciata di dischi a vostro uso e consumo che ho ascoltato tantissimo negli ultimi mesi.

Questi non ve li spiego, perché tanti manco sono di quest’anno, anzi, ce n’è uno che ha quasi trent’anni.

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Buona fine estate a tutti e ci rivediamo col fresco.

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Lenny Kravitz all'Arena di Verona

Di musica, energie, investimenti

La mia vita musicale è iniziata alla fine degli Anni novanta.
Ero alle scuole medie, ancora non avevo un gusto preciso ma mi facevo guidare da MTV, che mi provocava amori fatui per canzoni e band che sarebbero scomparse in un soffio (ma che se risento per caso conosco ancora a memoria).

Qualcuno però è rimasto, e il pensiero che sono vent’anni che ascolto gli stessi musicisti, lo ammetto, mi emoziona un po’.
Se poi riesco anche a chiudere il cerchio e a vedermeli dal vivo, beh, è la volta che mi commuovo.

Come quando lo scorso novembre sono stata al concerto dei Jamiroquai.

O poche settimane fa in cui mi sono tolta la soddisfazione di vedere lo show più spettacolare della mia vita:
la tappa milanese dell’OTR II tour di nientepopodimenoche Beyoncé e Jay-Z.



Oggi scrivo dopo aver visto un altro sempreverde della mia vita musicale, uno che è sempre rimasto in secondo piano rispetto ad altre band, ma che non mi ha mai abbandonata, dall’uscita di 5 e di quel video sexyssimo con Milla Jovovich che non capivo ancora quanta agitazione ormonale potesse provocare.



Ecco, ho visto dal vivo Lenny Kravitz all’Arena di Verona, e mi ha dato un’energia che a qualche giorno di distanza ancora non è scaricata a terra.

E la cosa ha provocato effetti a catena inaspettati.
Sono più felice, quindi ho lavorato con più convinzione, dormito meglio, sono più lucida.
Tutto solo per due ore di musica dal vivo? Esatto.

Proprio di questo parlavo il giorno dopo con un’amica, mentre cercavo con una matta su eBay il disco di quel 5 che tanto ho ascoltato in tutti i formati ma che temo non sia mai stato stampato su vinile: i soldi spesi in concerti sono un lusso che non mi leverei per nulla al mondo.

La musica dal vivo provoca una risalita di endorfine come nient’altro.
Per questo è un vero investimento in benessere (anzi, credo che qualche ricerca abbia confermato che riduce i livelli di stress… e chi non ha livelli di stress da ridurre?).

Perciò, fatevi un favore, alla prossima occasione, regalatevi il biglietto di un concerto.
Qualsiasi cosa vi piaccia, musica classica, heavy metal, pop (basta che se poi andate da Fedez e J-Ax non me lo venite a raccontare), e vedrete come vi svolta la giornata, la settimana, forse anche un po’ la vita.

Ah, poi se volete un consiglio, scegliete qualcuno che ci dà dentro di chitarra elettrica.
Perché credetemi, non c’è niente come una chitarra elettrica suonata come si deve.






La foto di copertina è presa dalla pagina Facebook di Lenny Kravitz.

Una vita sotto il palco.

Quest’anno mi sono tolta due grandi soddisfazioni musicali: prima il mio cuore ha palpitato per Ennio Morricone all’Arena di Verona, e qualche giorno fa ho soddisfatto la me adolescente con i Jamiroquai al Forum di Assago.

Dal concerto dell’altra sera ho avuto tanto di quello che mi aspettavo, ma anche qualcosa di più e qualcosa di meno. Ho avuto la serata di funky grintosissimo che mi aspettavo (praticamente come ascoltare il loro Greatest Hits), ho rivisto un pochino il ballerino dalle mosse inconfondibili, anche se bloccato e appesantito dall’età e dalle sfighe di salute che ha avuto negli ultimi mesi.
Ho amato il nuovo cappello-istrice luminoso (quello della copertina di Automation), la versione elettronica e moderna dei suoi inconfondibili copricapi di piume e cappelli vari con cui si è sempre coperto la testa.

