Il mio primo amore sono stati i Beatles.
Dall’adolescenza in poi, li ho sempre avuti accanto, in sottofondo o come colonna sonora portante, li ho cercati per sentirmi a casa, per rassicurarmi, per tranquillizzarmi. Anche con le loro canzoni più dure, più graffiate, più lennoniane.
Ero così fedele che per anni non ho voluto ascoltare i Rolling Stones perché mi sembrava di tradirli.
Ho scalato tutti i gradini per conoscerli sempre meglio, dai primi, timidi passi con il Greatest Hits che avevo comprato da piccola, agli album veri, le registrazioni, i libri, i gadget, l’Anthology, i concerti di Paul McCartney in cui mi sono emozionata come mai nella vita, i concerti delle cover band e l’apice di tutto: il viaggio a Liverpool solo per vedere i luoghi dove sono cresciuti.
Questo viaggio che non tutti avrebbero accettato è stata la creatura mia e di un mio ex fidanzato.
Insieme siamo stati, prima e sopra molte altre cose, soprattutto dei fan.
Una volta mi disse: “se ci lasceremo, come farò con i Beatles?”.
Quando gli chiedevano se preferisse Lennon o McCartney, rispondeva, ridendo, che era come se gli chiedessero se preferiva la mamma o il papà.
Io invece da piccola dicevo sempre Paul, ma crescendo il mio cuore è diventato di George Harrison.
(E comunque lo so che lui preferisce Lennon).
Dopo i Beatles è arrivato David Bowie, uno che una bambina non può capire, uno che scrive testi difficili, che è stato centinaia di persone diverse.
Mica come i Beatles, che si sono trasformati sempre in qualcosa di comprensibile: sono stati pettinati, spettinati, psichedelici, lisergici, barbuti, ma sempre, a loro modo, ordinati.
Bowie no, e la prima volta che l’ho guardato dritto negli occhi ho avuto un brivido.
David Bowie è uno che ti fa arrossire e abbassare lo sguardo.
David Bowie è sensuale, è erotico, una cosa che di certo i Beatles non sono mai stati.
David Bowie non ti dà certezze, ti riempie di dubbi. Torno da lui quando ho bisogno di pensare, di riflettere, di sentirmi male per poi sentirmi meglio.
Bowie è una parte di me che sta acquattata in un angolo e ogni tanto vorrebbe venire fuori, uscire dalle righe, sparigliare le carte, fare la rockstar, è quell’irrequietezza che ho sempre nella pancia da che ho memoria, che non so da dove venga ma si anima e si nutre di David Bowie.
Poi è successa una cosa, qualche anno fa.
È comparsa online la registrazione delle linee vocali di Under Pressure, la canzone che David Bowie ha registrato insieme ai Queen.
I Queen li ho sempre ascoltati senza attenzione, con la punta dell’orecchio.
Conoscevo, come tutti, quelle loro canzoni incredibilmente famose, che mi sembravano anche assurdamente semplici.
Avevo un amico che li alternava tra i suoi preferiti ai Metallica, forse perché cantava e suonava la chitarra elettrica, e poi è omosessuale, e io da stupida pensavo che fosse per quello che era così fissato con Freddie Mercury.
Quando ho sentito per la prima volta la registrazione delle linee vocali di Under Pressure mi è sembrato che quei due si incastrassero alla perfezione.
C’è Bowie che prepara il terreno, inonda lo spazio con una voce che si insinua dappertutto e riempie ogni crepa fino quasi a farla esplodere.
È un trampolino dove la voce di Freddie Mercury si lancia; prima si prepara in un angolo, fa dei piccoli passi, bussa alla porta e poi, all’improvviso, spalanca le finestre, spicca il volo e strazia il cielo.
Poi ho scoperto che, nello studio in cui stavano provando, Freddie aveva teso l’orecchio a Bowie che cantava e lui, che non voleva essere secondo a nessuno, si era buttato in quelle note così alte a mo’ di sfida.
Ho deciso in quel momento che volevo capirlo davvero, questo Freddie Mercury che il mio amico tanto amava.
Volevo riascoltarle meglio, quelle canzoni dei Queen che per me erano stati solo dei ritornelli da canticchiare.
