Manuale per ragazze rivoluzionarie

Rivoluzioni e montagne russe

Questo post ha avuto una gestazione lunghissima: ci sono ferma da tre mesi.

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Ogni volta che mettevo le mani sulla tastiera cambiavo idea su cosa mettere a fuoco di tutto quello che avrei voluto dire. Allora mi sono interrogata sul perché e l’unica risposta che riesco a darmi è che in questi mesi mi è successo di tutto.

Ho provato a iniziare questo post almeno cinque o sei volte: appena lo riprendevo in mano, quel momento che volevo raccontare era già fuggito, portato via dalla curva successiva della montagna russa in cui mi sento in questo periodo.

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La mia intenzione era quella di recensire Manuale per ragazze rivoluzionarie, di Giulia Blasi, che a gennaio ho ascoltato in maniera vorace su Storytel. Il tema è questo:

Ragazze, non c’è più tempo da perdere: bisogna fare la rivoluzione. 
Viviamo in una società che purtroppo non è ancora paritaria fra i sessi in termini di rispetto, opportunità, trattamento. 
Se nel Novecento sono stati fatti enormi passi avanti per le donne, dagli anni ‘80 in poi il femminismo si è come addormentato, mentre il successo ha continuato a essere per lo più riservato ai maschi e in tv apparivano ballerine svestite e senza voce.
La violenza sulle donne non si è mai fermata e chi denuncia le molestie tuttora corre rischi e prova vergogna.
Ecco perché oggi è giunto il momento che le ragazze di ogni età raccolgano il testimone delle loro nonne e bisnonne per fare una rivoluzione epocale.
In questo saggio profondo ed elettrizzante Giulia Blasi offre consigli concreti per mettere in atto un femminismo pieno di ottimismo e spirito di collaborazione (evviva la sorellanza!) che possa rendere tutti più sereni, rispettosi, appagati e felici. Anche gli uomini.

È un libro, prima di tutto, molto divertente. È anche spiazzante, illuminante, mette le cose bene in ordine e sviscera un argomento dietro l’altro in maniera molto precisa. È sì un manuale sul femminismo, ma per me è stato anche un modo per guardarmi dentro.

Si è inserito in un solco che era già tracciato in me, una di quelle cose che ti piovono addosso al momento giusto e senza preavviso.

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Il giorno del mio compleanno ho scritto su Instagram che il 2019 sarebbe stato l’anno in cui avrei fatto un po’ il cavolo che mi pare, e leggere questo libro mi ha confermato che sì, lo posso fare davvero.
È stata quasi una seduta di terapia, una pacca sulla spalla, una spintarella, una voce amica che mi ha detto: vai, coraggio, esci fuori, tu sei questa cosa qua e non tutti gli strati che ti sei messa addosso per compiacere gli altri.

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Posso combattere per quello in cui credo senza sentirmi sempre in colpa o sbagliata.

Scendere in piazza ogni volta che serve, sia quando la lotta è la mia sia quando non è la mia, ma credo lo stesso nella causa. Parlare ad alta voce di femminismo, sorellanza, patriarcato, mansplaining, anche se la gente mi guarda strano.

Ribattere sempre e senza timidezza a chi fa affermazioni sessiste, da quelle che sembrano più innocue come “mangi come un piranha” o “voi donne siete sempre in ritardo”, a quelle più gravi.

Fermare quelle donne che criticano le altre per come si vestono, quanto pesano, come si truccano, quanti partner hanno avuto (o non hanno avuto), se si sono rifatte o meno.

Tutto questo, anche a costo di sentire gli altri sbuffare, o di risultare stare antipatica, o di lasciare indietro qualche amicizia che non mi capisce più.

Perché essere femminista significa non aver paura di creare disagio negli altri, metterli scomodi, rompere gli equilibri e le convinzioni (e questa è una delle cose più belle e più vere che ci sono nel libro di Giulia).

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Ma per me è significato anche aver raggiunto una consapevolezza più personale, che mi sta ribaltando in questi mesi e che mi fa sentire come se fossi un serpente che fa la muta.

Non faccio più finta di farmi andare bene cose che so benissimo non fanno per me.
Mi è capitato troppe volte di alzarmi la mattina, dopo anni di arrendevolezza, e chiedermi chi cazzo fosse la tizia che vedevo nello specchio.

E quindi ho imparato a rispondere: no, a me questo rapporto fa solo male e ti spiego anche perché. Ma anche a dirmi: sì, proviamo, ho voglia di prendere quel treno anche se non si dovrebbe fare, rispondere subito a quel messaggio anche se strategicamente sarebbe meglio di no, buttarmi nelle situazioni anche quando non c’è dubbio che combinerò un casino.

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E probabilmente per questo sto già sulle palle a molti, e tanti non capiranno, tanti si spaventeranno, tantissimi giudicheranno. Ma non succede così in ogni caso?

In questo percorso non penso di essere diventata più forte, anzi, credo che le mie debolezze adesso siano molto più esposte e scintillanti di prima, ma almeno quello che c’è fuori corrisponde a quello che c’è dentro.

Adesso quando mi guardo allo specchio mi riconosco, nel bene e nel male, con tutte le difficoltà e la fatica del caso, perché oh, non è per niente facile essere se stessi.

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Manuale per ragazze rivoluzionare è su Amazon, oppure su Storytel, in versione audiolibro.

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Freddie Mercury

Storia di un tatuaggio

Il mio primo amore sono stati i Beatles.

The Beatles

Dall’adolescenza in poi, li ho sempre avuti accanto, in sottofondo o come colonna sonora portante, li ho cercati per sentirmi a casa, per rassicurarmi, per tranquillizzarmi. Anche con le loro canzoni più dure, più graffiate, più lennoniane.
Ero così fedele che per anni non ho voluto ascoltare i Rolling Stones perché mi sembrava di tradirli.

Ho scalato tutti i gradini per conoscerli sempre meglio, dai primi, timidi passi con il Greatest Hits che avevo comprato da piccola, agli album veri, le registrazioni, i libri, i gadget, l’Anthology, i concerti di Paul McCartney in cui mi sono emozionata come mai nella vita, i concerti delle cover band e l’apice di tutto: il viaggio a Liverpool solo per vedere i luoghi dove sono cresciuti.

Questo viaggio che non tutti avrebbero accettato è stata la creatura mia e di un mio ex fidanzato.
Insieme siamo stati, prima e sopra molte altre cose, soprattutto dei fan.
Una volta mi disse: “se ci lasceremo, come farò con i Beatles?”.

Quando gli chiedevano se preferisse Lennon o McCartney, rispondeva, ridendo, che era come se gli chiedessero se preferiva la mamma o il papà.

Io invece da piccola dicevo sempre Paul, ma crescendo il mio cuore è diventato di George Harrison.

(E comunque lo so che lui preferisce Lennon).

Dopo i Beatles è arrivato David Bowie, uno che una bambina non può capire, uno che scrive testi difficili, che è stato centinaia di persone diverse.

Bowie's Thin White Duke

Mica come i Beatles, che si sono trasformati sempre in qualcosa di comprensibile: sono stati pettinati, spettinati, psichedelici, lisergici, barbuti, ma sempre, a loro modo, ordinati.

Bowie no, e la prima volta che l’ho guardato dritto negli occhi ho avuto un brivido.
David Bowie è uno che ti fa arrossire e abbassare lo sguardo.
David Bowie è sensuale, è erotico, una cosa che di certo i Beatles non sono mai stati.

David Bowie non ti dà certezze, ti riempie di dubbi. Torno da lui quando ho bisogno di pensare, di riflettere, di sentirmi male per poi sentirmi meglio.

Bowie è una parte di me che sta acquattata in un angolo e ogni tanto vorrebbe venire fuori, uscire dalle righe, sparigliare le carte, fare la rockstar, è quell’irrequietezza che ho sempre nella pancia da che ho memoria, che non so da dove venga ma si anima e si nutre di David Bowie.

Poi è successa una cosa, qualche anno fa.
È comparsa online la registrazione delle linee vocali di Under Pressure, la canzone che David Bowie ha registrato insieme ai Queen.

Freddie Mercury e David Bowie

I Queen li ho sempre ascoltati senza attenzione, con la punta dell’orecchio.
Conoscevo, come tutti, quelle loro canzoni incredibilmente famose, che mi sembravano anche assurdamente semplici.
Avevo un amico che li alternava tra i suoi preferiti ai Metallica, forse perché cantava e suonava la chitarra elettrica, e poi è omosessuale, e io da stupida pensavo che fosse per quello che era così fissato con Freddie Mercury.

Quando ho sentito per la prima volta la registrazione delle linee vocali di Under Pressure mi è sembrato che quei due si incastrassero alla perfezione.
C’è Bowie che prepara il terreno, inonda lo spazio con una voce che si insinua dappertutto e riempie ogni crepa fino quasi a farla esplodere.

È un trampolino dove la voce di Freddie Mercury si lancia; prima si prepara in un angolo, fa dei piccoli passi, bussa alla porta e poi, all’improvviso, spalanca le finestre, spicca il volo e strazia il cielo.