Insomma, sono andata a dormire felice.

Ho conosciuto Jason Kay e i suoi quando ancora ero alle scuole medie, visti per la prima volta forse nel video di Deeper Underground, colonna sonora di Godzilla, che per gli anni Novanta era una cosa pazzesca e innovativa. Forse non ai livelli di Virtual Insanity, ma era questa roba qua e io all’epoca lo adoravo.

È passato qualche anno. Lui adesso ha una bambina, una discreta panza e forse ha davvero smesso di fare la rockstar viziosa. Io decisamente non vado più a scuola da un po’.

Il fatto che segua i Jamiroquai da quando ero così piccola, mi ha fatto venire voglia di misurare la mia vita in concerti, e ho provato a risalire al primo in assoluto.

Diciamo che ho iniziato presto e non ho mai smesso.
La musica che ho scelto di ascoltare dal vivo è cambiata insieme a me e alcuni live hanno segnato delle tappe importanti della mia vita.

9 luglio 1999, Viareggio: la data zero della mia vita di musica dal vivo. Per una ragazzina di 13 anni alla fine degli Anni Novanta quale poteva essere il battesimo?
Naturalmente, il tour dei Backstreet Boys. E come ogni fan che si rispetti, ho anche fatto l’appostamento sotto il loro hotel.
Sì, si sono anche affacciati dal balcone. No, non sono svenuta.

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Poi, i Lùnapop a Treviso nel 2000, con un Cesare Cremonini diciottenne (e quindi per me un vero adulto) al piano, i capelli fucsia e le bolle di sapone sparate su “Vorrei”.

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Da adolescente ho visto un sacco di volte i Subsonica, poi sono passata a Carmen Consoli, Cristina Donà e Caparezza, che ha fatto da colonna sonora ai primi anni dell’università.

Ma i live più importanti della mia vita adulta sono stati senza dubbio quelli di Paul McCartney, a Bologna e all’Arena di Verona nel 2011 e nel 2013. Non so neanche trovare le parole per descrivervi l’emozione. Lì sì, che il mio essere beatlemaniaca ha raggiunto il suo massimo.

Poi la grande scoperta di Jamie Lidell, uno che fino a un minuto prima di vederlo sul palco non avevo idea di chi fosse e che da quella sera del 2010 è diventato uno dei miei artisti di riferimento.

Un altro live da brividi è stato quello di John Grant, nel 2011, con la sua voce piena e commovente e una location incredibile.
Ero alla chiesa di Sant’Ambrogio, a Villanova di Castenaso, in provincia di Bologna. Il parroco del paese aveva contribuito a organizzare un mini festival, che mi ha permesso di conoscere un artista gigantesco.

Se poi devo decidere quale sia stato uno dei concerti più strani a cui ho assistito, direi quello di Soap&Skin, a Ferrara, nel 2012.
Era l’estate del terremoto in Emilia, e per questioni di sicurezza avevano spostato i live da Piazza Castello a Parco Massari. Lei matta completa, l’atmosfera onirica e surreale.

E poi quest’estate, Mac DeMarco, il mio primo concerto da sola.

Insomma, da quella sera di luglio del 1999 a Jamiroquai ne ho ascoltata, di musica dal vivo, ma dentro di me resto sempre la stessa ragazzina di 13 anni che continuerebbe a mettersi davanti all’hotel ad aspettare il musicista di turno. Per fortuna con un po’ di pudore in più.

 

 

 

 

 

 

 

Ennio Morricone nella vita reale

Ultimamente mi sono capitati due episodi in cui mi sono resa conto in maniera forse più esplicita del solito di come la colonna sonora riesca a costruire, o possa disfare completamente la scena di un film, se non un film intero.

