Non esiste un genere cinematografico che non mi piaccia per partito preso.
Passo senza problemi dal musical ai supereroi, dalla commedia romantica ai film d’exploitation (quelli violenti, via).
Per me è forse più una questione di regista, o di attori. Se mi affeziono, li seguo ovunque vadano (cosa che spesso mi porta a vedere anche delle gran schifezze, ma questo è un altro discorso).
Il genere cinematografico per me è interessante soprattutto come oggetto di studio, più che come preferenza in senso stretto, e così lo è l’autore che dentro quello specifico genere ha immerso le mani, lo ha plasmato, se non addirittura se lo è inventato.
E quindi, non potevo tirarmi indietro di fronte alla monografia di Roberto Donati, edita da Gremese Editore, dedicata a “C’era una volta il West” di Sergio Leone, uno che di genere ne sapeva più di qualcosa .
C’era una volta il West
Il film ha compiuto cinquant’anni nel 2018 e, diciamocelo, non invecchia mai.
Basta fare qualche nome di chi ci ha lavorato: le musiche sono di Ennio Morricone, alla sceneggiatura hanno collaborato Dario Argento e Bernardo Bertolucci, tra gli attori ci sono Claudia Cardinale, Henry Fonda, Charles Bronson, Jason Robards e Gabriele Ferzetti.
È considerato il commiato nostalgico del regista non solo a un genere di cinema di cui i suoi film sono un archetipo, il western all’italiana, ma anche a una certa idea di America, di frontiera, di eroi, che stavano lentamente mutando sull’onda del progresso, rappresentato dalle ferrovie e dai treni.
Prima di C’era una volta il West
Roberto Donati ci accompagna, scavando capitolo dopo capitolo a livelli sempre più profondi di analisi, dentro questo West che sta cambiando nelle mani di Leone.
La cosa che mi ha colpito subito di questo volume è che dà l’idea che l’autore avesse talmente tante cose da dire da usare ogni spazio a disposizione nella pagina per aggiungere qualche considerazione: ogni nota, ogni didascalia alle immagini e riquadro di approfondimento è da spulciare per scovare ulteriori riflessioni sul film.
Ci racconta anche cosa c’è stato prima e cosa ci sarà dopo questo film, e lo sguardo che posa su questo lavoro è personale e appassionato, ma non acritico, nei confronti di un autore che conosce come le sue tasche (o la sua fondina).
L’introduzione è il diario di lui bambino che scopre il cinema di Leone.
Inizia già qui a parlare della Trilogia del dollaro, composta da Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto e il cattivo, necessari per capire la seconda trilogia di cui fa parte C’era una volta il West, quella definita “del tempo” o “della nostalgia”.
Questi primi tre film anticipano i temi della seconda trilogia, che lì però verranno trasformati e trasfigurati.
Donati descrive i duelli della Trilogia del dollaro come dei cartoni animati, la morte come quella nei giochi dei bambini che mimano la pistola con le dita e si rialzano un minuto dopo essere stati colpiti, e una struttura alla guardia e ladri in cui tutti vogliono essere i ladri.
Nel prologo, invece, leggiamo com’e nato il regista che conosciamo attraverso le influenze non solo del tempo in cui è cresciuto (gli Anni Trenta, il fascismo), ma anche del padre, regista di melodrammi.
Dopo una carrellata sui suoi primi film, di genere cosiddetto peplum, (colossal “storici” italiani nati negli Anni Cinquanta), entriamo nel vivo del racconto e dell’analisi di C’era una volta il West.
Saliamo a cavallo, dunque.
La poetica di Sergio Leone
Il marchio stilistico del regista è ben impresso nella mente di chi conosce i suoi film, come le simmetrie nelle inquadrature di Kubrick, la “faccia Spielberg” o il profilo di Hitchcock: quando i tempi di certe scene sono dilatatissimi e i primi piani strettissimi sui volti dei protagonisti, quello lì è Sergio Leone.