Poi ho scoperto che, nello studio in cui stavano provando, Freddie aveva teso l’orecchio a Bowie che cantava e lui, che non voleva essere secondo a nessuno, si era buttato in quelle note così alte a mo’ di sfida.

Ho deciso in quel momento che volevo capirlo davvero, questo Freddie Mercury che il mio amico tanto amava.
Volevo riascoltarle meglio, quelle canzoni dei Queen che per me erano stati solo dei ritornelli da canticchiare.

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Ed è allora che è cambiato tutto. Per mesi li ho vivisezionati, ho ascoltato centinaia di volte quella voce che copriva quattro ottave, quella che non poteva stonare neanche se voleva, che mi squarciava il petto ogni volta fino a farmi commuovere.
Che mi faceva venire voglia non di ballare, ma di mangiarmi lo spazio intorno, di farmi crescere le ali, di essere una shooting star, leaping through the sky.

Ho preso una sbandata per gli assoli di chitarra di Brian May: sentivo gli strumenti con la stessa dignità e potenza delle parti vocali, quasi fossero loro stessi un’altra linea di voce.

Ho diviso tutti gli strati di cui erano composti. Ho sentito il glam rock, l’hard rock, il progressive, il pop, i sintetizzatori, la batteria elettrica, il blues, Elvis, gli Zeppelin e l’opera, ho pescato dove andavano a pescare loro per cercare di capirli.

Ho visto decine di registrazioni dei loro live e ho capito, finalmente, chi fossero i Queen.
Ho capito che Freddie Mercury era di un altro mondo, che se lo ami, lo puoi amare solo alla follia, e che è stato fondamentale non solo per le sue scelte sessuali, o perché è stato tra i primi a morire di AIDS, o perché aveva quella giacca gialla lì e faceva quella posa là. Era molto di più: lui era chi cavolo voleva, sempre.

Quando ho deciso di tatuarmi, la me adolescente ha detto subito: Beatles.
Pensavo di dover onorare il primo amore, quello che non si scorda mai, ma dentro di me si era insinuato un tarlo e quel tarlo erano i Queen.

Queen on stage

Sapevo che quando hanno registrato The show must go on Freddie era già malato, che quella canzone l’aveva scritta Brian May mentre vedeva l’amico appassire di giorno in giorno e che era un momento durissimo per tutti e due.
È un pezzo che tocca delle vette quasi oniriche, è tragico ma c’è la promessa dell’eternità.
È una lettera d’amore per un amico, e poi l’amico l’ha cantata come epitaffio della sua vita terrena.
E quando arriva il bridge riesco a immaginarlo, lui, che sul finale alza la testa verso il cielo, e disperde la voce nell’aria, pronto a farsi riprendere dagli altri:

My soul is painted like the wings of butterflies
Fairy tales of yesterday will grow but never die
I can fly my friends.

Eccola. Quella era la cosa che stavo cercando per me.
Ho scelto la parte centrale della strofa, dove stanno le fiabe che non muoiono, ma invecchiano insieme a me.

E così anche le persone che non ci sono più, gli anni che sono sfuggiti, i progetti che non hanno mai preso il volo, i ricordi nelle parole degli altri, le amicizie che sono sfumate negli anni e quelle che restano, i sogni irrealizzabili e quelli che sto realizzando, tutto quello che mi sono lasciata dietro le spalle, ma che mi ha resa la persona che sono adesso.

Ho tradito il primo amore con l’amore dell’età adulta, ma non credo che me ne vorranno male. 
Perché ci sono anche loro, ci sono tutti, dentro quella storia che ho deciso di portarmi addosso e di far invecchiare con me.

Perché voglio andare avanti, e anche quando il trucco si sfalda, tenere sempre addosso il sorriso.

 

Ah, se volete vederlo, il tatuaggio è qui.

Paul Dano e Patricia Arquette

Cinque serie tv da vedere adesso

Man mano che passano gli anni, e che passano le serate davanti al computer, il mio sesto senso si affina nella ricerca di film e serie tv.

A volte mi basta vedere un trailer per capire se all’orizzonte avanza una cazzata o un prodotto interessante. Non sono una sciamana, passo solo un sacco di tempo davanti allo schermo.

Durante le scorse vacanze di Natale ho usato giornate intere per macinare una puntata dietro l’altra, per un totale di cinque serie tv, e mi do delle gran pacche sulle spalle: mi sono piaciute tutte.

Queste cinque serie sono accumunate da tre cose: protagonisti indimenticabili intorno a cui ruotano storie che sembrano cucite loro addosso; una scrittura incalzante (dalle vicende più classiche a quelle più innovative), temi che non sembrano mai dei déjà vu di qualcos’altro.

Ecco allora il mio più breve riassunto possibile di tutte e cinque.

counterpart

Counterpart

Per questa non c’era scampo: io adoro J.K. Simmons. 
Whiplash resterà per sempre uno dei miei film preferiti soprattutto per quel bastardo del suo personaggio.

La storia

Howard Silk è un agente delle Nazioni Unite in un’agenzia di Berlino, in un futuro imprecisato.

Nei sotterranei dell’agenzia, la Germania Est è riuscita negli Anni Ottanta ad aprire un varco verso un mondo parallelo, copia quasi esatta del “Primo mondo”, mantenuto segreto ai civili ma con i quali i governi di qua hanno fragili relazioni diplomatiche e casini che si ripercuotono da una parte all’altra.
Il fulcro filosofico su cui ruota tutta la storia è che ognuno ha un un altro sé dall’altra parte, nato e cresciuto allo stesso modo fino al punto in cui un evento, anche minimo, ha cambiato del tutto il corso della sua vita.

A un certo punto Silk si troverà costretto ad avere a che fare con il suo doppio che sta di là.


J.K. Simmons si sdoppia sul serio, fino a modificare il tono di voce con cui recita (ci sono scene in cui dialoga con se stesso che fanno accapponare la pelle).
Ma la serie non affronta, banalmente, solo il tema del doppio, piuttosto quello del peso che le singole scelte hanno nella nostra vita. Infatti lo sentiamo dire: “l’infanzia, la genetica, non contano. Siamo impotenti di fronte alla nostra esperienza.

Julia Roberts e

Homecoming

La mente dietro Homecoming è Sam Esmail, il creatore di Mr. Robot.

>>>>Off topic
Io Mr. Robot l’ho colpevolmente finita solo oggi.
Come mi aspettavo, si è scornata subito con le mie serie preferite ed è arrivata in cima.
Ma quanto sono raffinate la regia e la fotografia usata da Esmail. E che splendore di dettagli. Potrei stamparmene i frame e appenderli in camera.

E quanto mi piace Rami Malek, e va bene che l’avete capito che lo amo no matter what, ma insomma, un’empatia del genere con un personaggio seriale non mi capitava dai tempi di Heinsemberg.

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Chiuso l’off topic.<<<<

La storia

Homecoming è un thriller psicologico basato, ohibò, su un podcast molto famoso in America (interpretato, tra gli altri, da Oscar Isaac e David Schwimmer).

Qui la telecamera ossessiva di Esmail è puntata sul viso tirato di Julia Roberts, Heidi Bergman, un’ex assistente sociale che ha lavorato per un periodo da Homecoming, struttura innovativa per il reinserimento dei soldati americani tornati a casa dopo aver combattuto.

La serie viaggia su due piani temporali diversi, sottolineati anche da due registri stilistici diversissimi (ciao poster in camera): il presente, in cui Heidi fa la cameriera in un paesino sperduto sulla costa, e il passato, in cui scopriamo mano mano cos’è successo prima che Homecoming venisse chiuso e lei cambiasse vita.
C’è uno del Dipartimento della Difesa che indaga sul motivo per cui il programma è stato interrotto (Shea Whigham), c’è la mente dietro a Homecoming che, nel passato, telefona decine di volte al giorno ad Heidi per tenere monitorata l’operazione (Bobby Cannavale). C’è il soldato a cui Heidi si lega durante le sedute di terapia (Stephan James). E sono tutti mooooolto bravi, la tensione è tangibile, l’ansia di capire che cazzo è successo è altissima, la scoperta finale è abbastanza scioccante.

Esmail si conferma un autore incredibilmente attento e originale nell’affrontare temi attuali, spinosi, senza cadere mai nel banale e nel già visto.

Sandra Oh e Jodie Comer

Killing Eve

Non ho mai visto Grey’s Anatomy, ma tutti quelli che l’hanno amata mi hanno sempre detto che la migliore, lì dentro, è Sandra Oh. E qui si conferma la grandezza di quest’attrice, giustamente premiata ai Golden Globe per il ruolo di Eve Polastri in Killing Eve.

La storia

Eve Polastri è una funzionaria dell’M15, ente per la sicurezza e il controspionaggio del Regno Unito, che a un certo punto viene messa a capo di una squadra non proprio legale per stanare Villanelle (Jodie Comer), assassina fascinosissima e che definire spietata è dir poco.
Il punto è che entrambe finiscono per essere ossessionate l’una dall’altra, in una spy story grottesca e a tratti molto comica (se vi piace Tarantino, dai).