Il primo è stato quando ho finalmente visto Manchester By The Sea ed io e la mia amica M. siamo rimaste piuttosto perplesse dalla musica scelta, che era talmente sbagliata da farsi notare, quando invece la colonna sonora giusta a volte non la percepisci nemmeno, talmente è parte della scena al pari degli attori e delle ambientazioni.

Il secondo, per contro, è stato il concerto di Ennio Morricone all’Arena di Verona, una serata che aspettavo da molto e che si è rivelata esattamente quello che ci si può immaginare da lui: pura magia.
Mentre mi immergevo nella sua musica, per la prima volta dal vivo e svincolata dai film che l’hanno resa indimenticabile, dentro di me hanno risuonato tutte le emozioni e le sensazioni che la sua musica descrive: le sue colonne sonore sono dei racconti espliciti della tensione, la paura, la felicità, l’amore, la morte, i crimini, l’epica e altre centinaia di cose che vivono i personaggi dei film.

È stato dopo queste due serate che mi sono immaginata in maniera molto più profana come le musiche dMorricone potrebbero diventare colonne sonore per la vita di tutti i giorni.
E quindi, con tutto il rispetto per il Maestro e per tutti i registi che ha accompagnato, ecco le occasioni in cui la sua musica sarebbe perfetta.

Sei imbottigliato nel traffico:

Sei in ritardo con una consegna al lavoro:

È rimasta solo l’ultima fetta di dolce:

Non ti ricordi se hai chiuso la macchina:

Iniziano le ferie:

Finiscono le ferie:

Arriva lo stipendio:

Arrivano i suoceri a cena:

E per concludere, quello che provo quando è il momento di iniziare una nuova serie tv:

 

Grazie, Mac DeMarco

Qualche sera fa sono andata a un concerto che aspettavo da tempo (forse qualcuno l’ha visto sul mio profilo Instagram) in un festival di cui avevo anche parlato per Sgaialand Magazine.
Sono andata a sentire Mac DeMarco, un cantautore canadese molto giovane e, almeno all’apparenza, un vero romanticone.

Arrivata lì, ho scoperto che mi ero fatta un’idea molto sbagliata su di lui.
Ecco alcune cose che mi hanno lasciata senza parole: è capace di scolarsi una bottiglia di Whisky in due ore, di fumare nel frattempo almeno dieci sigarette, di prendere continuamente in giro la band che lo guardava con un misto di terrore e divertimento, non conoscendo quale sarebbe la sua mossa successiva, di giocare con il pubblico al quale ha chiesto più volte che canzoni fare e che ha invitato a uscire con lui dopo il concerto perché (testuali parole) “non so se l’avete capito, ma io stasera voglio finire dritto all’Inferno“. Insomma, un matto totale.

Il tutto accompagnato da una voce da brividi e senza sbagliare una nota anche nella seconda parte del live, quando ormai era ubriaco fradicio.
Per farvi un’idea del talento:

 

Ma l’informazione più importante su quella serata è il fatto che ci sono andata da sola.

È una cosa a cui sono ormai piuttosto abituata, vivo da sola da un bel po’ e mi è capitato spesso di andare al cinema, mangiare fuori, andare a una mostra, visitare una città solo con la compagnia di me stessa.
Ho imparato a farlo soprattutto negli ultimi tempi per dei motivi ben precisi: F. lavora lontano e spesso non riesco a far coincidere i miei impegni con quelli degli amici (e la maggior parte di loro vive in altre città).
Poi c’è la motivazione più stringente di tutte, cioè che non è raro che alle persone che conosco freghi assolutamente nulla delle cose che piacciono a me.

Così a un certo punto mi sono detta che dovevo smetterla di stare a casa a rosicare, e se c’era qualcosa che mi andava terribilmente di vedere e nessuno che mi accompagnasse, potevo anche andarci da sola. Sta di fatto che ci ho anche preso gusto.