Il suo universo è quasi sempre un mondo arcaico che deve piegarsi all’avanzare del progresso, a cui l’uomo guarda, generalmente, con sfiducia.
Un mondo in cui il tempo scorre inesorabile e viene enfatizzato proprio dalle lunghe scene e dai lunghi silenzi dei suoi protagonisti.
Gli eroi sono individui cinici, il dollaro è più potente della colt, lo spazio è gigantesco ma allo stesso tempo claustrofobico e, ad aleggiare sopra tutto e ad accompagnare per mano ognuno dei personaggi, o forse, il personaggio principale, c’è sempre la Morte.
Per capire Sergio Leone basta forse solo questa frase estratta dal prologo del libro:
“(…) all’inizio di ogni film di Leone scatta, quasi automaticamente, anche il conto alla rovescia e la banale scritta “fine” porta con sé, inavvertite perché nascoste tra le righe, la tragedia e l’implacabile angoscia da fine dei tempi. (…) durante i suoi film si respira letteralmente aria di morte (…)” (pp. 43-44)
Di cosa parliamo quando parliamo di West
La parte più consistente e approfondita di questo volume riguarda l’analisi delle scene chiave del film, sviscerate sulla base dei grandi temi che percorrono la narrazione (tra gli altri, quello dei ritorni, l’assenza, il silenzio, la ferrovia, il paesaggio, l’acqua, e, naturalmente, la morte).
Molto interessante, in particolare, il paragrafo L’arrivo di un treno alla stazione di Flagstone, forse il momento più simbolico del film, in cui compare il personaggio di Claudia Cardinale, l’ex prostituta Jill.
Non seguiamo, infatti, solo il suo arrivo in città, ma, simbolicamente, la sua, e la nostra, presa di consapevolezza di quello che è (ed era) il West.
Un West che, né glorioso, né tantomeno eroico, è piuttosto:
“ (…) polveroso come d’abitudine, ma l’ampia prospettiva fotografica ne rivela la conformazione cantieristica: un West alacre e fremente, abitato e pieno di attività, ormai quasi urbano, ricco di mezzi di trasporto (…) da “sentiero selvaggio” qual è stato, sta ora iniziando a civilizzarsi.” (p. 92)
E ancora:
“(…) chiuso in se stesso e dominato dal sudore, dalla fatica e di nuovo dalla paura (…)” (p. 93).
Un West dove i personaggi stessi simboleggiano quello che è stata e quello che l’America sta diventando. Da una parte chi segue il progresso, dall’altra chi è ancorato a vecchi schemi ormai passati, e quindi destinato a estinguersi. L’ironia dei precedenti film qui diventa ancora più tagliente, le frasi pesano come macigni e non lasciano spazio ad alcuna resa dei conti.
Di questo libro non vanno saltati nemmeno Ricordi e testimonianze ed Estratti Critici, in appendice alla sezione Materiali.
Qui, per esempio, scopriamo che Bertolucci ha scritto la scena della famiglia McBain che aspetta l’arrivo di Jill, poco prima di essere trucidata, e la scelta, fortissima, di interrompere il rassicurante frinire delle cicale come presagio della tragedia. O, ancora, sempre sua l’idea (e l’insistenza per farlo accettare) di mettere al centro della storia, per la prima volta, una donna.
È nell’estratto del critico Enrico Giacovelli che, invece, leggiamo della scelta inconsueta da parte di Leone di scritturare Henry Fonda, buono per antonomasia, per interpretare il killer sadico (e aggiungo io, a cui il regista disse di tirarsi via i baffi, le basette e le lenti a contatto che si era messo il primo giorno di riprese per nascondere i suoi occhi chiari, secondo la sua idea di come doveva essere un cattivo).
Insomma, 128 pagine che però sembrano il doppio. È questo quello che succede, quando si ama tanto una materia: non si smetterebbe mai di parlarne.
C’era una volta il West di Sergio Leone, di Roberto Donati è disponibile sul sito di Gremese e anche su Amazon.