La creatrice è la stessa di Fleabag, che avevo già consigliato nei miei recuperoni del weekend.

Jim Carrey

Kidding

Jim Carrey non è mai stato uno dei miei attori preferiti, pur ammettendo la sua genialità e le sue capacità attoriali che lo rendono diverso da chiunque altro. Perlomeno finita la fase della faccia di gomma.

Qui ritorna a fare coppia con Michel Gondry, il regista che lo ha consacrato nel tempio del cinema indie e di tutte le conseguenti, pesantissime, citazioni emo sui social network: Eternal Sunshine of a spotless mind.

La storia

Jeff Piccirillo è un presentatore televisivo per bambini noto come Mr. Pickles, volto di uno show in cui interagisce con i pupazzi creati dalla sorella, e di un brand milionario guidato dal padre.

La serie tratta in maniera surreale, delicatissima in certi punti, violentissima in altri, la tragedia personale e di vita di Jeff, che ha perso uno dei due figli in un incidente d’auto e annaspa alla ricerca di trovare un senso in quella morte.
C’è il tema delle maschere che mettiamo addosso ogni giorno per tutelarci, c’è il conflitto tra ribellione e gentilezza, ci sono personaggi, intorno a quello di Jim Carrey, che sono un gioiello di recitazione e di profondità.
Una montagna russa di sentimenti, una stratificazione inaspettata di temi, visivamente bellissima: insomma, io ve lo dico, per me è una serie perfetta.

Paul Dano e Patricia Arquette

Escape at Dannemora

Già sulla carta questa serie tv era un parco giochi per appassionati.
La tripletta dei protagonisti è tanto atipica quanto spaziale: Benicio del Toro, Patricia Arquette e Paul Dano, mentre la regia è di Ben Stiller.
È del genere prison escape, e se vi sembrerà una storia impossibile, ta-daaan!, in realtà è tratta da una fuga vera, che nell’estate 2015 è diventata un caso seguitissimo sui media americani.

La storia

Siamo al Clinton Correctional Facility, carcere di massima sicurezza a Dannemora, quasi al confine col Canada, un luogo definito amabilmente la Siberia dello Stato di New York.
Qui sono detenuti Richard Matt (Del Toro) e David Sweat (Dano), che riescono, con un piano incredibile, a fuggire dalla prigione, grazie all’aiuto di Joyce “Tilly” Mitchell (DATE TUTTI I RUOLI CHE AVETE A DISPOSIZIONE A PATRICIA ARQUETTE PER DIO), che lavora nella sartoria della prigione.
La serie racconta i lunghi mesi in cui i due elaborano la fuga, dal momento in cui decidono il modo in cui attuarla, ai continui raggiri della molto raggirabile Tilly, fino all’evasione e alla caccia all’uomo. Nel mezzo, tutto quello che potete immaginare succeda in un carcere del genere.

Il buio, il freddo, la fatica, la noia, lo sporco, la paura, la rabbia: te li senti tutti addosso dal primo minuto.
L’atmosfera del carcere è ricreata in maniera tanto realistica da soffocarti nelle celle dei detenuti, per non parlare della claustrofobia che suscitano le lunghe scene nel tunnel scavato dai due per fuggire. E poi loro tre, loro tre sono straordinari.

Rami Malek as Freddie Mercury

Bohemian Rhapsody e i dentoni di Rami Malek

È un momento storico in cui, tra franchise, sequel, prequel, spin off, reboot, in molti accusano l’industria cinematografica di non produrre davvero delle idee nuove. O danno la colpa al pubblico, perché le idee nuove, pare, non vendono.

Who wants to live forever (i film biografici)

Il biopic, contrazione di biographic picture, film biografico, è quel genere di cinema che racconta, in maniera più o meno romanzata, la vita di qualcuno che è realmente esistito.
È un genere che ha sempre avuto un discreto successo, e negli ultimi mesi è tornato alla ribalta con Bohemian Rhapsody, sulla storia dei Queen e di Freddie Mercury, dalla nascita fino alla famosissima performance al Live Aid del 1985.

Parlando solo dei film biografici a tema musicale, nel 2019 uscirà quello su Elton John, poi sarà la volta di quello sulla storia tra John Lennon e Yoko Ono, e nel frattempo si vocifera che Dave Franco sarà il rapper Vanilla Ice (che paura).

Freddie Mercury

Mi chiedo allora se stiamo assistendo a una nuova stagione per i biopic, e se è solo un altro modo per attingere con facilità a del materiale già pronto, senza dover fare lo sforzo di trovare delle idee nuove.

Torno a Bohemian Rhapsody, e dico subito una cosa: nonostante i suoi (a volte grossi) difetti, a me ha emozionato moltissimo, soprattutto nella famosa ultima mezz’ora, in cui viene ricreata la performance dei Queen al Live Aid del 1985.

Ma mi sono appassionata anche a un’altra cosa, cioè le polemiche che prima, durante e dopo l’uscita del film, hanno continuato a pioverci sopra.
E siccome ho letto di tutto con una curiosità morbosa, tanto vale che ve ne parli, no?

It’s a hard life (un film sfortunato)

Di un progetto sui Queen si parlava già nel 2010, quando il candidato per la parte di Freddie Mercury era Sacha Baron Cohen, che ha poi abbandonato il progetto perché voleva presentare la storia del cantante in un modo molto meno edulcorato rispetto a quello voluto da Brian May e Roger Taylor.

Allora è comparso Rami Malek, noto soprattutto ai nerd delle serie tv per Mr. Robot.
Ma i problemi non sono finiti, infatti si è sollevato un vespaio anche contro il regista Bryan Singer.
Questi avrebbe combinato un po’ di casini sul set e così è stato licenziato a un passo dalla fine delle riprese, e, dulcis in fundo, subito dopo gli è arrivata anche un’accusa di violenza sessuale da parte di un attore, minorenne all’epoca dei fatti.

Nonostante questa genesi travagliata, Bohemian Rhapsody è andato benone.

Freddie Mercury

È notizia di pochi giorni fa, infatti, che è il biopic musicale che ha fatto più incassi della storia e, sulla scia di questo successo, la canzone che dà il titolo al film è schizzata nelle classifiche come il pezzo più ascoltato in streaming di sempre.

Infine, i Golden Globe del 7 gennaio lo hanno premiato come miglior film drammatico, e hanno incoronato anche il buon Rami Malek come miglior attore protagonista.

Queen

Ma allora cosa c’è che non va? Chiedete voi, ignari.
Ci arrivo.

Under pressure (le critiche)

Bohemian Rhapsody è un film che continua a essere molto criticato, sia per questioni di forma che di sostanza.

Da una parte c’è chi si è lamentato degli errori, diciamo così, storici, e delle soluzioni sbrigative usate per raccontare alcuni momenti fondamentali nella storia della band.

L’esempio più lampante? Se nella realtà Mercury scopre di essere sieropositivo solo nel 1987, e lo dirà alla band due anni dopo, nel film lo confessa praticamente il giorno prima del Live Aid. Questo per dare la scusa agli autori per parlare della malattia e per rendere (come se fosse necessario) ancora più spettacolare il racconto di quel momento.

Freddie Mercury al Live Aid

Un altro genere di critiche è stato fatto su scelte più formali, come le protesi troppo pronunciate alla dentatura di Malek, o la sua fisicità mingherlina rispetto a quella molto più imponente di Mercury.
Ah, poi ci sono anche quelli che chi se ne frega di ‘sto film, tanto i Queen facevano schifo.  Ma questa è un’altra storia.

Le inesattezze ci sono, e alcune sono piuttosto pesanti, anche se funzionali a condensare in due ore più di dieci anni di storia della band.

Di altre chi se ne frega.
Non penso che nessuno abbia creduto che John Deacon si sia inventato davvero il giro di basso di Another One Bites the Dust in cinque minuti, mentre gli altri bisticciavano dietro di lui. Ma è davvero così importante che non sia veritiero?

A kind of magic (perché andiamo al cinema)

Chi sceglie di girare un film biografico sulla vita di un personaggio famoso parte malissimo: deve fare un triplo carpiato per confrontarsi con un mito che non potrà mai essere eguagliato.

Freddie Mercury on stage
Prendendo in mano del materiale così delicato deve camminare con attenzione sul crinale tra il documentario e il libero adattamento, per cercare di rendere il più possibile omaggio al mito, ma per forza di cose lo filtrerà e lo distorcerà secondo la sua sensibilità.

E che cosa è meglio allora, tentare di fare un racconto accurato o concedersi la massima libertà artistica di reinterpretarlo?

Un film che va nella seconda direzione, esasperandola, è Io non sono qui di Todd Haynes, pellicola raffinata e cerebrale dedicata a Bob Dylan, che qui viene descritto per metafore.
È interpretato da sei attori, tra cui Cate Blanchett, che descrivono le diverse fasi della carriera del cantautore come se fossero degli archetipi, e in maniera anche piuttosto oscura.
La critica lo ha adorato, a me ha lasciata indifferente.