Quando lo dico, la maggior parte delle persone si dispiace, e mi guarda con gli occhi della commiserazione, mentre i pochi che mi capiscono e non giudicano male questa mia abitudine sono le persone abituate come me a stare molto da sole.

Mentre guidavo verso il concerto di Mac DeMarco ammetto che una parte di me era un po’ agitata: mi immaginavo una situazione in cui sarei stata più esposta del solito.
Mi ero programmata di arrivare al Festival un po’ prima e mangiare qualcosa lì, con il timore che avrei avuto molti occhi puntati addosso.

In realtà giovedì sera, mentre DeMarco beveva e cantava e io avevo gli occhi a cuore e tutti intorno a me facevano le Instagram Stories, ho capito e mi sono ricordata le cose più importanti che ho imparato negli anni facendo le cose da sola:

  • Alle persone non interessa assolutamente niente di te e del perché sei lì da solo.
  • Cammini guardandoti molto di più intorno, con gli occhi molto più vigili, e questo ti fa sempre fare delle nuove scoperte
  • Ti vengono in mente molte più idee e ha il tempo per pensarci sopra.
  • Scopri qualcosa in più anche di te stesso e impari ad ascoltarti senza il filtro di nessuno.
  • Mangi dove vuoi, quello che vuoi e al ritmo che vuoi tu.
  • Un libro in borsa è utilissimo nei momenti di pausa.
  • Stare da soli non significa essere da soli, ed è questa sottile differenza che in molti non capiscono.

E quindi sono tornata a casa entusiasta di aver aggiunto anche i concerti alla mia lista di attività piacevoli da fare senza nessuno tranne me.
Non fraintendetemi, potrei sembrare un orso solitario ma non lo sono al 100%. Anzi, se ci penso bene, credo che la cosa più bella di stare da soli sia proprio quella di poter ritornare in mezzo agli altri.

La playlist della felicità

No, non è un argomento banale: c’è sempre bisogno di regalarsi un po’ di felicità.

E la musica è uno di quei modi in cui, a prescindere dal fatto che si capisca o meno il testo, o se è comprensibile e non racconta nulla di particolare, o ancora se il testo proprio non c’è, può cambiare una giornata. Un balsamo, una cura contro la tristezza.

E allora, siccome oggi è una giornata che avrebbe avuto tanto bisogno di una svolta, ho pensato di fare un regalo a tutti quelli che hanno bisogno come me di qualcosa di bello con cui distrarsi: le mie dieci canzoni della felicità.

Non sono le mie canzoni preferite in assoluto, né tantomeno le mie preferite di un determinato artista (sì, sto parlando con te, George Harrison: perdonami per averti citato per adesso solo per questa tua trashata Anni Ottanta, sai che alla fine io ti amerò sempre soprattutto per le canzoni meravigliose che hai scritto prima).
Però sono quelle canzoni che hanno il potere di tirarmi immediatamente su di morale. 

Enjoy.

The Beatles – I’ll get you

 

The Beach boys – Wouldn’t it be nice

 

The Troggs – With a girl like you


The Four Seasons – December, 1963 (Oh, What a Night)


George Harrison – Got My Mind Set On You

George Michael – Faith

 

Janet Jackson – Together Again

 

Jamie Lidell – Multiply

 

Beyoncé – Love on top

La la land O.S.T. – Tutta la colonna sonora, ma se ne devono scegliere una:

Someone in the crowd

 

Spice Girls

No regrets

Purtroppo qualche giorno fa ho visto questo video.

Ero un po’ arrabbiata ma mi sono detta: vabbè è normale, la musica che andava alla fine degli Anni Novanta e nei primi Duemila non è mica quella dei decenni precedenti. Insomma, Kurt Cobain se n’era andato nel 1994 e MTV passava dei video pop imbarazzanti di cui ancora oggi vi saprei recitare la trama a memoria.