Ed è allora che è cambiato tutto. Per mesi li ho vivisezionati, ho ascoltato centinaia di volte quella voce che copriva quattro ottave, quella che non poteva stonare neanche se voleva, che mi squarciava il petto ogni volta fino a farmi commuovere.
Che mi faceva venire voglia non di ballare, ma di mangiarmi lo spazio intorno, di farmi crescere le ali, di essere una shooting star, leaping through the sky.
Ho preso una sbandata per gli assoli di chitarra di Brian May: sentivo gli strumenti con la stessa dignità e potenza delle parti vocali, quasi fossero loro stessi un’altra linea di voce.
Ho diviso tutti gli strati di cui erano composti. Ho sentito il glam rock, l’hard rock, il progressive, il pop, i sintetizzatori, la batteria elettrica, il blues, Elvis, gli Zeppelin e l’opera, ho pescato dove andavano a pescare loro per cercare di capirli.
Ho visto decine di registrazioni dei loro live e ho capito, finalmente, chi fossero i Queen.
Ho capito che Freddie Mercury era di un altro mondo, che se lo ami, lo puoi amare solo alla follia, e che è stato fondamentale non solo per le sue scelte sessuali, o perché è stato tra i primi a morire di AIDS, o perché aveva quella giacca gialla lì e faceva quella posa là. Era molto di più: lui era chi cavolo voleva, sempre.
Quando ho deciso di tatuarmi, la me adolescente ha detto subito: Beatles.
Pensavo di dover onorare il primo amore, quello che non si scorda mai, ma dentro di me si era insinuato un tarlo e quel tarlo erano i Queen.
Sapevo che quando hanno registrato The show must go on Freddie era già malato, che quella canzone l’aveva scritta Brian May mentre vedeva l’amico appassire di giorno in giorno e che era un momento durissimo per tutti e due.
È un pezzo che tocca delle vette quasi oniriche, è tragico ma c’è la promessa dell’eternità.
È una lettera d’amore per un amico, e poi l’amico l’ha cantata come epitaffio della sua vita terrena.
E quando arriva il bridge riesco a immaginarlo, lui, che sul finale alza la testa verso il cielo, e disperde la voce nell’aria, pronto a farsi riprendere dagli altri:
My soul is painted like the wings of butterflies
Fairy tales of yesterday will grow but never die
I can fly my friends.
Eccola. Quella era la cosa che stavo cercando per me.
Ho scelto la parte centrale della strofa, dove stanno le fiabe che non muoiono, ma invecchiano insieme a me.
E così anche le persone che non ci sono più, gli anni che sono sfuggiti, i progetti che non hanno mai preso il volo, i ricordi nelle parole degli altri, le amicizie che sono sfumate negli anni e quelle che restano, i sogni irrealizzabili e quelli che sto realizzando, tutto quello che mi sono lasciata dietro le spalle, ma che mi ha resa la persona che sono adesso.
Ho tradito il primo amore con l’amore dell’età adulta, ma non credo che me ne vorranno male. Perché ci sono anche loro, ci sono tutti, dentro quella storia che ho deciso di portarmi addosso e di far invecchiare con me.
Perché voglio andare avanti, e anche quando il trucco si sfalda, tenere sempre addosso il sorriso.
Ah, se volete vederlo, il tatuaggio è qui.
Solo uno:
BOB DYLAN
😊
"Mi piace""Mi piace"
Dirò una cosa antipatica. Io ci ho provato con lui, giuro, ma non sono mai riuscita ad apprezzarlo. 🤔
"Mi piace"Piace a 1 persona
I gusti sono gusti e con Dylan non esistono vie di mezzo. O piace oppure non piace.
Byee!
"Mi piace"Piace a 1 persona
Sono molto d’accordo con te 🙂
"Mi piace""Mi piace"
Ho letto il tuo articolo e mi sono ritrovata in ogni parola, credevo quasi di averlo scritto io stessa! Stessi amori, nello stesso ordine cronologico, per gli stessi motivi… e sto per tatuarmi “my soul is painted like the wings of butterflies”! È incredibile 😂
Quant’è bella e magica la musica…
"Mi piace"Piace a 1 persona
Non ci credo! 😀 È una cosa talmente bella che sembra finta. A questo punto quando ti tatui voglio vedere la foto 😉
"Mi piace""Mi piace"
La avrai! 😁
"Mi piace""Mi piace"