Invece, la finta esibizione del Live Aid dentro Bohemian Rhapsody mi ha fatto venire la pelle d’oca.
E il motivo è molto semplice e molto poco intellettuale: amo la musica dal vivo, amo i Queen, e per quella mezz’ora mi sono immaginata in mezzo alla folla di Wembley.

Con buona pace dei dentoni finti di Malek e di tutte le registrazioni che ho visto, mangiandomi le mani, delle stupende, commoventi, divertentissime, performance di Freddie Mercury.

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Per tirare le somme, un film ci piace e ci emoziona quando parla di sentimenti che ci risuonano nella cassa toracica come qualcosa di intimo, e riconosciamo come nostri anche se non abbiamo vissuto in prima persona quello che ci stanno raccontando. Quindi, in questo senso, su di me Bohemian Rhapsody ha funzionato.

E tutto sommato, per noi orfani di tanti grandi nomi della musica, può bastare anche un’interpretazione un po’ difettosa, tanto lo sappiamo benissimo da noi che l’originale non ce lo ridarà indietro nessuno.

Freddie Mercury

C'era una volta il West di Sergio Leone - Roberto Donati

Il commiato nostalgico alla frontiera: C’era una volta il West

Non esiste un genere cinematografico che non mi piaccia per partito preso.
Passo senza problemi dal musical ai supereroi, dalla commedia romantica ai film d’exploitation (quelli violenti, via).

Per me è forse più una questione di regista, o di attori. Se mi affeziono, li seguo ovunque vadano (cosa che spesso mi porta a vedere anche delle gran schifezze, ma questo è un altro discorso).

Il genere cinematografico per me è interessante soprattutto come oggetto di studio, più che come preferenza in senso stretto, e così lo è l’autore che dentro quello specifico genere ha immerso le mani, lo ha plasmato, se non addirittura se lo è inventato.
E quindi, non potevo tirarmi indietro di fronte alla monografia di Roberto Donati, edita da Gremese Editore, dedicata a “C’era una volta il West” di Sergio Leone, uno che di genere ne sapeva più di qualcosa .

La scena iniziale di C'era una volta il West

C’era una volta il West

Il film ha compiuto cinquant’anni nel 2018 e, diciamocelo, non invecchia mai.

Basta fare qualche nome di chi ci ha lavorato: le musiche sono di Ennio Morricone, alla sceneggiatura hanno collaborato Dario Argento e Bernardo Bertolucci, tra gli attori ci sono Claudia Cardinale, Henry Fonda, Charles Bronson, Jason Robards e Gabriele Ferzetti.

È considerato il commiato nostalgico del regista non solo a un genere di cinema di cui i suoi film sono un archetipo, il western all’italiana, ma anche a una certa idea di America, di frontiera, di eroi, che stavano lentamente mutando sull’onda del progresso, rappresentato dalle ferrovie e dai treni.

Cera-una-volta-il-West-di-Sergio-Leone

Prima di C’era una volta il West

Roberto Donati ci accompagna, scavando capitolo dopo capitolo a livelli sempre più profondi di analisi, dentro questo West che sta cambiando nelle mani di Leone.

La cosa che mi ha colpito subito di questo volume è che dà l’idea che l’autore avesse talmente tante cose da dire da usare ogni spazio a disposizione nella pagina per aggiungere qualche considerazione: ogni nota, ogni didascalia alle immagini e riquadro di approfondimento è da spulciare per scovare ulteriori riflessioni sul film.

Ci racconta anche cosa c’è stato prima e cosa ci sarà dopo questo film, e lo sguardo che posa su questo lavoro è personale e appassionato, ma non acritico, nei confronti di un autore che conosce come le sue tasche (o la sua fondina).

L’introduzione è il diario di lui bambino che scopre il cinema di Leone.
Inizia già qui a parlare della Trilogia del dollaro, composta da Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto e il cattivo, necessari per capire la seconda trilogia di cui fa parte C’era una volta il West, quella definita “del tempo” o “della nostalgia”.

Questi primi tre film anticipano i temi della seconda trilogia, che lì però verranno trasformati e trasfigurati.

Donati descrive i duelli della Trilogia del dollaro come dei cartoni animati, la morte come quella nei giochi dei bambini che mimano la pistola con le dita e si rialzano un minuto dopo essere stati colpiti, e una struttura alla guardia e ladri in cui tutti vogliono essere i ladri.

Nel prologo, invece, leggiamo com’e nato il regista che conosciamo attraverso le influenze non solo del tempo in cui è cresciuto (gli Anni Trenta, il fascismo), ma anche del padre, regista di melodrammi.
Dopo una carrellata sui suoi primi film, di genere cosiddetto peplum, (colossal “storici” italiani nati negli Anni Cinquanta), entriamo nel vivo del racconto e dell’analisi di C’era una volta il West. 
Saliamo a cavallo, dunque.

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La poetica di Sergio Leone

Il marchio stilistico del regista è ben impresso nella mente di chi conosce i suoi film, come le simmetrie nelle inquadrature di Kubrick, la “faccia Spielberg” o il profilo di Hitchcock: quando i tempi di certe scene sono dilatatissimi e i primi piani strettissimi sui volti dei protagonisti, quello lì è Sergio Leone.

Il suo universo è quasi sempre un mondo arcaico che deve piegarsi all’avanzare del progresso, a cui l’uomo guarda, generalmente, con sfiducia.
Un mondo in cui il tempo scorre inesorabile e viene enfatizzato proprio dalle lunghe scene e dai lunghi silenzi dei suoi protagonisti.
Gli eroi sono individui cinici, il dollaro è più potente della colt, lo spazio è gigantesco ma allo stesso tempo claustrofobico e, ad aleggiare sopra tutto e ad accompagnare per mano ognuno dei personaggi, o forse, il personaggio principale, c’è sempre la Morte.
Per capire Sergio Leone basta forse solo questa frase estratta dal prologo del libro:

“(…) all’inizio di ogni film di Leone scatta, quasi automaticamente, anche il conto alla rovescia e la banale scritta “fine” porta con sé, inavvertite perché nascoste tra le righe, la tragedia e l’implacabile angoscia da fine dei tempi. (…) durante i suoi film si respira letteralmente aria di morte (…)” (pp. 43-44)

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Di cosa parliamo quando parliamo di West

La parte più consistente e approfondita di questo volume riguarda l’analisi delle scene chiave del film, sviscerate sulla base dei grandi temi che percorrono la narrazione (tra gli altri, quello dei ritorni, l’assenza, il silenzio, la ferrovia, il paesaggio, l’acqua, e, naturalmente, la morte).

Molto interessante, in particolare, il paragrafo L’arrivo di un treno alla stazione di Flagstone, forse il momento più simbolico del film, in cui compare il personaggio di Claudia Cardinale, l’ex prostituta Jill.
Non seguiamo, infatti, solo il suo arrivo in città, ma, simbolicamente, la sua, e la nostra, presa di consapevolezza di quello che è (ed era) il West. 
Un West che, né glorioso, né tantomeno eroico, è piuttosto:

“ (…) polveroso come d’abitudine, ma l’ampia prospettiva fotografica ne rivela la conformazione cantieristica: un West alacre e fremente, abitato e pieno di attività, ormai quasi urbano, ricco di mezzi di trasporto (…) da “sentiero selvaggio” qual è stato, sta ora iniziando a civilizzarsi.” (p. 92)

E ancora:

“(…) chiuso in se stesso e dominato dal sudore, dalla fatica e di nuovo dalla paura (…)” (p. 93).

Un West dove i personaggi stessi simboleggiano quello che è stata e quello che l’America sta diventando. Da una parte chi segue il progresso, dall’altra chi è ancorato a vecchi schemi ormai passati, e quindi destinato a estinguersi. L’ironia dei precedenti film qui diventa ancora più tagliente, le frasi pesano come macigni e non lasciano spazio ad alcuna resa dei conti.

Di questo libro non vanno saltati nemmeno Ricordi e testimonianze ed Estratti Critici, in appendice alla sezione Materiali.
Qui, per esempio, scopriamo che Bertolucci ha scritto la scena della famiglia McBain che aspetta l’arrivo di Jill, poco prima di essere trucidata, e la scelta, fortissima, di interrompere il rassicurante frinire delle cicale come presagio della tragedia. O, ancora, sempre sua l’idea (e l’insistenza per farlo accettare) di mettere al centro della storia, per la prima volta, una donna.

È nell’estratto del critico Enrico Giacovelli che, invece, leggiamo della scelta inconsueta da parte di Leone di scritturare Henry Fonda, buono per antonomasia, per interpretare il killer sadico (e aggiungo io, a cui il regista disse di tirarsi via i baffi, le basette e le lenti a contatto che si era messo il primo giorno di riprese per nascondere i suoi occhi chiari, secondo la sua idea di come doveva essere un cattivo).

Insomma, 128 pagine che però sembrano il doppio. È questo quello che succede, quando si ama tanto una materia: non si smetterebbe mai di parlarne.

C’era una volta il West di Sergio Leone, di Roberto Donati è disponibile sul sito di Gremese e anche su Amazon.