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Ma oggi ho deciso di smettere di rinnegare quegli anni felici di ascolti di dubbio gusto e condividere alcuni fantastici pezzi dell’epoca, spesso ingiustamente dimenticati.
Ecco allora le canzoni che ho scelto (e sapientemente diviso per tematiche) per una freschissima compilation da masterizzare e ascoltare nel vostro lettore cd.

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1. Bonazzi degli anni Duemila in stile too cool for school

2001 – I’m a slave for you – Britney Spears

 

2002 – Sugababes – Freak like me

 


1998 – 5ive – Everybody Get Up

 

1999 – Mariah Carey, Jay-Z – Heartbreaker

 

2004 – Will Smith – Switch

 

2. Le Spice Girls erano quasi brave (Baby Spice non pervenuta)


1998 – Mel B – I want you back

 

1999 – Mel B – Word Up

2000 – Mel C never be the same again


1999 – Geri Halliwell – Look at me

 

3. Indiscutibili capolavori

1997 – Bran Van 3000 – Drinking in LA


1997 – All Saints – Never Ever

2000 – OutKast – Ms. Jackson

4. Beyoncé prima di mettersi in proprio era comunque più figa di tutti noi

1999 – Jumpin’ jumpin’

 

1999 – Say my name

 

2001 – Bootilicious

2004 – Lose my Breath

 

5. Gruppi senza senso che per fortuna non sono sopravvissuti

2001 – S Club 7 – Don’t stop movin’

 

2002 – Big Brovaz – Nu flow

 

1998 – B*Witched – C’est la vie

 

2001 – Atomic Kitten – The Tide is High

 

Il gusto e la raffinatezza di quegli anni erano davvero unici, e ne sono talmente inebriata che penso che nei prossimi mesi produrrò altre bellissime compilation.

Breakfast me, please.

Ultimamente mi è presa la fregola di abbonarmi a qualsiasi cosa.
In principio fu Elle, che riempie di fashion la mia buca delle lettere da almeno due traslochi.

Con Netflix ero già praticamente abbonata ad honorem prima ancora che arrivasse in Italia: ero già fidelizzata solo all’idea.
Adesso che sono passata al Quattro Schermi + Super HD, che è credo il livello più alto di utente premium a cui sia mai arrivata, mi sembra quasi di avere in mano l’American Express Oro (passi che ci sono altre tre persone con cui lo condivido, sta di fatto che l’e-mail dell’account è la mia).
Netflix, ma invitarmi a un party esclusivo con qualche vostro attore, no, eh?

Il mese scorso ho ceduto anche a Spotify Premium, e non potete capire la soddisfazione di non sentire più quei due sciagurati che ti interrompono ogni due per tre per proporti, ehm, di abbonarti.

Sarei a questo punto pronta per compiere il gesto estremo con un altro servizio in abbonamento che mi ha fatto venire gli occhi a cuore appena l’ho scoperto.

Sto parlando di Vinyl me, please.
Ora, il nome è già seducente di per sé e se chiudo gli occhi mi vedo in una vasca da bagno piena di schiuma a bere Champagne con un giradischi che gracchia in sottofondo.
In sostanza, se ti abboni per circa 400 euro all’anno, ricevi un disco al mese, in un packaging deluxe super speciale in un’esclusiva limited edition consegnata in volo da un unicorno. Se sfogliate il loro catalogo, vedrete subito che non si tratta solo di ultime uscite ma anche di classiconi che non dovrebbero mai mancare in nessuna collezione.

In più, ai creatori dell’ultimo oggetto dei miei desideri è venuto in mente di aggiungere quel qualcosa in più che non serve assolutamente a niente se non aumentare ancora più l’appeal dell’offerta: per ogni disco, ti mandano anche la ricetta di un cocktail da abbinare all’ascolto.

Per adesso, a malincuore, ho messo da parte l’idea di fare questo investimento, ma in compenso copio da loro quest’ultima idea. Solo che siccome in questo periodo sono diventata una virtuosa della colazione mentre non so dosare neanche gli ingredienti di un spritz, vi do il mio Breakfast me, please. Un menu al giorno, un disco al giorno e una settimana per ascoltarli.