Buon Anno nuovo

Sdoppiamento di personalità

Se questo è il periodo dei buoni propositi per il nuovo anno, e tutti, anche se involontariamente, ci troviamo a guardarci indietro e a pensare come eravamo un anno fa a quest’ora, per quanto mi riguarda posso dire una cosa senza alcun dubbio: va meglio adesso.

Ho fatto un riassunto mese per mese del mio 2018 nelle storie di Instagram (lo trovate in quelle in evidenza nel mio profilo), perciò qui guardo solo in avanti, ai progetti per questo 2019.

Innanzitutto, perché sdoppiamento di personalità.
Come qualcuno di voi sa, l’anno scorso a quest’ora aprivo la partita IVA e diventavo ufficialmente una copywriter freelance. Questo mi ha portato a pensarmi come un’azienda, con tutte le necessità d’immagine (oltre che amministrative) del caso.

Quindi, avevo bisogno di un’identità visiva, di un logo, di colori, di font, di uno spazio web in cui presentare la mia attività. E vi assicuro che non è semplice, parlare di se stessi, quando per lavoro di solito si parla degli altri.

Da una bella collaborazione con Dario, un amico che mi ha seguita, ascoltata e capita in questo percorso, è nato il mio sito professionale.

Anche lì c’è un blog, dove parlo di creatività, di copywriting e di marketing con il tono che ho sempre usato anche qui e che, spero, avete imparato a conoscere anche voi (e qualcuno addirittura dal mio antico blog Del pensiero viola: grazie a chi ultimamente mi ha dimostrato affetto sincero ricordandomi quella vecchia me!).

Da quando è partito il progetto dell’altro sito, mi ero preparata a dare l’addio a questo spazio, perché pensavo di trasferire tutto di là, cambiare registro, limitare le recensioni fatte per passione e diventare un po’ più focalizzata sulle cose di lavoro.

Beh, qualcosa mi ha fatto cambiare idea. E questa cosa sono gli attestati di stima e interesse che mi arrivano da diverse parti, le persone (anche sconosciute) che mi dicono che si segnano le serie tv che consiglio, che acquistano un libro dopo che ne ho parlato bene.
E per questo ho deciso, anche se per me sarà di sicuro più faticoso, proprio di sdoppiarmi.

Quindi, Al contrario continuerà la sua crociata contro la tv generalista e in difesa delle piccole sale cinematografiche, con la pin di Netflix accanto a quella del Festival del Cinema di Venezia appuntate sul petto. Per tutto il resto, mi trovate di là.

Ah, dimenticavo.

L’altra grossa novità del 2019 è che tra meno di venti giorni inizio un corso da Bottega Finzioni, la scuola di Carlo Lucarelli, dove imparerò a scriverle, le serie tv, e anche le sceneggiature per i film. È un po’ la chiusura del cerchio per me, che ne ho sempre ammirato solo il risultato al di là dello schermo.

Spero di riuscire a fare qui la cronaca anche di questo bel viaggio che sta per iniziare.
Se voi ci siete, continuo a esserci anche io.

Buon anno nuovo, e grazie.

Creiamo cultura insieme di Irene Facheris

Dare consigli è inutile

È un periodo curioso.

Da una parte mi trovo spesso nella situazione in cui le persone mi chiamano, mi scrivono, mi chiedono di fare due chiacchiere perché vogliono la mia opinione su qualcosa. Che riguardi il lavoro, un rapporto che non funziona, una questione di principio, sentono di potersi fidare del mio giudizio.

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Dall’altra mi trovo io, invece, a chiedere ossessivamente l’opinione degli altri su una faccenda sentimentale.
È una cosa che sulla mia pelle mi sembra intricatissima, ma che, se me la raccontasse un altro, so che l’avrei chiusa nel tempo di finire una sigaretta.

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Ma la verità è che ho scoperto da poco che chiedere consigli è umano, darne è inutile.

Sembra una contraddizione in termini, ma è una delle più importanti lezioni che ho imparato da un piccolo manuale che ho comprato poco tempo fa.
Il libro è “Creiamo cultura insieme – 10 cose da sapere prima di iniziare una discussione” di Irene Facheris, la formatrice di Parità in Pillole che avevo citato tra i profili YouTube da seguire (e che ho visto dal vivo qualche tempo fa).

Poche cose come aver letto questo libro hanno cambiato la mia percezione sul modo che abbiamo di comportarci con gli altri, e su come, pensando di far bene, quasi tutti inciampiamo in errori involontari che rischiano di fare peggio.

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Non temete, c’è una speranza per tutti.

Quando si discute di relazioni di qualsiasi tipo, da quelle amorose a quelle d’amicizia, familiari e lavorative, si apre il buco nero delle opinioni.

È il luogo in cui vale tutto, ognuno la pensa in un modo diverso, ha una strategia, una cosa che secondo lui “devi fare” o “non devi proprio fare”. È il regno dell’incertezza.

All’opposto, Irene, durante la presentazione a cui ho partecipato, ha esordito dicendo una cosa con una fermezza e una sicurezza che mi hanno colpita: “questo metodo per gestire le discussioni funziona senza dubbio. Provatelo, e poi ditemi”.

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E nel suo libro ci spiega che no, il confronto con l’altro non è il Far West delle buone intenzioni, ma ci sono delle tecniche che si possono adottare e che sono davvero efficaci per migliorare le discussioni e il confronto con gli altri.

Ad esempio, c’è una cosa che ci impedisce nella maggior parte dei casi di affrontare serenamente le discussioni, ed è non discernere tra concetti molto diversi tra loro: capire, comprendere e condividere le azioni dell’altro.
Se impariamo a distinguerli, avremmo gli strumenti per parlare con chiunque senza alterarci, anche se non condividiamo le sue idee e le sue azioni (sì, anche con quello lì che vi è venuto in mente adesso e che considerate il più stronzo di tutti).

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Una volta capito questo, abbiamo un’altra massima da affrontare: “Non si possono giudicare le emozioni e i bisogni degli altri, piuttosto i comportamenti che ne conseguono”.

Voi direte che questo lo sapete bene, ma continuate a leggere.

Quante volte avete detto “non dovresti essere triste” o “non ti dovresti arrabbiare così tanto”, o ancora, in positivo, “sei stato bravo a reagire così”, o “a me è successa la stessa cosa, quindi ti capisco”? Ecco, questo è il tranello in cui cadiamo tutti, quando vogliamo aiutare l’altro, e spostiamo il focus da lui a noi, giudicandone le emozioni e i bisogni secondo le nostre categorie, senza aiutarlo davvero.

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Eh, lo so.

Irene descrive una serie di comportamenti che ci vengono naturali quando una persona ha un problema e si rivolge a noi per un consiglio: rassicurare, interpretare, giudicare… e che dovremmo imparare ad abbandonare per l’unico vero ascolto che è utile per l’altro: quello empatico/comprensivo.

Questo ascolto parte da un esercizio: spostare le cose che pensiamo, e che nella nostra testa sembrano chiarissime, su carta, e poi rileggerle, ascoltandoci. In tutti questi passaggi il nostro pensiero, inevitabilmente, subirà delle modifiche, ma non sarà ancora abbastanza chiaro.
L’ultimo passaggio che ci serve è nel confronto con l’altro.
L’altro, che dovrebbe non fare altro che ripetere esattamente quello che gli raccontiamo noi.

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Sembra strano, ma sentite qui:
“la riformulazione serve all’ascoltato per ascoltare se stesso attraverso un’altra voce che ripeta esattamente quello che ha detto, permettendogli di creare uno spazio fra sé e il proprio racconto affinché possa comprendere se è proprio il suo, produrre eventualmente un’ulteriore elaborazione, rimettersi in movimento (…) e continuare ad approfondire (…)” (Irene Facheris, Creiamo cultura insieme, pag. 94).

Quando qualcuno ci chiede un consiglio, insomma, dobbiamo imparare a ripetergli a voce alta quello che ci ha detto e che ha fatto, non le motivazioni e le emozioni che crediamo di interpretare dietro i suoi gesti, e accompagnarlo senza metterci mai in mezzo con il nostro vissuto emotivo, chiedendogli solo di spiegarci come si sente in quel momento, senza anticipare una soluzione.

Difficile, non è vero?
È però l’unica via perché l’altro si senta davvero messo al centro e compreso, ed è una rivoluzione che, sono convinta, può portare solo del bene.

Io vi consiglio di leggere il libro di Irene anche solo per riflettere sulla strada che avete percorso finora, senza giudicarvi o giudicare gli altri, ma prendendolo come un punto di partenza per (e lo dico senza retorica) diventare ascoltatori e persone migliori.

E poi magari tornate da me che ho tante cose da raccontarvi.

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Daredevil Stagione 3

Amare Daredevil per svariati motivi

Mi sembra arrivato il momento di parlare di Daredevil, una serie che ho adorato dal primo fotogramma, il risultato di una collaborazione Marvel-Netflix che da subito mi aveva fatto tremare le vene ai polsi.

Lo ammetto, dalla fine della seconda stagione non ho visto quello che dal 2016 a oggi fa parte dello stesso filone narrativo (cioè Jessica Jones, Luke Cage, Iron Fist e la conseguente ammucchiata dei Defenders).

Nonostante queste mancanze, la storia del Diavolo di Hell’s Kitchen funziona lo stesso e l’ho amata anche in questa terza stagione per almeno quattro motivi: il suo protagonista, i cattivi, le atmosfere e i conflitti interiori che smuovono le viscere dei personaggi.

Attenzione: spoiler sulla terza stagione.

L’eroe

La mia passione sempiterna per l’universo Marvel, anche nelle sue forme più chiassose, non è un mistero, e non lo è nemmeno la mia fedeltà ai suoi supereroi, tranne per il breve e intenso tradimento con il Batman di Nolan.

Ma i personaggi che apprezzo di più in questo mondo di machi sono quelli che nascono da un trauma, e lo devono affrontare ogni giorno: quindi a Thor preferisco Doctor Strange, a Captain America Hulk, e per lo stesso motivo ho amato subito l’avvocato Matt Murdock e il suo vigilante Daredevil.

C’è un aspetto di base che lo rende più carnale, umano e meno scintillante dei suoi colleghi, ed è il fatto che è un eroe con una pesante disabilità: la cecità.

È vero che nell’incidente che da bambino gli ha fatto perdere la vista ha anche sviluppato dei super sensi, ma alla resa dei conti è solo un pugile che si prende un sacco di mazzate, che te le senti addosso come se le avessi prese tu, e finisce quasi sempre a terra, sanguinante e di volta in volta più debole.

Uno che, per dirla come Serialminds, per raggiungere i nemici deve inseguirli per le scale. Niente varchi spazio-temporali, niente martelli magici, niente voli aggrappati a ragnatele: no, una corsa su per le scale.

Daredevil
In questa stagione il suo personaggio diventa più oscuro, più insicuro e incazzato di prima.
La corruzione che scorre in ogni vena della sua amata Hell’s Kitchen lo fa dubitare nella bontà e resistenza del “sistema”, e lo fa quasi arrivare a compiere i gesti più estremi. Più volte saranno i suoi amici a doverlo tirare per i capelli per dissuaderlo.

I villain

Credo che pochi di voi non conoscano la recluta Palla di Lardo di Full Metal Jacket.

Ecco, l’attore che lo ha reso indimenticabile, Vincent D’Onofrio, qui presta la stessa rabbia e la stessa gigantesca mole a Wilson Fisk, un cattivo così perfetto che gli sembra cucito addosso, quasi il naturale proseguo del personaggio del film di Kubrick.

Fisk è uno che fa davvero paura, uno che, senza mai sporcarsi le mani, controlla una rete criminale che mette in ginocchio una città intera, così capillare che non sai dove inizia né dove finirà.

Uno con un potere tale che, se succede qualcosa che non gli va a genio, sei sicuro che l’attimo dopo ti arriverà qualcuno a casa per massacrare te e la tua famiglia.

Insieme a lui c’è un altro pezzo da novanta, Poindexter, l’agente dell’FBI che viene manipolato psicologicamente proprio da Fisk per diventare il “doppio” cattivo di Daredevil (il futuro Bullseye), fondamentale per alimentare i conflitti interiori di Murdock.

Poindexter

Anche se io resto comunque orfana di The Punisher e nessuno prenderà mai il suo posto nel mio corazon.

I conflitti interiori

Altro motivo per cui la serie funziona sono i “problemi familiari” dei protagonisti che qui esplodono come cariche disseminate ovunque.

Da Matt che scopre chi è la sua vera madre, e ne esce ancora più devastato, senza più fiducia nell’umanità e dilaniato da quella ferita dell’abbandono che ha compromesso tutta la sua vita.

Poi ci sono i conflitti di Karen, a cui è dedicata un’intera puntata in cui scopriamo che in giovinezza era entrata nel tunnel della troca e in cui vediamo il terribile incidente in cui muore il fratello. Tutto complicato dal fatto che finalmente confessa un po’ a tutti il fatto che è stata lei ad ammazzare James Wesley, consigliere e amico di Fisk.

Se non bastassero questi, aggiungiamo anche i problemi del nuovo personaggio buono del gruppo, l’agente Nadeem, il cui unico pensiero è proteggere la moglie e il figlio, e di cui, con il cuore spezzato, assistiamo alla resa e all’inevitabile caduta.

Poi ci sono quelli di Fisk, di cui sapevamo già che da bambino aveva preso a martellate il padre, e che qui vacilla davvero solo quando entra in gioco la sua amata Vanessa, l’unica capace di mandarlo in crisi.

Per non parlare di quelli di Poindexter, la sua psicosi, il vizio dello stalking, le voci nella testa che da frasi precise diventano sempre più confuse, fino a trasformarsi in un assordante sciame di mosche.

Agente Poindexter in Daredevil

Insomma, un casino: non si salva nessuno, tutti hanno un passato da scontare che scatena dei conflitti a spirale che sembrano non risolversi mai.

Hell’s Kitchen

In maniera ancora più marcata che nelle altre due stagioni, qui Hell’s Kitchen ti soffoca, ti annega nel suo buio e nella sua cupezza. Questa non è una vera e propria serie sui supereroi, è un noir, un poliziesco, in certi momenti quasi un horror.

Alcuni tra i lunghi e violenti combattimenti di questa stagione ricordano paurosamente certe immagini che vediamo degli attentati terroristici. In un paradosso macabro, sembrano più reali le scene di Daredevil che quelle dei notiziari.
Due esempi su tutti, il massacro alla sede del The New York Bulletin e il combattimento in Chiesa.

Ma il mio applauso finale va al combattimento nel lunghissimo piano sequenza (undici minuti senza uno stacco di camera, neanche “nascosto”) della quarta puntata.
Qui Matt si è riuscito a intrufolare in prigione, ma, drogato dall’ennesimo complice di Fisk, riesce a uscirne con fatica e nessuna lucidità, passando tra decine di risse tra i detenuti e le guardie.
La scena è una lunga coreografia su fondo rosso in stile “combattimento nei corridoi” che avevamo già visto in questa serie, e che da sola vale tutta la stagione.

Daredevil combattimento in piano sequenza


Vabbè, dai, ci sarebbe anche un quinto motivo.

 

Nota a margine:
Dopo averne fatto un pesante binge watching, ho passato la nottata a scansare un sogno angosciante dopo l’altro.

Voi direte, bello schifo, io dico invece che, se è riuscita a turbarmi così tanto, per me è la prova del nove che è una serie tv molto potente.

 

 

 

Questo post è per F.: l’amore per Daredevil nasce tutto da lì.

Mostra del cinema di Venezia

Venezia 75: era chiaro che avrei detto la mia.

Una settimana fa a quest’ora ero nel pieno della 75^ Mostra Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Una manciata di giorni di ferie per fare una delle mie cose preferite: chiudermi in sala a vedere in anteprima film che poi mi sarei divertita a consigliare e sconsigliare.

Nel frattempo sono stati assegnati i premi, qualche film è già uscito in sala e io mi sono già dimenticata di avere fatto delle ferie.

Però adesso arriva il bello: consigliare agli altri.
Torno alla mia antica passione per gli elenchi e vi racconto le cose che mi ricorderò, nel bene e nel male, di questa edizione.

Alessandro Borghi è Stefano Cucchi in Sulla mia pelle

Sulla mia pelle, di Alessio Cremonini.
Alessandro Borghi si è definitivamente lanciato nell’Iperuranio degli attori più incredibili del momento.
Questa pellicola, lo saprete, racconta gli ultimi sette giorni della vita di Stefano Cucchi, ed era necessaria, uno schiaffo in faccia, un film durissimo da vedere, a partire dalla trasformazione (non solo nel corpo, ma soprattutto nella voce) di Borghi in Stefano.

Come dice da giorni lui stesso sui suoi account social, anche se lo trovate su Netflix, andate a vederlo al cinema, condividetelo, continuate a parlarne.

Lady Gaga e Bradley Cooper sul red carpet a Venezia 75

La coppia Lady Gaga – Bradley Cooper
Allora, io lo so che lui ha un figlio con una delle donne più fighe della Terra, però credetemi, vederli insieme è stato emozionante, non solo sullo schermo, ma anche per la loro bellezza dal vivo, anche se (sigh) solo come coppia artistica.
Il loro film A star is born mi ha strappato le viscere: preparatevi a piangere tutte le vostre lacrime.
Lui è proprio il tipo d’uomo che nel manuale base delle relazioni è contrassegnato come “pericolo – contiene sostanze tossiche- girare alla larga”, ma quando lei se ne innamora non vi verrà neanche da dirle che è una cretina, perché come si fa a non pensarla come lei.
COME SI FA DIO SANTO.

Gipi sul red carpet di Venezia 75

Gipi, una balotta di amici e una bella riflessione sulla fragilità
L’ultima sera ci siamo rintanati in sala per fuggire all’ennesimo temporale e vedere Il ragazzo più felice del mondo, secondo film del fumettista Gipi.
In sala c’erano lui e il cast, una brigata di amici di cui per caso fa parte anche Domenico Procacci, e io sarei andata volentieri a bermi una birra con loro.