Lunedì

Menu: Pudding ai semi di chia con fragole e cioccolato fondente
Disco: Elton John – Goodbye Yellow Brick Road

Martedì
Menu: Yogurt bianco con frutti rossi, cocco in scaglie e sciroppo d’agave
Disco: Jersey Boys – Music From the motion picture

Mercoledì
Menu: Matcha latte con latte di mandorla e tè matcha
(o in alternativa con curcuma, cannella e zenzero)
Disco: The Flaming Lips – Oczy Mlody

Giovedì
Menu: Cornflake cookies (qui la ricetta) e cioccolata in tazza al peperoncino
Disco: Tori Amos – Under The Pink

Venerdì
Menu: Avocado toast con feta e pomodorini e centrifuga mela-carota-zenzero
Disco: Buena Vista Social Club – Buena Vista Social Club

Sabato
Menu: Japanese Pancakes (qui la ricetta) con banane e sciroppo d’acero
Disco: V.A. – Insecure (Music from the HBO original series)

 

Domenica
Menu: Cappuccino e brioche al bar.
Disco: V.A. – Breakfast me, please

Welcome to The Get Down

La scorsa estate ho avuto due grandi amori seriali:
Dustin di Stranger Things

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ed Ezekiel di The Get Down.

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Mi sono letteralmente bevuta entrambe le serie tv e sono andata in giro per mesi con gli occhi a cuore, dicendo a chiunque che per me erano i due capolavori del 2016.

Le seconde parti mi spaventano sempre un po’, quando si tratta di serie tv, soprattutto quanto le prime sono state così dirompenti, perché non è sempre detto che il livello rimanga tale. Di solito noto un calo, per poi vedere la ripresa nella terza.

In attesa che arrivi ottobre per vedere che ne sarà dei ragazzi di Stranger Things, la scorsa settimana Neflix ha fatto uscire sei nuove puntate di The Get Down (la seconda parte della prima stagione), che naturalmente ho già finito.

La serie è stata fortemente voluta dal regista Baz Luhrman, che, dopo dieci anni di studio per preparare questo progetto, è andato personalmente da Grandmaster Flash, uno dei fondatori dell’hip hop nonché la vera mente dietro alla serie (perché, di fatto, la storia è la sua), per parlargli della sua idea di dare finalmente valore al momento storico in cui è nato questo genere musicale.
Grandmaster Flash non è né simpatico né accomodante, e vi consiglio di leggere questa intervista per capire che tipo è e che cosa significa per lui The Get Down.

Siamo nel South Bronx alla fine degli Anni Settanta, e un gruppo di ragazzi, proclamatisi i The Get Down Brothers e capeggiati da Dj Shaolin Fantastic, stanno contribuendo alla nascita dell’hip hop.

The Get Down è incredibilmente interessante per un motivo fondamentale: la musica, che in quel periodo era in grande fermento creativo e stava passando dal monopolio della disco music alla nascita, appunto, dell’hip hop.
La colonna sonora è uno splendido mix tra la sfavillante disco, i beat dell’hip hop, accenni di latino americana, pop religioso, ballate romantiche e tutta la potenza del funk.

Online, oltre alla colonna sonora originale uscita la scorsa estate, trovate diverse playlist, in cui si alternano le cover realizzate appositamente per la serie (con l’inconfondibile voce di Nas, che ne è anche produttore esecutivo) agli originali degli Anni Settanta. Per immergervi appieno nelle atmosfere di The Get Down vi consiglio di ascoltarvi in particolare questa.

Per quanto riguarda la serie in sé, la prima parte scorre liscia come l’olio (nonostante una prima puntata un po’ confusionaria), in un crescendo di emozioni che culminano nella puntata finale con il primo entusiasmante concerto del gruppo.

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La seconda, invece, purtroppo ha confermato (in parte) la mia paura.
È passato un anno e ormai il gruppo si è consolidato, ma i singoli componenti devono affrontare nuove sfide personali e conflitti che li stanno trascinando verso la vita adulta.
Le puntate procedono un po’ a singhiozzi, soprattutto verso la fine, in cui sembra che si vogliano chiudere in fretta e furia tutte le questioni aperte nel giro di un paio di puntate.

Per fare la solita polemichina riguardo una serie che comunque resta una delle mie preferite, queste sono le cose che non mi hanno convinta delle ultime puntate:

  • l’aggiunta di alcune parti di storia disegnate a mo’ di fumetto, che rendono i protagonisti dei supereroi ma che più che altro distraggono, non aggiungono nulla e, sostituendo in alcune parti clou gli attori in carne e ossa, fanno perdere forza alla storia. Per una serie costata 120 milioni di dollari (la maggior parte in diritti musicali), sarà forse stato un espediente per contenere altri costi?;
  • Jaden Smith, il figlio di Will, che recita (poco, soprattutto in queste ultime puntate) nella parte di Dizzee, uno dei The Get Down Brothers e graffittaro psichedelico dalla sessualità fluida, che è sempre un po’ in disparte rispetto al resto del gruppo. Il personaggio sarebbe interessante ma l’attore ha solo due caratteristiche degne di nota: un discreto flow ereditato dal papà, e una bella faccia con broncetto in dotazione. Per il resto, meh;giphy3
  • Il personaggio di Shaolin Fantastic, ufficialmente il più insopportabile di tutti, contro il quale mi sono trovata più di una volta a gridare contro lo schermo neanche fossi l’ospite impazzita di un talk show;giphy4
  • il tramonto di una serie di personaggi che, molto interessanti nella prima parte, rimangono eccessivamente marginali nella confusione della seconda, primo su tutti Jackie, produttore discografico con problemi di dipendenza, ma con un talento ineguagliabile nella creazione di musica, che diventa all’improvviso un signor nessuno con un pianoforte e alcune drag queen a fargli da sfondo.

Una menzione speciale va invece al sempre-sopra-una-spanna-agli-altri Giancarlo Esposito, che ci regala la parte angosciosa del pastore di quartiere, padre di Mylene (la protagonista femminile), la cui spaventosa parabola ha il suo apice nella penultima puntata, decisamente una delle migliori, anche e soprattutto grazie a lui.

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 Anche se a noi piace sempre ricordarlo così.

Per concludere, se The Get Down ha un indiscusso valore per la storia della musica, andrebbe vista anche solo per ballare, ballare, e ancora ballare.

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Canzoni per eroi decaduti

La playlist di oggi è stata pensata per Logan, e, partendo anche qui da un pezzo della vera colonna sonora, traccia un percorso polveroso e sofferto lungo il deserto, per arrivare al finale in cui il nostro eroe trova la pace tanto desiderata.

1. Johnny Cash – Hurt

La strofa:
I hurt myself today
To see if I still feel
I focus on the pain
The only thing that’s real

Da recuperare: At Folsom Prison, album live registrato nel 1968 all’interno del carcere di massima sicurezza di Folsom, in California.

2. Leonard Cohen – You want it darker


La strofa:

Magnified, sanctified, be thy holy name
Vilified, crucified, in the human frame
A million candles burning for the help that never came
You want it darker

Da sapere: Il coro che accompagna questo pezzo è quello della congregazione Shaar Hashomayim, la più antica sinagoga aschenazita del Canada, nonché quella della famiglia di Cohen.

3. Scott Walker – Farmer in the city

La strofa:
And I used to be a citizen
And I never felt the pressure
I knew nothing of the horses
Nothing of the thresher

Da ricordare: Scott Walker ha scritto questo brano in ricordo di Pasolini.