Se i suoi fumetti sono dolenti, dark, a volte anche molto tristi, lui è di un’intelligenza e una simpatia unica, un toscanaccio senza peli sulla lingua che ci ha fatto sghignazzare non solo sullo schermo, ma anche fuori.
Ma il tutto, a condimento di una riflessione profonda sulla fragilità di chi per lavoro si espone al giudizio degli altri, che attraverso la creatività si mette a nudo e si sente sempre un po’ un bambino da rassicurare e a cui dire che tutto andrà bene.

Ti voglio bene anch’io, Gianni, e l’incipit con “La vita di Adelo” mi ha fatto cascare dalla sedia.

The ballad of Buster Scruggs

I fratelli Coen e la sindrome di Woody Allen
Era la cosa che aspettavo di più.
Quando hanno pubblicato il calendario dei film in concorso, ho fatto i salti di gioia perché avrebbero proiettato The ballad of Buster Scruggs proprio nei giorni in cui ero al Lido.

I Coen per me, fino alla scorsa settimana, erano come i Beatles: non ne sbagliavano una.
Poi, all’improvviso, sono diventati come il Woody Allen degli ultimi anni: rincoglioniti.

Il film è piatto, non fa né ridere né riflettere, abbozza qualche idea banale e stanca, sembra buttato lì perché “anche quest’anno dobbiamo girare qualcosa”.
E come Woody Allen, ho paura che anche a loro siano finite le idee e che abbiamo preso la strada di un inesorabile declino. Spero di sbagliarmi perché a quella perdita ormai mi sono rassegnata, non so se ne reggo un’altra.

 

Emma Stone e Rachel Weisz in The Favourite

Lanthimos, cat fight e capricci
Una delle serie tv che più ho amato quest’anno è stata The Crown, che con i suoi intrighi e segreti alla corte della regina d’Inghilterra mi ha tenuta incollata alla tv come solo negli anni d’oro di Mad Men.
Olivia Colman sostituirà Claire Foy nel ruolo di Elisabetta, ma nel frattempo è stata un’altra regina, la seicentesca Anna Stuart in The Favourite del greco Yorgos Lanthimos.

All’epoca di The Lobster ero rimasta piuttosto scioccata dai livelli di follia fino a cui questo regista si spinge, qui forse un po’ smorzati per cercare di piacere a un pubblico più ampio, ma di sicuro con uno stile molto riconoscibile e uguale a nessun altro.
Qui ha avuto a disposizione tre attrici che si contendono il primato della migliore sia nella realtà che nella finzione.
Oltre alla Colman, perfetta regina poppante incapace di prendere una decisione che sia una, da cosa mangiare a colazione a come tassare i suoi sudditi, Rachel Weisz e Emma Stone sono due perfette e subdole contendenti delle sue attenzioni.

 

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Damien Chazelle cerca il riscatto
Non ne ho mai parlato qui, ma l’anno scorso La La Land mi aveva rubato il cuore. Prima di lui, Whiplash era già uno dei miei film preferiti.
Quindi capite bene che, quando ho scoperto che l’apertura della Mostra sarebbe stata affidata proprio a Chazelle, ero abbastanza euforica.

La sensazione che mi ha lasciato First Man è di un film molto tecnico, troppo preciso nei dettagli, troppo documentaristico nelle scene familiari, troppo fissato nel riprendere il punto di vista degli astronauti durante i tentativi, più o meno falliti, di arrivare sulla luna.

Se alla prima scena, angosciante, dell’addestramento di Armstrong, vista sui meravigliosi schermi della Mostra e supportata dall’altrettanto meraviglioso impianto audio, il battito accelera per forza, e la claustrofobia ti assale, alla quinta scena girata uguale, un po’ ti rompi anche le palle.

Il mio pensiero è che Chazelle si sia voluto riscattare dopo la favola dello scorso anno, con un film solido, che non lascia spazio all’immaginazione, senza scene emozionanti (tranne quella dell’allunaggio) e che finisce per essere piuttosto freddo.

E poi Ryan, io continuo a pensare che tu sia fighissimo, ma qui la tua unica espressione è talmente scarsa che non è neanche un’espressione completa.

 

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Extra: Amanda, di Mikhael Hers.
Non contenta di tutto quello che avevo programmato, in un pomeriggio in cui avevo due ore buche mi sono infilata in sala a vedere questo film francese.
La storia è quella di un ragazzo poco più che ventenne di Parigi che si ritrova all’improvviso a dover badare alla nipotina di sette anni, Amanda, dopo la morte inaspettata della sorella. Nel frattempo, si sta innamorando di una coetanea.

È un film delizioso, delicato, vero, e ha un protagonista dolcissimo, l’attore Vincent Lacoste, che durante l’incontro col pubblico dopo la proiezione è stato sommerso di domande sulla sua interpretazione, che ha colpito tutti in sala, e a cui ha risposto con grande timidezza e stupore (e lo ha reso, se possibile, ancora più adorabile).

Ho visto anche moltissime star sul red carpet, qualche altro film compreso il Leone D’Oro, ma queste sono le cose che mi hanno colpita di più.
Se andrete al cinema a vederne qualcuno, raccontatemi, se vi va, cosa ne pensate.

La fine dell'estate

Quest’estate deve finirla.

Quest’anno non sono andata esattamente in ferie.
I grossi cambiamenti, di vita e lavorativi, che mi hanno investita (sì, investita, proprio come una macchina in corsa), mi hanno fatto vivere l’estate come un lungo part time in cui un attimo prima sto lavorando e un attimo dopo mi ritrovo sul lettino a prendere il sole.
È un po’ sfiancante, ma temo di dovermici adattare.

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Nel frattempo, però, torno al Festival del Cinema di Venezia dopo averlo saltato per un anno (e aver rosicato parecchio), e per la prima volta sarò lì alla cerimonia di apertura.
E questo mi basta per arrivare col sorriso alla fine di questa lunghiiiiiiissima estate.

Per tutti voi per cui la parola “ferie” ha ancora un significato, forse questi sono gli ultimi giorni, forse siete appena rientrati, e giustamente siete un po’ tristi.
E io, che sono buona e altruista, vi consiglio un po’ di cose da vedere, ascoltare, leggere per scivolare di nuovo nella routine lavorativa.
Partiamo.

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LIBRI

Parlarne tra amici – Sally Roonei

Mi colpisce sempre molto quando ragazzi così giovani riescono a scrivere dei romanzi con una lucidità e una profondità che mi risulta strano associare a un ventenne (e anche a me, a dire il vero).
Questa storia è una lunga riflessione sulle relazioni che va a beneficio di tutti, a prescindere dal proprio orientamento sessuale ed età. E la Roonei ha una scrittura pienissima, vivida, che sembra quasi di essere lì con loro.

Divorare il cielo – Paolo Giordano

Dopo tanti anni di acquisti su Amazon (e profili di Instagram di book blogger), questo consiglio mi è arrivato da una libraia: È stata lei che mi ha detto che  i due protagonisti, Teresa e Bern, sono degli altri numeri primi, proprio come quelli del primo libro di Giordano, e che per chi è nato negli Anni Ottanta riesce a rivedere in quella storia (seppure assurda) la propria storia.
E in effetti è così.

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FILM

I, Tonya

Il film sulla pattinatrice Tonya Harding è entrato subito tra i miei film preferiti dell’anno. Ho iniziato a sentirne parlare molti mesi prima, e all’inizio non mi aveva convinta, poi, man mano che passavano i mesi, mi ha incuriosita sempre di più, finché ho visto il trailer, e la violenza dei dialoghi tra i protagonisti con Goodbye stranger in sottofondo mi ha dato il colpo di grazia.

Dogman

Volete leggere per l’ennesima volta di quanto commovente è stato il discorso di Marcello Fonte a Cannes? O quanto Edoardo Pesce sia un camaleonte e di come si è trasformato per diventare il tremendo Simoncino?
No, queste cose le sapete già tutti. Io vi dico solo che, se non avete mai visto un film di Garrone, è il caso che iniziate. Perché i film di Garrone sono la vita.

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SERIE TV

Atlanta

Io Donald Glover manco sapevo chi fosse. Poi è uscito il video di “This is America” e ho scoperto che ha uno pseudonimo come rapper e si fa chiamare Childish Gambino e spacca e fa parlare un sacco di sé.

Allora ho deciso di recuperare Atlanta, dove lui fa tutto: l’ha inventata, ci ha messo i soldi, e pure la faccia.
La trama è semplice: due cugini spiantati cercano di farsi strada nella scena musicale rap di Atlanta. È una commedia, è molto divertente, è scritta benissimo e Glover, beh, fatemi sapere com’è Glover.

The Handmaid’s Tale

Che dire, questa per me è LA serie, dell’anno, forse della vita.
È arrivata al momento giusto con l’argomento giusto, è tagliente, fredda, ti strappa le viscere e ti costringere a riflettere sul mondo in cui viviamo e sui suoi pericoli.
La seconda stagione non perde un colpo, e non cala per nulla di qualità rispetto alla prima.
Avevo già fatto qualche riflessione sul Racconto dell’Ancella versione televisiva, adesso attendo di leggere il libro della Atwood.

 

E, per concludere, una manciata di dischi a vostro uso e consumo che ho ascoltato tantissimo negli ultimi mesi.

Questi non ve li spiego, perché tanti manco sono di quest’anno, anzi, ce n’è uno che ha quasi trent’anni.

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Buona fine estate a tutti e ci rivediamo col fresco.

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Lenny Kravitz all'Arena di Verona

Di musica, energie, investimenti

La mia vita musicale è iniziata alla fine degli Anni novanta.
Ero alle scuole medie, ancora non avevo un gusto preciso ma mi facevo guidare da MTV, che mi provocava amori fatui per canzoni e band che sarebbero scomparse in un soffio (ma che se risento per caso conosco ancora a memoria).

Qualcuno però è rimasto, e il pensiero che sono vent’anni che ascolto gli stessi musicisti, lo ammetto, mi emoziona un po’.
Se poi riesco anche a chiudere il cerchio e a vedermeli dal vivo, beh, è la volta che mi commuovo.

Come quando lo scorso novembre sono stata al concerto dei Jamiroquai.

O poche settimane fa in cui mi sono tolta la soddisfazione di vedere lo show più spettacolare della mia vita:
la tappa milanese dell’OTR II tour di nientepopodimenoche Beyoncé e Jay-Z.



Oggi scrivo dopo aver visto un altro sempreverde della mia vita musicale, uno che è sempre rimasto in secondo piano rispetto ad altre band, ma che non mi ha mai abbandonata, dall’uscita di 5 e di quel video sexyssimo con Milla Jovovich che non capivo ancora quanta agitazione ormonale potesse provocare.



Ecco, ho visto dal vivo Lenny Kravitz all’Arena di Verona, e mi ha dato un’energia che a qualche giorno di distanza ancora non è scaricata a terra.

E la cosa ha provocato effetti a catena inaspettati.
Sono più felice, quindi ho lavorato con più convinzione, dormito meglio, sono più lucida.
Tutto solo per due ore di musica dal vivo? Esatto.

Proprio di questo parlavo il giorno dopo con un’amica, mentre cercavo con una matta su eBay il disco di quel 5 che tanto ho ascoltato in tutti i formati ma che temo non sia mai stato stampato su vinile: i soldi spesi in concerti sono un lusso che non mi leverei per nulla al mondo.

La musica dal vivo provoca una risalita di endorfine come nient’altro.
Per questo è un vero investimento in benessere (anzi, credo che qualche ricerca abbia confermato che riduce i livelli di stress… e chi non ha livelli di stress da ridurre?).

Perciò, fatevi un favore, alla prossima occasione, regalatevi il biglietto di un concerto.
Qualsiasi cosa vi piaccia, musica classica, heavy metal, pop (basta che se poi andate da Fedez e J-Ax non me lo venite a raccontare), e vedrete come vi svolta la giornata, la settimana, forse anche un po’ la vita.

Ah, poi se volete un consiglio, scegliete qualcuno che ci dà dentro di chitarra elettrica.
Perché credetemi, non c’è niente come una chitarra elettrica suonata come si deve.






La foto di copertina è presa dalla pagina Facebook di Lenny Kravitz.

Tredici seconda stagione Netflix

Tredici: la forza dei ruoli secondari

Non posso scrivere questo pezzo senza parlare della trama della seconda stagione, quindi sì: se continuate a leggere vi beccate gli spoiler. Poi non ditemi che non vi avevo avvertito.

Tredici è un prodotto seriale che, nonostante i numerosi difetti, continua a interessarmi e incuriosirmi, tanto da essere la prima volta che qui parlo due volte della stessa serie tv.

Il tema principale della prima stagione è controverso e molto delicato: un’adolescente, Hannah Baker, si suicida, dopo aver subito ripetuti atti di bullismo da parte dei suoi compagni di scuola, enfatizzati dall’incapacità degli adulti di cogliere i campanelli di allarme.
Prima di togliersi la vita, registra nove cassette, indirizzate a ognuno di quelli che lei ritiene i colpevoli, e racconta gli episodi che li hanno visti coinvolti.

Il calderone della seconda stagione

Mi sono approcciata alla seconda stagione in modo molto scettico, perché temevo l’effetto allungamento del brodo, e purtroppo non mi sono ricreduta.

Qui assistiamo al processo che vede contrapposti i genitori di Hannah alla scuola, a cui fanno causa per la morte della figlia.
Lo spettro dei temi affrontati si amplia, e si focalizza soprattutto sulle molestie e gli abusi sessuali da parte del capo della squadra di baseball (Bryce Walker) nei confronti non solo di Hannah, ma di numerose altre ragazze, tra cui Jessica Davis, una degli accusati da Hannah nella prima stagione.

Oltre a questo si parla apertamente di dipendenze da droghe, problemi razziali, salute mentale, omosessualità, possesso di armi e stragi nelle scuole.
Sì, è un grosso calderone in cui c’è di tutto, e in cui alcuni temi sono trattati meglio, altri meno, e l’ultima puntata cerca di farne un riassuntone un po’ forzato.

Poche cose riescono ad essere d’impatto, come ad esempio, l’ultima scena dedicata al processo, in cui al discorso di Jessica contro Bryce si sovrappongono i racconti di abusi di tutte le donne protagoniste della serie.

Hannah e Clay di Tredici

Due protagonisti insopportabili
I due protagonisti (Hannah e Clay) sono ormai insostenibili.
Hannah, da morta, si manifesta all’amico, ma non si capisce a che scopo: non aiuta nello svolgimento della trama, né lo fa impazzire del tutto, come sembrerebbe nelle prime puntate.

Nella prima stagione era trapelato che Clay avesse sofferto di depressione, ma qui si trasforma all’improvviso in un piccolo eroe senza macchia e senza paura, che arriva persino, da solo e in maniera del tutto irrealistica, a sventare una strage al ballo della scuola.

Ruoli secondari che brillano
Come spesso accade, a protagonisti insipidi si contrappongono ruoli secondari notevoli.
In questo caso, due personaggi che secondo me funzionano molto bene sono quelli di Alex Standall e Tyler Down.

Alex Standall di Tredici

Alex Standall (interpretato da Miles Heizer)
Il personaggio più interessante da subito, nella prima stagionè stato ignorato da tutti, compresi noi spettatori, perché troppo concentrati sulla morte di Hannah.
Sono passati inosservati il disagio, il senso di colpa e la fragilità del più umano e realistico di tutti i personaggi, tanto che nessuno si sarebbe aspettato il tragico tentativo di suicidio dell’ultima puntata.

Nella seconda stagione, Alex dopo essere sopravvissuto, e l’attore affronta con garbo lo sviluppo del suo personaggio, la sua disabilità e la perdita di memoria causati dall’incidente, ma anche il rapporto contrastato con gli amici e con qualcosa che assomiglia all’inizio di un amore.

Nervoso ma placido, rassegnato ma combattivo, timido ma in realtà il più coraggioso di tutti: Alex vive un caleidoscopio di emozioni molto vere, ed è l’unico credibile di tutta la serie.

Tyler di Tredici
Tyler Down (interpretato da Devin Druid)
Quella di Tyler è una storia parallela a quella principale, e ha una parabola molto coerente e credibile: dalle prime accuse di stalking nella prima stagione, arriviamo a scoprirne il disturbo ossessivo-compulsivo e la passione per le armi.
E, dal primo momento in cui ne prende in mano una, sappiamo già come andrà a finire.

Vittima di un bullismo continuo, trova una parvenza di salvezza quando incontra l’amico punk e la ribellione (vabbè), con cui combina qualche guaio, come andare in giro per la scuola con una maglietta auto prodotta con scritto assholes.
Ma quello che i due architettano insieme è sempre troppo poco per lui, che vorrebbe un alleato per vendicarsi davvero degli stronzi della scuola.

Devin Druid è perfetto nel mostrarci la sua costante inquietudine che vibra sotto pelle e che non trova mai sfogo, ma anche la vergogna e l’incapacità di avere a che fare con le coetanee (la scena dell’appuntamento al cinema è da manuale), che acuisce ancora di più la sua infelicità.

All’apice della disperazione, sarà costretto a passare mesi al riformatorio e da lì tornerà solo in apparenza tranquillo, ma riflessa negli occhi avrà una nuova, inquietante, vacuità.

L’ultimo episodio di violenza che è costretto a subire, così crudo da farti distogliere lo sguardo, farà eruttare tutto il marcio e la sofferenza sepolta negli anni, e gli farà prendere la decisione di imbracciare il mitra e prepararsi alla resa dei conti.

E poi, diciamolo, Devin Druid ha la faccia adatta ai ruoli alla Edward Norton, e di fronte a lui vedo un futuro roseo fatto solo di assassini, psicopatici e alienati di vario genere.