4. Jack White – Wayfaring Stranger


La strofa:

I know dark clouds will gather over me
I know my way my way is rough and steep
Yet beautiful fields lie just before me
And God’s redeemed their vigils keep

Da riascoltare: La canzone è un brano popolare inglese dell’Ottocento ed è stato oggetto di diverse cover, una dello stesso Johnny Cash.

5. Tom Waits – I’m still here


La strofa:

You haven’t looked at me that way in years
You dreamed me up and left me here
How long was I dreaming for
What was it you wanted me for

Da rileggere: Tom Waits è stato un amico di Charles Bukowski, con cui condivise anni di eccessi e la capacità di raccontare l’America di chi sta dalla parte sbagliata.

6. George Harrison – All things must pass


La strofa:
Now the darkness only stays at nighttime,
In the morning it will fade away
Daylight is good
At arriving at the right time
It’s not always
Going to be this grey

Da recuperare: Il commovente film documentario sulla sua vita, Living in the material world, di Martin Scorsese.

 

Hidden Figures: una playlist

La colonna sonora di Hidden Figures è particolarmente bella. E non era difficile immaginarselo, considerando a chi è stata affidata: l’hanno infatti realizzata due mostri sacri come Hans Zimmer e Pharrell Williams.
Il compositore, che ci ha raccontato in diverse occasioni le profondità più oscure dell’animo umano, qui torna, dopo Interstellar, a descrivere quelle altrettanto sconfinate e siderali dello spazio cosmico.
Pharrell ci riporta invece coi piedi per terra, catapultandoci a cantare insieme al coro gospel durante una funzione domenicale.

Ma per un film dedicato al black power al femminile ho pensato a una proposta di colonna sonora alternativa, che parte proprio da un pezzo utilizzato nel film.

1. Kim Burrell e Pharrell Williams – I see a Victory

La strofa:
So I tallied all my losses
And I turned them into lessons
And what seemed to be less
I turned them into blessings

2. Nina Simone – Ain’t Got No, I Got Life

La strofa:
I’ve got life , I’ve got my freedom
I’ve got life , I’ve got my life
And I’m gonna keep it
I’ve got my life
And nobody’s gonna take it away
I’ve got my life

Da recuperare: 
Il bellissimo documentario What Happened, Miss Simone? disponibile su Netflix.

3. Betty Davis – Anti Love Song

La strofa:
Cause I know you’d could make me suffer
I know you could drive me mad
I know you’d just take me in a circle
And when it got real I know you’d disappear
That’s why I ain’t gonna love you

Da sapere:  Betty fu per un solo anno la seconda moglie di Miles Davis, ma ebbe il tempo di influenzarlo moltissimo a livello musicale, permettendo la sua svolta fusion, che senza di lei non sarebbe stata possibile.

3. Erykah Badu – On & On

La strofa:
Peace and blessings manifest with every lesson learn,
If your knowledge were your wealth then it will be well earn

Da vedere:
Il video di Honey, in cui la Badu omaggia moltissimi altri musicisti ricreando le copertine dei loro dischi.

4. Lauryn Hill – Everything is everything

La strofa:
I wrote these words for everyone who struggles in their youth
Who won’t accept deception, instead of what is truth
It seems we lose the game
Before we even start to play

Da avere: il disco The Miseducation of Lauryn Hill, un vero capolavoro.

5. Xenia Rubinos – Mexican Chef

La strofa:
Brown has not
Brown gets shot
Brown got what he deserved ‘cause he fought
I want it, want it all now
I want it all now
We sail the boat that’s gonna take you to town
We build the ghettos and we tear them down

Da confrontare: Emily’s D+Evolution di Esperanza Spalding, a cui il disco della Rubinos è stato spesso paragonato.

6.  Guilty pleasure (bonus track):
Mary J Blige e George Michael – As

La strofa:
As today I know I’m living
But tomorrow could make me the past
But that I mustn’t fear
For I’ll know deep in my mind
The love of me I’ve left behind

Da riascoltare: Naturalmente, la versione originale di Stevie Wonder.